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lunedì 23 settembre 2019

Chasin' wild horses - Buon compleanno, Bruce.

Scendemmo e, una volta usciti, raggiungemmo l'abbeveratoio dei cavalli. Mio padre si lavò il sangue e si strofinò la faccia, poi risalimmo sul furgone. Si mise al volante e si diresse in centro a Holt, a un negozio di liquori che si chiamava Payday, dove comprò una bottiglia di whiskey e qualche birra. Le mise in un sacchetto di carta. Poi tornammo in campagna e fermò il furgone in cima a una collinetta sabbiosa in un pascolo. (Kent Haruf - Vincoli)

Affittai una camera in un albergo a breve distanza dalla strada dei locali notturni. Per due dollari mi rifilarono una stanza a piano terra con vista sull'oceano, un letto con un materasso sottile, un lavandino e la chiave del cesso sul corridoio. Misi i miei ricambi nel cassettone e, uscendo, mi strappai due capelli dalla testa. (James Ellroy - Dalia Nera)

A ovest, per tutta la notte, lampi ramificati scaturiti dal nulla tremarono dietro i cumulonembi di mezzanotte, illuminando a giorno il deserto lontano di una luce bluastra, e contro l'orizzonte balenante le montagne si stagliavano dure e nere e livide, distanti e aliene come terre la cui vera geologia non era la pietra ma la paura. (Meridiano di sangue - Cormac McCarthy)

Al lavoro era dura. Di pomeriggio svaniva la nebbia e il sole picchiava. I raggi si spostavano dall'azzurro della baia verso quella specie di vassoio formato dalle colline di Palos Verdes, ed era come una fornace. Nel conservificio era peggio. Non c'era aria fresca, neanche quanto bastava a riempire una sola narice. (La strada per Los Angeles - John Fante)

Per capire Western Stars bisogna partire da qui.
E forse da un pugno di film. Crazy Heart, con uno straordinario Jeff Bridges nei panni di un musicista country in declino; I Cowboys con un vecchio John Wayne e le musiche di John Williams; Il Lungo addio di Robert Altman (sempre con le musiche di John Williams); The Wrestler con Mickey Rourke (e la bellissima omonima canzone dello stesso Springsteen); Verso il sole ovvero l'ultimo film di Michal Cimino.
Cose diversissime fra loro ma accomunate dal senso della fine, da personaggi che vivono sul limitare dell'ultimo giro di giostra.
Springsteen ha fatto il suo disco più bello degli ultimi vent'anni. Un disco molto diverso da quel che aspettavamo. Un disco che nasce dentro alle pieghe più nascoste e oscure della sua autobiografia e come coerente prosecuzione dell'incredibile spettacolo teatrale di Broadway.
Western Stars è al tempo stesso la cosa più vicina a Nebraska e la più lontana. Dove la musica di Nebraska era scarna e poco prodotta in Western Stars ci sono arrangiamenti e orchestrazioni ricchissimi, una produzione magnifica e a volte lussuriosa. Il disco del 1982 andava alle radici del folk tradizionale americano, anche se in fondo era permeato di una patina proto-punk e new wave (si pensi ai Suicide). Western Stars è invece un disco in cui la matrice folk vira verso un certo pop cantautorale, verso la California delle grandi colonne sonore hollywoodiane più che della psichedelia.
Eppure questa scelta si rivela, lentamente, ascolto dopo ascolto, come coerente alle storie raccontate. Perché qui le stelle dell'ovest sono sì quelle del deserto ma anche le stelle che non ce l'hanno fatta, attori di serie B, cantanti dimenticati, anti-eroi che hanno perso pure l'ultimo treno. Ma sia chiaro: bollare i personaggi dell'ultimo Springsteen come i "soliti" perdenti di Darkness o di The River non ci aiuta a capire che qui siamo oltre.  
Western Stars è infatti un disco che parla di vecchiaia e di depressione, di una quotidianità molto lontana dagli omicidi di Charles Starkweather o dalle pistole di Johnny99.
È un disco di una verità e di una urgenza dolorose: Bruce ha 70 anni, non c'è più traccia in lui dell'icona pop degli anni ottanta, ma nemmeno del workin' class hero dei settanta. Con Western Stars siamo tornati a Tunnel of love, per certi versi, non a caso un altro disco meraviglioso ma fortemente incompreso: ci sono i dubbi, le incertezze, le ombre di un uomo solo in un momento di svolta. Là era un amore finito, qui è che siamo proprio al tramonto.
Tornerà la E-street, torneranno gli stadi, tornerà il dovere di portare in giro ancora una volta la fiaccola del rock'n'roll: sempre più pesante e sempre meno lucente. Ma il viaggio del Bruce scrittore di canzoni ha senso invece oggi fra le strade desertiche di Western Stars, mentre si perde lungo questi binari, quando se non è il capolinea poco ci manca.
Non è un caso, non può esserlo, che il disco sia cantato da dio. Non ha forse mai cantato così bene Bruce Springsteen, e questo ha semplicemente dell'incredibile.
I woke up this morning è un verso che ritorna spesso nel disco, ma sbaglia chi lo associa ad uno stanco cliché blues, ad un'assenza di idee: alzarsi dal letto è un impresa titanica per chi soffre di depressione, e di questo si sta parlando; chi ha letto la sua potente autobiografia sa quale sia il demone che accompagna la vita di Springsteen.
Bruce è invecchiato e non lo nasconde più, anzi ce lo sbatte in faccia. Siamo invecchiati anche noi con lui. Le storie, bellissime e cinematografiche, raccontate in questo disco ci ricordano - ancora una volta! - a che punto siamo della strada, dove sono arrivati Wild Billy, Mary, Terry, e noi con loro. Con una coerenza ed una verità disarmanti queste storie, che sarebbero da far studiare ai tanti finti songwriters di oggi, ci ricordano che là dove un tempo c'erano auto in corsa verso la libertà oggi ci sono pillole e whiskey nascosti dentro sacchetti di carta.
C'è un altro libro che Western Stars mi ha ricordato, un altro libro che parla di deserti e persone sole che lottano contro demoni interiori o ricordi del passato. Si chiama Lullaby Road di James Anderson. È la storia del camionista Ben Jones che fa il postino privato lungo la statale 117 in mezzo a chilometri e chilometri di deserto nello Utah. A Ben Jones succedono cose, finisce col ritrovarsi per caso dentro a una brutta brutta storia. Ma nella quotidianità del fare il proprio lavoro al meglio, nel fronteggiare con dignità un destino che ha sempre qualcosa di inesorabile, Ben Jones troverà la forza per andare avanti, proprio come gli eroi blue collar del boss, proprio come le ex-stelle di un west che non esiste più. Un'altra piccola pagina del grande romanzo americano.

Tutti hanno una buona stella. Anche se continuavo a ripetermi quanto fossi sveglio ed esperto per guidare nel deserto, sapevo che era solo la fortuna a fare la differenza.
A un cero punto, durante la notte, la strada si era confusa con il deserto proprio come sapevo che sarebbe successo. È opinione comune che in caso di guida a visibilità zero il conducente debba stare  
nella scia del veicolo di fronte a lui, o seguirne i fanali, se riesce a vederli. Sulla 117 era raro avere qualcuno da seguire, e comunque non ero uno a cui piaceva star dietro agli altri. Un paio di volte, in passato, al valico di Soldier Pass, una fila di veicoli aveva seguito il capogruppo fino a cadere da uno strapiombo. Se dovevo finire in un burrone, non avevo certo bisogno di qualcuno che mi indicasse la strada. Preferivo essere stupido da solo. Si fa prima.
(Lullaby Road - James Anderson)

mercoledì 21 marzo 2018

Springsteen on Broadway

L'altro giorno girovagando per il web in modo del tutto casuale mi sono imbattuto in un post di Ermanno Labianca, figura storica dello springteenianesimo italiano ed internazionale (fondatore della storica fanzine Follow that dream) oltre che giornalista e discografico, evidentemente di ritorno dallo spettacolo teatrale di Bruce.

Ti passano davanti la sua e la tua vita. Con lui, torni anche tu tra le altalene, davanti all’albero che ti ha visto crescere e che non puoi più abbracciare perche’ li e’ rimasta solo l’aria che lo faceva respirare e rivivi i punti alti e i più bassi del tuo cammino. È stata un’emozione che per ora posso descrivere solo così. Credevo di avere visto tutto: non avevo mai visto Bruce Springsteen asciugarsi dagli occhi qualcosa che non fosse sudore.
Non e’ soltanto uno storytelling, non e’ un rock’n’roll show e non e’ l’esposizione acustica di canzoni nate in altro modo.
È una resa dei conti.

Mi sono reso conto che a giugno saranno trent'anni dalla mia prima volta con Bruce sul palco (era a Torino l'11 giugno del 1988) e che da allora fondamentalmente ho visto tutte le sue versioni live, con e senza e-street band, in elettrico ed in acustico, in grandi stadi o piccoli teatri, in Italia oppure all'estero. L'ho incontrato, aspettato, ascoltato, toccato e ammirato per 32 volte.
Questa volta no.
Il Bruce teatrale non riuscirò a vederlo. Per varie ragioni. Economiche, lavorative, familiari.
E però ha ragione Ermanno Labianca, ho come l'impressione che questa a Broadway sia davvero una resa dei conti: con la propria vita, coi propri fantasmi, con il tempo che passa inesorabilmente. Emergeva chiaramente tra le pagine dell'autobiografia Born to run e si è palesata, forse per la prima volta con grande nettezza, a Roma, al Circo Massimo, nel luglio del 2016. Un concerto meraviglioso, forse uno dei più belli, anche per quell'emozione sottopelle che sembrava non passare mai, fin dall'inizio con un Bruce commosso come non lo avevo visto mai, alla fine di NYC Serenade, guardando un pubblico oceanico come dovesse essere l'ultima volta.
E così, all'improvviso, ho capito che non sono pronto.
Non sono pronto per questa resa dei conti.
Non sono ancora pronto per la fine del sogno.


lunedì 22 luglio 2013

Springsteen&I

Esce oggi nelle sale di tutto il mondo Springsteen&I, un documentario prodotto da Riddley Scott che parla dei fans di Bruce Springsteen. Da quel che ho sentito in giro per la rete il film prova a spiegare ciò che non è spiegabile. Per esempio cosa porti due quarantenni padri di famiglia a prendere un aereo per Cork, cittadina semisconosciuta dell'Irlanda, per vedere il Boss per la ennesima volta (29? 30? ho perso il conto...) festeggiando i venticinque anni dal loro primo concerto.
Che sembra stupido, ma non lo è affatto.
Ha a che fare col salvarsi la vita, quando sei adolescente e non sai veramente chi sei e cosa vuoi. Ha a che fare col sentirsi parte di una comunità, quando invece il mondo parla altri linguaggi. Ha a che fare con la voglia di riscatto e di autenticità, in un mondo sempre più falso e preconfezionato.
Retorica? In qualche modo certamente sì.
Ma anche epica. Il racconto springsteeniano ha in sé la potenza della grande epica, quella che prende la vita e la rimodella per dargli un senso che vada oltre la realtà quotidiana.
Questa cifra "epica" è ciò che si respira in ogni concerto di Springsteen, che si sia nel piccolo teatro dove le canzoni vengono scarnificate e suonate acustiche, o nel grande stadio dove le canzoni si trasformano in momento di festa e di baldoria collettiva, o nel piccolo stadio irlandese dimenticato dal signore dove si possono vedere a occhio nudo gli effetti della crisi economica globale.
Sta qui l'unicità di Bruce. Che non sapeva suonare la chitarra come Hendrix, non sapeva cantare come Elvis, non sapeva scrivere come Dylan, ma ha preso i suoi talenti e li ha mischiati e frullati e intagliati in modo da costruire il più straordinario monumento della storia del rock'n'roll. Ma che, soprattutto, se ne va in giro per il mondo da più di quarant'anni come un aedo, come un menestrello, come un messaggero a diffondere l'epica del rock.
E allora capita che sei sotto al palco a ragionare di quel disco 2 di "The River" che hai letteralmente consumato e pensi che ci sono un sacco di canzoni che vengono suonate raramente. E poi c'è un ragazzo, Derek, che gira da tempo per tutta l'Europa con un cartello con su scritto "The price you pay". E succede che Bruce lo guarda, va in transenna e prende quel cartello. Risale sul palco e suona per la prima volta in Europa dal 1981 quella che è - per me - una delle sue più incredibili canzoni e soprattutto uno dei suoi testi più belli.
La magia si compie. Ed un'altra volta ancora ne è valsa la pena.

You make up your mind, you choose the chance you take
You ride to where the highway ends and the desert breaks
Out on to an open road you ride until the day
You learn to sleep at night with the price you pay

Now with their hands held high, they reached out for the open skies
And in one last breath they built the roads they’d ride to their death
Driving on through the night, unable to break away
From the restless pull of the price you pay

Oh, the price you pay, oh, the price you pay
Now you can’t walk away from the price you pay

Now they’d come so far and they’d waited so long
Just to end up caught in a dream where everything goes wrong
Where the dark of night holds back the light of day
And you’ve gotta stand and fight for the price you pay

Oh, the price you pay, oh, the price you pay
Now you can’t walk away from the price you pay

Little girl down on the strand
With that pretty little baby in your hands
Do you remember the story of the promised land
How he crossed the desert sands
And could not enter the chosen land
On the banks of the river he stayed
To face the price you pay

So let the games start, you better run you little wild heart
You can run through all the nights and all the days
But just across the county line, a stranger passing through put up a sign
That counts the men fallen away to the price you pay,
and girl before the end of the day,
I’m gonna tear it down and throw it away 

mercoledì 12 giugno 2013

domenica 1 luglio 2012

Growin' up with Bruce


Era il pomeriggio dell'11 giugno 1988 quando Massi, Paolo ed io entravamo, sedicenni, allo Stadio Comunale di Torino per inseguire il Sogno. Senza ancora sapere che da quell'esperienza ne saremmo usciti diversi. Sono passati gli anni, e la fiaccola del rock'n'roll ha continuato a girare per il mondo. Con alti e bassi, dentro a diluvi pasquali, dentro ai fantasmi di Tom Joad, fra le note di una Jungleland da sempre sognata, nella rabbia di un'America umiliata dall'11 settembre prima, e da un presidente idiota poi, nelle pieghe del folk delle origini,  con le illusioni di un nuovo presidente nero. Il rock, quella combinazione strana di musica e teatro, di poesia e fisicità, di sogno e realtà.
Ecco, siamo cresciuti con Bruce. Adolescenti, ragazzi, uomini, padri.
Così, a chiudere il cerchio, l'11 giugno 2012, esattamente ventiquattro anni dopo, entravo allo stadio Nereo Rocco con mio figlio Giacomo a vedere nuovamente il Jersey Devil dare tutto e di più in quella che è tuttora l'ultima grande messa del rock'n'roll.


giovedì 23 febbraio 2012

We take care of our own

Alla fine devo dire che dal vivo il pezzo c'ha un gran bel tiro.

venerdì 2 dicembre 2011

Padri e figli

Oggi è una di quelle giornate in cui mio padre mi manca di brutto.
Così, per caso, ho messo su l'ultimo CD del cofanetto live 75-85 del boss ed ecco che parte l'ormai leggendaria introduzione.

... Quando stavo crescendo io e mio padre litigavamo sempre, quasi su tutti gli argomenti. Ma... io avevo dei capelli davvero lunghi, scendevano oltre le spalle. Quando avevo 17 o 18 anni il mio vecchio li odiava veramente; quando ci mettevamo, litigavamo tanto che io finivo per passare molto tempo fuori di casa. E d'estate non era tanto male, perche' faceva caldo, e gli amici erano tutti fuori; ma d'inverno, mi ricordo quando stavo giu' in paese e prendevo un sacco di freddo ... e quando il vento soffiava avevo una cabina telefonica nella quale mi riparavo. E chiamavo la mia ragazza, qualsiasi ora fosse, solo per parlarle, anche tutta la notte... fin quando, finalmente, trovavo il coraggio di tornare in casa ... mi fermavo un momento nel viale, e lui era la' ad aspettarmi, in cucina. Io mi mettevo i capelli dentro il collo della camicia ,entravo... lui mi chiamava perche' tornassi a seder con lui. La prima cosa che mi chiedeva era cosa pensavo di fare di me stesso. E la peggiore cosa e' che non riuscivo mai a spiegarglielo. Mi ricordo che una volta ebbi un incidente in moto; mi ritrovai disteso nel letto, e lui fece entrare un barbiere che mi taglio' i capelli, e, ragazzi... mi ricordo che gli dissi che lo odiavo,e che non me ne sarei mai dimenticato. Lui mi diceva:"ragazzo, non vedo l'ora che ti prendano nell'esercito. Quando ti prenderanno nell'esercito faranno di te un uomo. Ti taglieranno i tuoi lunghi capelli e faranno di te un uomo". Questo successe, credo, nel '69. E c'erano molti ragazzi del vicinato che partivano per il Vietnam... Mi ricordo il batterista della mia prima band che veniva verso casa mia con indosso l'uniforme da marine dicendo che andava, e non sapeva dove... molti ragazzi partirono, e molti non tornarono; e molti di quelli che tornavano non erano piu' gli stessi. Mi ricordo, il giorno in cui arrivo' la cartolina di leva, la nascosi ai miei, e tre giorni prima della chiamata militare io e i miei amici uscimmo, restammo svegli tutta la notte.... e la mattina della partenza, tutti sull'autobus, eravamo cosi' spaventati... E andai... e mi scartarono! Tornai a casa... Non c'era niente che desiderassi tanto... mi ricordo il ritorno a casa dopo essere stato via tre giorni... entrai in cucina, mio padre e mia madre erano seduti li' dentro. lui mi dissa:"dove sei stato", io risposi che ero andato alla visita militare Mi chiese:" cosa ti hanno detto?" io risposi:"non mi hanno preso", e lui disse:" questa e' un'ottima cosa". 

Che poi parte quell'armonica che ti squarcia il petto e pensi che quella roba lì è la cosa più vicina all'idea di rock che ci sia mai stata. Lacrimuccia inclusa.

domenica 19 giugno 2011

R.I.P Big man

Una notizia che fa davvero male. Lui è stato un grandissimo. La copertina di Born to Run racconta tutto quanto....

Foto: Backstreets.com

mercoledì 1 dicembre 2010

Il cofanetto definitivo


The promise: the making of Darkness on the edge of town è il feticcio definitivo. Per un fan di Springsteen è come un viaggio in Borgogna per un appassionato di vino. Come un trip per un tossico. Un intero film, un intero doppio album di perle nascoste (sebbene conosciutissime dagli estremisti), un intero concerto del 1978, l'intero album risuonato live nel 2009, il disco originario rimasterizzato. E poi foto magnifiche, il notebook originario - su cui lavorava Bruce per scrivere i testi - riprodotto come solo dei geni del marketing potevano fare.
L'unico limite alla perversione: due piccole, innocenti, creature bionde con gli occhi azzurri, che mi impediscono di arrivare ai lettori CD e BluRay...

domenica 15 agosto 2010

Coincidenze

Adoro le coincidenze. Strani percorsi destinali che si intrecciano senza alcuna logica apparente.
Ieri è arrivata in agriturismo una famiglia di Milano per una settimana di ferie a La Distesa. Si parla per un pò. Scoprono che uno dei miei cani si chiama Bruce. "Come il cantante preferito del papà!" dice la mamma ai due piccoli più o meno dell'età di Giacomo e Giulia.
Si finisce a parlare col padre, allora. Classe 1972, come me. Primo Concerto: Torino, Stadio Comunale 11 giugno 1988, Bruce Springsteen&ESB. Come me. Ovviamente eravamo assieme, senza saperlo, ad una caterva di concerti di Bruce (fra cui un Nizza 1997). Ma anche al Palalido, 1994, per i Black Crowes. O al Castello di Villafranca, 1997, per un indimenticabile Bob Dylan.
Alla fine dopo tutte queste compresenze ci siamo incontrati davvero, dopo più di vent'anni, a parlare di Steve Earle. Davanti a una bottiglia di vino.
Il vino in questione era lo Stragaio 2006, Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Riserva di Fattoria Coroncino. Un vino davvero Stra. Stramaturo, Stralegnoso, Stramorbido, Straalcolico. Un Verdicchione possente alla Lucio Canestrari. Da una grande annata. Forse non è più il mio stile, davvero buono però... E la bottiglia è rimasta vuota.
Per la cronaca: appena tornati dalla Tunisia per una breve - troppo - vacanza abbiamo trovato pioggia e 18 gradi. Bene così.

venerdì 24 luglio 2009

La promessa

Rene van diemen Rome
La realtà è che non bisognerebbe mai mancare. Lo dice anche Ermanno Labianca in un bel post sul concerto torinese (che è possibile leggere su Backstreets.com). Aggiungendo, veramente cattivissimo, che se ti sei perso Drive all night a Torino puoi anche smettere di seguire Springsteen, ritirarti e passare il resto della tua vita a pescare o a cercare perle sul fondo del mare… Io ci aggiungo anche Streets of fire a Udine, giusto per farsi più male.
Sono, però, perversioni e fanatismi dai quali sto lentamente e con grande fatica cercando di disintossicarmi. Sia perché ci sono un lavoro ed una famiglia che non posso e non voglio lasciare per giorni e giorni, sia perché a sentire i veri die hard fans quasi ogni concerto è il migliore e quasi ogni scaletta è la più bella. Salvo essere smentiti al concerto successivo.
Cerco quindi di dimenticare i miei conti ancora aperti, dopo 24 concerti, con mr. Springsteen (racin’ in the streets, drive all night, stolen car ed una impossibile the price you pay…) e provo a fare un ragionamento razionale. In questo momento un concerto di Springsteen & ESB è ancora il miglior live act rock in circolazione. Inarrivabile per durata, potenza, ritmo, precisione, repertorio. Punto.
Premesso questo, sappiamo poi che Bruce è in grado di fare concerti molto diversi uno dall’altro per scaletta ed intensità ma tutti di un livello altissimo. Le differenze sono minime e soprattutto sono soggettive e relative alle sensibilità ed ai gusti di ciascuno. Trovo quindi piuttosto inutile stare a disquisire ore, giorni, anni su quale concerto sia stato il migliore, quali scalette più azzeccate, quali tours più indimenticabili. Anche io ho le mie preferenze ma di ogni concerto ho ricordi ed emozioni belle e forti. 
Il concerto di Roma di domenica scorsa, ad esempio, ha avuto una scaletta meno incisiva rispetto a Torino ed Udine, eppure è stato un concerto favoloso. La prima ora addirittura devastante per intensità, senza pause, senza fronzoli, con una Outlaw Pete incredibile, una Seeds pazzesca, più grande di quella a Torino 1988, con una Raise your hand integrale e una Pink Cadillac tutta da godere. La dedica all’Abruzzo è stata toccante, American Skin, suonata solo in Italia e in questo particolare momento, è un messaggio chiaro e netto sulle politiche della sicurezza e sul razzismo. Max Weimberg era in stato di grazia, così come un Big Man immobile o zoppicante ma che ha suonato divinamente. Certo, poi dalle richieste sono uscite cose un pò sconsiderate visto il contesto ma in un concerto di tre ore e con 28 pezzi, francamente ci può stare tutto, credo. La band e la belva feroce erano quelle che avevo lasciato un anno ed un giorno prima nel memorabile concerto di Barcellona a chiusura del tour europeo.
Risolta, dunque, la mia crisi invernale? Non del tutto.
I concerti sono davvero imperdibili. Arrivo a dire fra i migliori di sempre. Basti sentire questa Something in the night a Francoforte o quasiasi altro concerto di questo tour estivo (o del tour dello scorso anno). Bruce canta in modo stellare e la band è pazzesca, sera dopo sera dopo sera. Ciò non toglie che non riesco a vedere più una coerenza artistica in ciò che sta facendo Springsteen. E la coerenza è uno dei tratti che ha contribuito negli anni ’70 e ’80 alla costruzione del suo mito. La faccenda delle richieste, divertente in un primo momento, è diventata infatti il nucleo centrale dello show, il che muta completamente l’idea stessa di spettacolo. Perché non c’è più un artista che dà un taglio allo show, un concept, una linea interpretativa, ma ci sono, invece, una serie di pezzi e di “chicche” più o meno rare che escono dal cilindro su richiesta, stile juke-box. Così l’idea di questi show a me pare quella di un grande calderone di puro rock’n’roll, probabilmente il migliore in circolazione, che mischia greatest hits springsteeniani al meglio dei classici rock, soul, punk della storia e da cui esce una sintesi di 40 anni di musica pop. Figata totale da un certo punto di vista. Ma da un altra visuale ci si potrebbe chiedere quale sia il senso dell’operazione, artisticamente parlando. 
Io amo lo Springsteen che osa. Che incide Nebraska. Che a Torino suona Born to run acustica e indispettisce chi voleva The River e Thunder road sparando soul music da antologia e raccontando i fantasmi dell’amore. Che lascia a casa la band e chiede il silenzio sui pezzi di Tom Joad. Che fa un tributo a Pete Seeger nel pieno della amministrazione Bush. Forse sono incontentabile. Ma non mi piacciono i “greatest hits”. Non mi piacciono le operazioni a rischio zero. Non mi piacciono le star autoreferenziali, e Springsteen non lo è mai stato.
Dopo il fantastico Magic tour c’era bisogno di una pausa. L’ho detto e lo ribadisco. Pausa non è stata. E’ uscito un disco contraddittorio, ma con una certa linea pop orchestrale, a suo modo interessante e coraggiosa. Ma di questo disco sostanzialmente Bruce suona solo 2 o 3 pezzi a sera. Non era un disco da stadio, non era un disco per questo tipo di esibizioni. Ha senso l’operazione? Non lo so.
Io seguo Springsteen da quasi 25 anni. Ho goduto come una scimmia urlatrice a Roma. Però - forse - rispetto alla centesima Bobby Jean e alla settantesima Born to run avrei preferito una proposta live di questo disco in teatro, magari con una orchestra. Oppure, se dobbiamo omaggiare il passato, un concerto diviso in due parti con pezzi di Working on a dream e Magic nella prima e l’intera esecuzione di un disco storico nella seconda. Oppure se proprio vogliamo esagerare, un vero concerto concept sulla recessione che andasse da Darkness attraverso The river, Nebraska e Born in the USA fino al Fantasma. Sarebbe stato molto, molto, molto rock ugualmente, ma con un senso artistico immensamente superiore.
Ma in fondo sono solo riflessioni assurde. La realtà è che se il rock and roll non ha più molto da dire, i concerti di questo personaggio e dei suoi compagni di strada danno ancora senso a tutto quanto: alla promessa che è racchiusa in una chitarra elettrica, alla polverosa strada che abbiamo da correre.

venerdì 6 marzo 2009

La mia Bruce crisi

Non è la prima volta. E non sarà l'ultima. Ma certamente sono in piena Bruce crisi. Lo capisci quando la voglia di ascoltare l'ultimo disco non c'è; lo senti quando ti scorrono di fronte le date del nuovo tour e non riesci a deciderti; ti è chiaro mentre Massi ti lancia l'idea di andare a Dublino e tu tergiversi; ti è lampante quando ricominci ad ascoltare il bootleg di Genova '96.
Dunque, andiamo con ordine. Workin' on a dream non ha aiutato, questo è certo. Ma non è la causa. Il disco in sé contiene un paio di canzoni davvero brutte, ha un paio di canzoni inutili, ha dei suoni a volte discutibili. Ma ha anche un pugno di canzoni meravigliose, è suonato divinamente dalla prima all'ultima nota ed è pieno di idee e melodie. Non voglio entrare nel merito. E' uno Springsteen ancora diverso e, per certi versi, coraggioso. 
Il problema è un altro.
Il problema è che sono cresciuto che per avere un disco di Springsteen bisognava aspettare anche 4 anni. Sono cresciuto che per avere del materiale video bisognava scambiarsi loscamente VHS scoloriti in qualche fiera di settore. Sono cresciuto senza Greatest hits o Essentials o altre operazioni commerciali. Sono cresciuto che Springsteen non rilasciava interviste o, comunque, aveva un rapporto davvero minimale con la stampa. Alla fine degli anni ottanta sono cresciuto, cioé, con l'idea che Springsteen non fosse come tutti gli altri. Che fosse un alieno. Una cosa strana: assolutamente dentro al mainstream discografico ma al tempo stesso lontano anni luce da esso nelle scelte artistiche. 
Questa presenza/assenza significava una moltiplicazione assurda e fanatica del desiderio, che esplodeva nei concerti dal vivo (fino al 1996 davvero pochi in Italia) e nella isterica ricerca del bootleg definitivo. Ma significava anche, dall'altra parte, che ognuna delle parole scritte o delle note suonate aveva un peso semantico devastante. La leggenda di Bruce si è dipanata negli anni settanta e ottanta tramite i meccanismi potenti della creazione mitologica, per quanto concerne la densità di testi e musiche, e del passaparola per quanto concerne la comunicazione.
Negli ultimi anni, invece, è stato pubblicato di tutto. Raccolte, inediti, DVD, anniversari, progetti solisti, dischi tributo e chi più ne ha più ne metta. Articoli di giornale, retrospettive, interviste, apparizioni televisive, speciali radio e tivvù sono venuti di conseguenza. Si aggiunga a questo il fatto che dal 1999 in avanti, salvo rari momenti, il nostro è venuto in tour continuativamente in Europa ed Italia. A volte con risultati altalenanti (vedi tour 2003 e 2005). Tutta questa sovraesposizione se, da una parte, ha fatto riesplodere interesse per quella che a metà degli anni novanta era ormai solo una vecchia icona rock in fase decadente, dall'altra parte ha, a mio avviso, pesantemente modificato l'idea di uno Springsteen "indipendente" dalla discografia o dal sistema dei media.
La realtà è, quindi, che dopo il picco assoluto raggiunto con l'ultimo tour, uno dei migliori da 25 anni a questa parte, c'era bisogno di una fase di decompressione. Di una assenza. Di una riflessione. Di una sedimentazione. Specie in un momento di grande crisi in tutto il mondo. 
La dimostrazione di ciò sono i testi di Workin' on a dream: grande mestiere ma ben poche emozioni. Senza un senso, una direzione. Cosa vuol dire Springsteen con questo disco? Boh. Di fronte a una crisi senza precedenti, il più "sociale" di tutti i cantanti rock se ne esce con canzoni in gran parte allegre e spensierate, o comunque in gran parte intimiste... Proprio quando la carriera di un musicista è così "leggendaria" serve grande attenzione nel muovere qualunque passo. Poiché i gesti e le parole hanno un peso specifico differente. 
Si dice: Bruce voleva solo divertirsi e divertire con un disco leggero (mi vien da pensare: chissà allora il tour...). Bene. Ma ciò non toglie che poi il disco sia stato dato in mano a Wal-Mart per la distribuzione, con grande sorpresa dell'entourage Obama e dei tanti attivisti liberal per cui Springsteen è punto di riferimento; che sia stata fatta la mega-marchetta del Superbowl; che sia stato costruito un tour ben attento a creare sold-out facili, per esempio attraverso la scelta di località balneari o festival molto conosciuti (da sempre evitati da Springsteen); fino all'ultima pugnalata che riguarda Max Weimberg, il colpo di grazia: pare che Max possa saltare alcune date europee perché occupato col suo progetto MW7 in televisione. E pare che verrà sostituito. Ora, a parte il fatto che non esiste nessuno che possa sostituire Max Weimberg nella ESB... Il punto è: ok la scomparsa di Danny e la sua pronta sostituzione, ma la ESB non era la sacra famiglia? Non era "tutti per uno uno per tutti"? Non poggiava proprio sulla irriducibilità della band alle dinamiche classiche dei marchi discografici buona parte del mito Springsteen? 
Ed allora vien da chiedersi: che succede? Che cosa è successo in questi anni? Dove stiamo andando?
Le prime risposte verranno dall'impostazione delle scalette del tour americano che parte in aprile: di tutto abbiamo bisogno tranne che dei soliti pezzi triti e ritriti. Serve un'idea. Serve una impostazione chiara nella scelta di brani che abbiano una coerenza ed un filo conduttore. Serve uno Springsteen che abbia ancora qualcosa da dire. Dell'ennesimo artigiano non sentiamo grande necessità.

giovedì 30 ottobre 2008

Barack Obama ed il sogno americano

Ho già parlato di Obama in questo blog. L'ho fatto quando ancora sembrava impossibile la sua vittoria alle primarie. Almeno dal 2004, quando tenne un notevole discorso alla convention democratica per John Kerry, ho seguito la carriera di questo politico. Il motivo è semplice: Barack Obama rappresenta, nel bene e nel male, il sogno americano. Che si ami l'America o che la si odi, quel che è certo è che questa idea è stata uno dei perni centrali dell'egemonia economica e culturale degli Stati Uniti nel secolo scorso. Non so se sarà così in futuro ancora. Non lo credo. E però la figura di Obama riporta al centro del discorso politico la capacità delle società e delle comunità di offrire delle "possibilità". Al centro del sogno americano non sta tanto l'idea di "successo", che invece è una sua fuorviante degenerazione, ma l'idea che ciascun essere umano ha diritto almeno ad una possibilità. E qui sta anche la misura del suo fallimento: perché Obama è in realtà l'eccezione in un paese che, al contrario, ha smesso da tempo di offrire possibilità e scelte ai suoi cittadini ed ai cittadini del mondo.
Mi piace molto la capacità dialettica, la retorica, del candidato democratico. Non sono d'accordo con molte delle sue idee. Certamente non è un pericoloso estremista di sinistra come cercano di descriverlo i Repubblicani. Al contrario, è un moderato. Ma la sua importanza, la sua forza devastante, è quella di rappresentare, anche fisicamente, il cambiamento, dopo i disastri degli ultimi otto anni. 
Ricordo perfettamente la prima elezione di Bush (ero in partenza per l'Etiopia, con mio padre, ne parlammo a lungo, sorpresi) - tra l'altro sto leggendo il bellissimo Uomo nel buio di Paul Auster che colloca quell'evento all'inizio di una immaginaria, ma neanche tanto, nuova guerra civile amaricana. 
Ricordo la seconda elezione di Bush, dopo essere stato in America con l'amico Daniele Tenca a sostenere John Kerry partecipando al Vote for Change tour. Sembrava davvero che l'america democratica si fosse risvegliata.
Sono molto timoroso, quindi, nell'esprimere giudizi sul prossimo voto. Non mi fido dei sondaggi, né del sistema elettorale americano. 
Ma se Barack Obama verrà eletto, so che come Presidente degli Stati Uniti d'America avrà una cosa che non è appartenuta a nessuno dei suoi predecessori. Non è il colore della pelle. E' l'indipendenza dal sistema delle lobby economiche. La campagna elettorale di Obama, infatti, per la prima volta nella storia è stata finanziata per la grandissima parte dalle donazioni di semplici cittadini, sostenitori, elettori. Questo fatto costituisce la vera novità del fenomeno Obama, il vero cambiamento, troppo spesso sottovalutato.

Recentemente Bruce Springsteen ha suonato per sostenere Obama in alcuni Stati "in bilico". Da solo, armato di chitarra acustica come un novello Woody Guthrie, ha raccontato le sue storie. Ma soprattutto ha fatto un discorso. Un grande discorso. Lo riporto qui perché rappresenta bene quello che significano queste elezioni per una parte d'America, per quella parte che si sente tradita, per quella vasta parte che ha dovuto mettere da parte i propri sogni:
"I've spent 35 years writing about America, its people, and the meaning of the American Promise. The promise that was handed down to us, right here in this city from our founding fathers, with one instruction: Do your best to make these things real. Opportunity, equality, social and economic justice, a fair shake for all of our citizens, the American idea, as a positive influence, around the world for a more just and peaceful existence.
These are the things that give our lives hope, shape, and meaning. They are the ties that bind us together and give us faith in our contract with one another.
I've spent most of my creative life measuring the distance between that American promise and American reality. For many Americans, who are today losing their jobs, their homes, seeing their retirement funds disappear, who have no healthcare, or who have been abandoned in our inner cities, the distance between that promise, and that reality, has never been greater or more painful.
I believe Senator Obama has taken the measure of that distance in his own life and in his work. I think he understands in his heart the cost of that distance, in blood and suffering, in the lives of everyday Americans.  I believe as president, he would work to restore that promise to so many of our fellow citizens who have justifiably lost faith in its meaning.
After the disastrous administration of the past eight years, we need somebody to lead us in an American reclamation project. In my job, I travel around the world, and I occasionally play big stadiums, just like Senator Obama. I've continued to find, whereever I go, that America remains a repository of peoples' hopes, possibilities, and desires, and that despite the terrible erosion to our standing around the world, accomplished by our recent administration, we remain for many, many people this house of dreams. One thousand George Bushes and one thousand Dick Cheneys will never be able to tear that house down.
They will, however, be leaving office -- that's the good news. The bad news is that they'll be leaving office dropping the national tragedies of Katrina, Iraq, and our financial crisis in our laps. Our sacred house of dreams has been abused, it's been looted, and it's been left in a terrible state of disrepair. It needs care; it needs saving, it needs defending against those who would sell it down the river for power or a quick buck. It needs a citizenry with strong arms, hearts, and minds. It needs someone with Senator Obama's understanding, temperateness, deliberativeness, maturity, compassion, toughness, and faith, to help us rebuild our house once again.
But most importantly, it needs you. And me. It needs us, to rebuild our house with the generosity that is at the heart of the American spirit. A house that is truer and big enough to contain the hopes and dreams of all of our fellow citizens. Because that is where our future lies. We will rise or we will fall as a people by our ability to accomplish this task. Now I don't know about you, but I know that I want my house back, I want my America back, and I want my country back".
Niente altro da aggiungere: voglio indietro il mio paese, dice Bruce. 
E verrebbe da dirlo anche a me.

martedì 22 luglio 2008

Devil with the blue dress...

Non so se quello di domenica 20 luglio a Barcellona sia stato davvero l'ultimo concerto di della E Street Band in Europa. Questi sono i rumors. Queste sono le voci. Quello che so con certezza è che c'ero. E che stavo nel Pit. Per capire il clima: al mio amico Daniele poco prima dell'inizio è arrivato un messaggino sul cellulare da un altro fan disperso nell'immenso Nou Camp. Diceva: "The last dance? Almeno che sia memorabile". E memorabile lo è stato.
Si è capito da subito. Bruce aveva dentro il demonio. La faccia di chi pensa "adesso vi sbrano", col sopraciglio inarcato, le vene del collo gonfie e gli occhi della tigre. La band ha tirato a mille, i 75.000 del Nou camp erano impressionanti, la scaletta è scivolata via senza alcun momento di bassa tensione, il volume era finalmente alto ed i suoni molto belli. Livelli stellari. Giusto per smentire quanto avevo scritto dopo Amsterdam, cioé che vedevo Bruce e la band oggigiorno più adatti alle arene che ai grandi stadi, il capo e gli estreeters ci hanno massacrati con un tiro ed una presenza mostruosi. Con tutta la selvaggia potenza di fuoco con cui sono entrati nella storia del rock. Da questo punto di vista Prove it all night, Light of day, Youngstown e Murder Inc. sono state assolutamente incredibili.
L'unico rimpianto, anche se significa davvero non esser mai contenti, è che sulla scaletta originaria scritta a mano c'era proprio l'accoppiata Drive all night/Racin' in the street, ovvero uno dei motivi per cui mi sono imbarcato in questo ennesimo atto della saga. Ma evidentemente in una serata ad alta tensione rock non c'era posto per ballate simili. Dai vari stravolgimenti di setlist è venuta fuori una I'm goin' down, da me mai precedentemente sentita e pezzo che adoro, scatenando un pandemonio come raramente ho visto. Peraltro la scelta del pezzo finirà nell'alveo della interminabile aneddotica springsteeniana e resterà stampata nei miei ricordi avendone vissuto da molto vicino la genesi. Poco altro da aggiungere. Se non che Evan James Springsteen, salito sul palco con tanto di chitarra acustica, è stato presentato dal padre insieme al resto della Band. Ed è l'ennesimo cerchio che si chiude nella saga Growin' up with Bruce. Poi solo un misto di gioia e commozione e stanchezza.

martedì 1 luglio 2008

Summer's here and the time is right...

Ecco l'estate. Tempo di mietitura del grano, sfalci di erba medica, potature verdi nei vigneti. Tempo di zolfo in polvere e sieste pomeridiane. Zanzare, grigliate, birre ghiacciate. Canti di grilli alla notte, raccolta di prugne asprigne e dolcissimi fichi. Tempo di salsa di pomodoro.
Intanto Zapatero continua a vincere, anche nel calcio. Oggi guardavo Lippi e pensavo: e se in Germania nel 2006 non ci regalavano il rigore con l'Australia? E se in finale avessimo giocato senza Gattuso e Pirlo? E se De Rossi avesse sbagliato il rigore come quest'anno con la Spagna? Negli ultimi europei non abbiamo certamente giocato un gran calcio. Ma siamo stati gli unici a impedire alla Spagna di dare spettacolo, peraltro producendo due occasionissime con Camoranesi e Di Natale. Vinto un mondiale ai rigori, perso un europeo nello stesso modo. Contro la squadra dominatrice del torneo e reduci da quello che era, a detta di tutti, il "girone di ferro". Eppure Lippi è il salvatore della patria e Donadoni, grandissimo signore, un allenatore deludente. Mah... Chi ci capisce qualcosa nel pallone di oggi è davvero bravo...
La prossima settimana mi aspetta il taglio del Nocenzio 2006, che si prospetta grande, e la preparazione di un nuovo e ultimo lotto di Terre Silvate 2007 (i primi due sono andati esauriti in due mesi). La stagione turistica sta andando abbastanza bene. Tutto a posto quindi... Sì, a parte quella stramaledetta "canzonetta". Summer's here and the time is right for goin' racing in the streets... Il bastardo l'ha fatta e non riesco proprio a digerirlo. Dopo vent'anni e ventidue concerti di attesa. Proprio quando mancavo. La cura disintossicante non ha funzionato e la voglia di inseguire quel sogno non smette mai. E poi dicono che il rock è morto...
Per consolarmi ho stappato un Franciacorta realatomi dall'amico Roldano. Cavalleri Collezione 2002, sboccatura 2008. Un classicone, lievitoso, morbido il giusto, perlage un pò grosso all'inizio ma persistente. Sentori fini di crosta di pane, nocciola ed erbe, manca, come quasi tutti i Franciacorta, di quella vena sapida e tagliente che rende grandi le bolle.

venerdì 20 giugno 2008

Troppe cose da raccontare...

...E poco tempo per scrivere. Sono reduce da una gita ad Amsterdam di un paio di giorni. Città splendida, ottima atmosfera, e concerto di Springsteen all'ArenA, il nuovo stadio dell'Ajax. Gran concerto, con una Because the night epica. A vent'anni dal mio primo concerto springsteeniano (Torino, 11 giugno 1988) l'emozione è sempre forte. La mia prima live di Spirit in the night, una Backstreets eccezionale ed una improvvisata Summertime Blues che la E street non suonava da 27 anni direi che strameritavano gli sbattimenti (ritorno a casa alle due di notte da Orio al serio). Detto questo continuo ad avere l'impressione che la band e lo Springsteen di oggi siano più adatti ai palazzetti che agli stadi, ma forse sono io che non reggo più gli stadi, chissà...
Fra poco report e foto di Musica Distesa. Tre giorni all'insegna della pioggia e del freddo, ma che bello! Che divertimento! Che musica! Si narra di stralunate jam sessions notturne, fame chimica all'alba placata da salsicce fumanti e deliranti danze notturne...
Per ora ne approfitto per ringraziare tutti quelli che si sono impegnati per realizzare Musica Distesa, a cominciare dal presidente di Cupramontana Accoglie, Erik Wempe. E poi, in ordine casuale, grazie a Marco ed Elisa, a Serena, ad Alessio, a Franz, a Giacomo, a Danny e Sacha, a Jane e marito del Cantinone, a Beatrice coi suoi woofers. Un grazie a Bianca, Marco, Giulia e Giorgia, a Gianni e Rosaria, a Marco il Bolis, a Elena, a Ivana ed Alberto, insomma alle colonne portanti di CLC. Un grazie a Oddino Giampaoletti ed a Simone Torelli, per la disponibilità. A Valeria, per tutto ma soprattutto per la pazienza. Un grazie a tutti gli sponsor. Se dimentico qualcuno, perdonatemi... Un abbraccio a quelli che hanno suonato, nonostante il freddo e l'umido e i problemi; a mio fratello, per gli sbattimenti e per la jam session finale; al Noce, mitico come sempre; a Cooper per i suoni magnifici; a Roberta per il manifesto e il myspace. A tutti quelli che sono venuti, tanti, perché venire con questo tempo è stata anche una dimostrazione di affetto. Cercare di fare qualità, nella musica come in altri settori, è sempre più difficile. Ci siamo riusciti ancora.

giovedì 17 aprile 2008

Bruce and Obama

Dear Friends and Fans:
Like most of you, I've been following the campaign and I have now seen and heard enough to know where I stand. Senator Obama, in my view, is head and shoulders above the rest.
He has the depth, the reflectiveness, and the resilience to be our next President. He speaks to the America I've envisioned in my music for the past 35 years, a generous nation with a citizenry willing to tackle nuanced and complex problems, a country that's interested in its collective destiny and in the potential of its gathered spirit. A place where "...nobody crowds you, and nobody goes it alone."
At the moment, critics have tried to diminish Senator Obama through the exaggeration of certain of his comments and relationships. While these matters are worthy of some discussion, they have been ripped out of the context and fabric of the man's life and vision, so well described in his excellent book, Dreams From My Father, often in order to distract us from discussing the real issues: war and peace, the fight for economic and racial justice, reaffirming our Constitution, and the protection and enhancement of our environment.
After the terrible damage done over the past eight years, a great American reclamation project needs to be undertaken. I believe that Senator Obama is the best candidate to lead that project and to lead us into the 21st Century with a renewed sense of moral purpose and of ourselves as Americans.
Over here on E Street, we're proud to support Obama for President.

giovedì 29 novembre 2007

Il fuoco sacro del rock'n'roll

Aspettavo Adam raised a Cain dopo quasi vent'anni ed è arrivata. Aspettavo Incident on 57th street ed è arrivata, con tanto di infinito e bollente assolo di chitarra finale. I pezzi del nuovo disco dal vivo spaccano. Ma soprattutto ieri c'era di nuovo il fuoco sacro, la luce accecante del rock'n'roll. Non aggiungo altro, perché è inutile. Chi c'era sa di cosa sto parlando. E chi non c'era forse non potrebbe capire.

venerdì 12 ottobre 2007

Magic

Fra i tanti difetti che ho, uno dei peggiori è che sono uno sfegatato springsteeniano. Se vi chiedete perché questo sarebbe un difetto vi consiglio la lettura di "Accecati dalla luce" edito da Gianluca Morozzi per Fernandel. Oppure chiedete a mia madre.
Non poteva mancare, quindi, una mia opinione sul suo ultimo lavoro, Magic. Innanzitutto confesso che, come promesso al mio amico Daniele questa estate, per ascoltare il disco ho aspettato l'uscita del vinile. Da qualche mese sono tornato, infatti, ad acquistare quasi solo vinili. Non sto qui a spiegare perché, magari ne scriverò prossimamente.
A scanso di equivoci dico subito che aspettavo questo disco da più di vent'anni. Questo disco nel senso di un disco come questo. Un disco che Bruce non è stato in grado di, o non ha voluto, pubblicare per più di due decenni. E lo dico ben sapendo che la sua voce non è più quella di vent'anni fa, che Brendan 'O Brien non è forse il produttore giusto per la E street Band, che la copertina non è granché, che certi suoni sono bruttini... Però di fronte ad un pugno di canzoni bellissime e suonate in modo splendido alcune critiche circolate in rete mi hanno davvero stupito. Perché questo è un grande disco, cosa che non erano né The RisingDevil and Dust. Ma soprattutto questo è un disco di grandi canzoni rock, pure, semplici, dirette, mainstream, springsteeniane. Ed è perlomeno da Born in the USA che non sentivamo nulla di simile. Ho letto critiche che parlano di un disco "di mestiere", di "mancanza di ispirazione", di un disco pensato solo per il live. Ognuno certamente avrà i suoi gusti e le sue preferenze. Quello che a me sembra, è che questo sia un disco che cresce incredibilmente ascolto dopo ascolto. Che ci sia più buona melodia in una singola canzone di questo disco che in tutto The Rising. Che sia un pò come il maiale nelle campagne di una volta, non si butta vi niente; non c'è una sola canzone debole o scarsa. La qualità media della scrittura (melodie e testi) è alta. Ed in più ci sono canzoni davvero bellissime: Long walk home sarà un classico, Radio Nowhere è il più bel singolo di Springsteen dai tempi di Hungry Heart, Girls in their summer clothes è una melodia straordinaria, degna del miglior Brian Wilson, I'll work for your love è puro Springsteen style rock'n'roll, Gypsy biker sembra un pezzo di Lucky Town suonato dalla E street (il che è quasi un sogno), Last to die è una botta come lo era Roulette ai tempi belli. La band è di nuovo la band, con la sua potenza e i suoi ricami, e non è quell'insieme di buoni turnisti che pareva su The Rising. Si sente di nuovo Danny, vivaddio, con i suoi discreti tweeeee tweeee, si sente un muro di chitarre e c'è materia finalmente per il grande Max, grandissimo davvero per tutto il disco. Mi spiace per i tanti falsi web giornalisti e per i neo-springsteeniani sboroni ma a riascoltare The Rising dopo questo disco si percepisce quanto loffio fosse.
Vengo ai testi. Certo non siamo di fronte a Jungleland o Darkness. Ma se pensiamo che ci siamo dovuti sorbire Secret Garden e Sad eyes, ragazzi non scherziamo! Le liriche sono molto buone e raccontano personaggi vaganti alla ricerca di qualcosa, spiriti fraintesi fra ciò che è vero e ciò che non lo è, con una cifra generale che è quella dello smarrimento, della paura, di nuove fughe, di movimento senza quiete, lontano da un mondo dominato da relazioni sociali disgreganti, alienanti, sfasciate, da città che sono in rovina o in fiamme. E sullo sfondo, costantemente, fra metafore ed accuse evidenti, quella guerra che sta ricacciando l'america indietro nel tempo. Alla faccia di chi ci ha detto, casa discografica in primis, che questo non era un disco "politico": è il disco più politico di Springsteen da Born in the USA, se si considera Tom Joad un disco di denuncia sociale. Qui la magia non è quella di Born to run, qui si intendono i giochi di prestigio di un governo che fa credere quello che non è, che falsa il gioco, che cambia il significato stesso delle parole libertà, democrazia, pace. "The freedom that you sought's driftin' like a ghost amongst the trees, this is what will be" oppure "You said heroes are needed, so heroes get made. Somebody made a bet, somebody paid". E poi ci sono le bare del cimitero dove verrà seppellito il motociclista gitano: "You slipped into your darkness, now all that remains is my love for you brother lying still and unchanged to them that threw you away... Now I'm counting white lines, countin' white lines and getting stoned my gypsy biker's coming home". E ancora gli errori di Last to die: "Who'll last to die for a mistake, whosw blodd will spill, whose heart will break...". Persino in un pezzo spensierato come Livin' in a future, nel contesto di una crisi di coppia si fa riferimento alla delusione per le elezioni con una emblematica nave chiamata "Liberty" che se ne naviga lontano verso un orizzonte rosso sangue.
Ma in questo sfacelo ecco apparire una strada, un sentiero, quello che Bruce indicava ai tempi del Vote for Change, quel concetto di comunità locale che può rendere l'individuo meno solo, che costituisce a sua volta comunità più grandi e complesse. E' una lunga strada verso casa, a Long walk home, questo muoversi senza una meta apparente, fuggendo l'oscurità. Una casa che non sono solo quattro mura dove rinchiudere le proprie incertezze, ma una casa che è invece una comunità che ti abbraccia, dove non sei affollato ma nemmeno solo, dove c'è una bandiera, che in fondo è quella stessa bandiera che stava sulla copertina di Born in the USA. "You know that flag flying over the courthouse, means certain things are set in stone. Who we are, what we'll do and what we won't". Springsteen riparte dai padri fondatori, come sempre. Da quella Costituzione calpestata dall'attuale amministrazione. E dà una direzione ai suoi nuovi spiriti vaganti. "Everybody has a neighbor, everybody has a friend, everybody has a reason to begin again". Questo è Bruce. Questo è il rock con cui sono cresciuto e che mi fa battere il cuore.
Tutto bene? Ovviamente no. La voce certamente non è più quella di un tempo, appesantita anche da una produzione forse eccessiva. I suoni non sono indimenticabili e certi arrangiamenti sono ridondanti. Forse una produzione alla Steve Van Zandt vecchi tempi avrebbe arricchito ulteriormente i pezzi facendo di Magic il capolavoro della maturità di Springsteen. Invece ci tocca ancora una volta avere dei rimpianti.
Ma quando il pianoforte annuncia l'inizio di Terry's song non posso che pensare a quando urlavamo "Terry!" da sotto il palco a Genova o a Nizza, con Massi e il Lello, e ascoltare in silenzio una ballata meravigliosa, sicuro che erano vent'anni che aspettavo un disco come questo. Semplicemente un disco di Bruce e della E street band.