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lunedì 23 settembre 2019

Chasin' wild horses - Buon compleanno, Bruce.

Scendemmo e, una volta usciti, raggiungemmo l'abbeveratoio dei cavalli. Mio padre si lavò il sangue e si strofinò la faccia, poi risalimmo sul furgone. Si mise al volante e si diresse in centro a Holt, a un negozio di liquori che si chiamava Payday, dove comprò una bottiglia di whiskey e qualche birra. Le mise in un sacchetto di carta. Poi tornammo in campagna e fermò il furgone in cima a una collinetta sabbiosa in un pascolo. (Kent Haruf - Vincoli)

Affittai una camera in un albergo a breve distanza dalla strada dei locali notturni. Per due dollari mi rifilarono una stanza a piano terra con vista sull'oceano, un letto con un materasso sottile, un lavandino e la chiave del cesso sul corridoio. Misi i miei ricambi nel cassettone e, uscendo, mi strappai due capelli dalla testa. (James Ellroy - Dalia Nera)

A ovest, per tutta la notte, lampi ramificati scaturiti dal nulla tremarono dietro i cumulonembi di mezzanotte, illuminando a giorno il deserto lontano di una luce bluastra, e contro l'orizzonte balenante le montagne si stagliavano dure e nere e livide, distanti e aliene come terre la cui vera geologia non era la pietra ma la paura. (Meridiano di sangue - Cormac McCarthy)

Al lavoro era dura. Di pomeriggio svaniva la nebbia e il sole picchiava. I raggi si spostavano dall'azzurro della baia verso quella specie di vassoio formato dalle colline di Palos Verdes, ed era come una fornace. Nel conservificio era peggio. Non c'era aria fresca, neanche quanto bastava a riempire una sola narice. (La strada per Los Angeles - John Fante)

Per capire Western Stars bisogna partire da qui.
E forse da un pugno di film. Crazy Heart, con uno straordinario Jeff Bridges nei panni di un musicista country in declino; I Cowboys con un vecchio John Wayne e le musiche di John Williams; Il Lungo addio di Robert Altman (sempre con le musiche di John Williams); The Wrestler con Mickey Rourke (e la bellissima omonima canzone dello stesso Springsteen); Verso il sole ovvero l'ultimo film di Michal Cimino.
Cose diversissime fra loro ma accomunate dal senso della fine, da personaggi che vivono sul limitare dell'ultimo giro di giostra.
Springsteen ha fatto il suo disco più bello degli ultimi vent'anni. Un disco molto diverso da quel che aspettavamo. Un disco che nasce dentro alle pieghe più nascoste e oscure della sua autobiografia e come coerente prosecuzione dell'incredibile spettacolo teatrale di Broadway.
Western Stars è al tempo stesso la cosa più vicina a Nebraska e la più lontana. Dove la musica di Nebraska era scarna e poco prodotta in Western Stars ci sono arrangiamenti e orchestrazioni ricchissimi, una produzione magnifica e a volte lussuriosa. Il disco del 1982 andava alle radici del folk tradizionale americano, anche se in fondo era permeato di una patina proto-punk e new wave (si pensi ai Suicide). Western Stars è invece un disco in cui la matrice folk vira verso un certo pop cantautorale, verso la California delle grandi colonne sonore hollywoodiane più che della psichedelia.
Eppure questa scelta si rivela, lentamente, ascolto dopo ascolto, come coerente alle storie raccontate. Perché qui le stelle dell'ovest sono sì quelle del deserto ma anche le stelle che non ce l'hanno fatta, attori di serie B, cantanti dimenticati, anti-eroi che hanno perso pure l'ultimo treno. Ma sia chiaro: bollare i personaggi dell'ultimo Springsteen come i "soliti" perdenti di Darkness o di The River non ci aiuta a capire che qui siamo oltre.  
Western Stars è infatti un disco che parla di vecchiaia e di depressione, di una quotidianità molto lontana dagli omicidi di Charles Starkweather o dalle pistole di Johnny99.
È un disco di una verità e di una urgenza dolorose: Bruce ha 70 anni, non c'è più traccia in lui dell'icona pop degli anni ottanta, ma nemmeno del workin' class hero dei settanta. Con Western Stars siamo tornati a Tunnel of love, per certi versi, non a caso un altro disco meraviglioso ma fortemente incompreso: ci sono i dubbi, le incertezze, le ombre di un uomo solo in un momento di svolta. Là era un amore finito, qui è che siamo proprio al tramonto.
Tornerà la E-street, torneranno gli stadi, tornerà il dovere di portare in giro ancora una volta la fiaccola del rock'n'roll: sempre più pesante e sempre meno lucente. Ma il viaggio del Bruce scrittore di canzoni ha senso invece oggi fra le strade desertiche di Western Stars, mentre si perde lungo questi binari, quando se non è il capolinea poco ci manca.
Non è un caso, non può esserlo, che il disco sia cantato da dio. Non ha forse mai cantato così bene Bruce Springsteen, e questo ha semplicemente dell'incredibile.
I woke up this morning è un verso che ritorna spesso nel disco, ma sbaglia chi lo associa ad uno stanco cliché blues, ad un'assenza di idee: alzarsi dal letto è un impresa titanica per chi soffre di depressione, e di questo si sta parlando; chi ha letto la sua potente autobiografia sa quale sia il demone che accompagna la vita di Springsteen.
Bruce è invecchiato e non lo nasconde più, anzi ce lo sbatte in faccia. Siamo invecchiati anche noi con lui. Le storie, bellissime e cinematografiche, raccontate in questo disco ci ricordano - ancora una volta! - a che punto siamo della strada, dove sono arrivati Wild Billy, Mary, Terry, e noi con loro. Con una coerenza ed una verità disarmanti queste storie, che sarebbero da far studiare ai tanti finti songwriters di oggi, ci ricordano che là dove un tempo c'erano auto in corsa verso la libertà oggi ci sono pillole e whiskey nascosti dentro sacchetti di carta.
C'è un altro libro che Western Stars mi ha ricordato, un altro libro che parla di deserti e persone sole che lottano contro demoni interiori o ricordi del passato. Si chiama Lullaby Road di James Anderson. È la storia del camionista Ben Jones che fa il postino privato lungo la statale 117 in mezzo a chilometri e chilometri di deserto nello Utah. A Ben Jones succedono cose, finisce col ritrovarsi per caso dentro a una brutta brutta storia. Ma nella quotidianità del fare il proprio lavoro al meglio, nel fronteggiare con dignità un destino che ha sempre qualcosa di inesorabile, Ben Jones troverà la forza per andare avanti, proprio come gli eroi blue collar del boss, proprio come le ex-stelle di un west che non esiste più. Un'altra piccola pagina del grande romanzo americano.

Tutti hanno una buona stella. Anche se continuavo a ripetermi quanto fossi sveglio ed esperto per guidare nel deserto, sapevo che era solo la fortuna a fare la differenza.
A un cero punto, durante la notte, la strada si era confusa con il deserto proprio come sapevo che sarebbe successo. È opinione comune che in caso di guida a visibilità zero il conducente debba stare  
nella scia del veicolo di fronte a lui, o seguirne i fanali, se riesce a vederli. Sulla 117 era raro avere qualcuno da seguire, e comunque non ero uno a cui piaceva star dietro agli altri. Un paio di volte, in passato, al valico di Soldier Pass, una fila di veicoli aveva seguito il capogruppo fino a cadere da uno strapiombo. Se dovevo finire in un burrone, non avevo certo bisogno di qualcuno che mi indicasse la strada. Preferivo essere stupido da solo. Si fa prima.
(Lullaby Road - James Anderson)

sabato 28 aprile 2018

L'ebbrezza immaginifica di un vino paesaggio

Per una poetica oltre il feticcio "Natura".

Riporto qui il mio pezzo uscito per OperaViva Magazine: seguendo il link trovate l'intero focus sul libro di Simonetta Lorigliola edito da DeriveApprodi.


Se non è il vino dell’enologo, allora che cosa è? 
Un vino naturale? 
No, è un vino paesaggio! 


Nell’oceano sempre più vasto delle pubblicazioni – specialistiche e non – sul vino, il libro firmato da Simonetta Lorigliola spicca indubbiamente per importanza e profondità. C’è la storia dei Vignai da Duline, cioè di Lorenzo Mocchiutti e Federica Magrini. Ci sono la musica, i centri sociali, il vegetarianesimo come scelta politica, l’agricoltura come approdo di un percorso di biodiversità culturale. Ma anche – e soprattutto – c’è un arco narrativo in grado di mettere insieme il Dioniso crocifisso di Michel Le Gris, Terra e Libertà/Critical Wine (il libro manifesto) e, in modo tangenziale, Insurrezione culturale di Jonathan Nossiter. 

Nel pieno del dibattito estenuante e spesso stucchevole sul «vino naturale» e delle ipotesi su una legislazione in grado di «certificarne» l’essenza e rubarne lo spirito, Lorigliola scarta bruscamente di lato e torna in qualche modo all’origine. All’origine: cioè alla t/Terra. Ma anche all’origine, nel senso di inizio: il percorso con cui un vasto movimento, radicato nei centri sociali e promosso da un collettivo eterogeneo raccolto intorno alla figura di Gino Veronelli, riusciva a inserire il discorso sul vino (e dunque sull’agricoltura) all’interno di una più vasta riflessione politica e filosofica su origine, identità, globalismo, agro-ecologia, modelli di consumo e di sviluppo. 

E come dentro al percorso di Critical Wine raramente si faceva riferimento al vino «naturale», al vino «vero» e tantomeno al vino «biologico», essendo il problema tutt’altro, così dentro «è un vino paesaggio» questi stessi termini trovano ben poco spazio, e quando ne trovano è con una prospettiva piuttosto critica. D’altronde è la storia stessa dei Vignai da Duline a essere – essa stessa – «collaterale» a quella del movimento del vino naturale. 

Eppure, contemporaneamente, con una forza descrittiva ed una potenza evocativa non comuni, nel libro l’essenza di ciò che oramai è comunemente accettato come «vino naturale» in tutto il mondo emerge in modo affascinante, a partire dai nomi creativi dati alla pratica della non-cimatura (chioma integrale) e alla particolare forma di inerbimento/sovescio (mucca verde). Perché in definitiva Lorenzo Mocchiutti produce a tutti gli effetti del vino naturale! Allora dove sta la contraddizione? Dove l’incoerenza, se c’è? 

Essa è insita proprio nell’esigenza, classica di questi anni, di dover aggettivare (nominare, definire, esemplificare) ogni cosa, qualunque soggetto/oggetto. Ecco allora che il vino diventa «naturale», «vero», «biodinamico», «artigianale», «industriale», «convenzionale», ecc. Ma proprio queste definizioni complicano, anziché risolvere, il problema: perché in ultima istanza l’unica vera ragione di fondo non sta nell’identificazione di una pratica o di una coerente scelta produttiva, bensì nella creazione di una specifica nicchia all’interno di un altrettanto specifico mercato. 

Il capitalismo, ancora una volta! Per cui «l’agricoltura biologica, coi suoi prodotti, è divenuta una delle reginette più applaudite di una festa in declino che per decenni ha visto protagonisti la plastica e i derivati dal petrolio, oggi banditi dal consumo politicamente corretto» 1. Quella dinamica di sussunzione oramai nota per cui ogni alternativa, ogni salto in avanti, divengono slogan da televendita anni Ottanta o scatto super-cool sul profilo instagram: «Territorio e natura, insomma. Quasi un ossessivo richiamo al vino come elemento bucolico e baluardo di memorie perdute. Sono in crescita esponenziale coloro che dicono di produrre in questo modo. E soprattutto coloro che lo raccontano. Anche il vino ha le sue mode» 2. Fino all’assurdo – viene da aggiungere – di un Parco Divertimenti del Cibo Made in Italy come il farinettiano F.I.CO. di Bologna: il territorio e la natura si fanno Fabbrica Contadina. 

Dentro questa dinamica, volenti o nolenti, siamo inseriti tutti noi: chi produce, chi consuma e persino chi narra il vino (o l’agricoltura). Del vino naturale a breve si faranno un regolamento e un marchio, con tutto ciò che ne consegue in termini di valore (aggiunto). Ma possiamo immaginare la Rivoluzione francese senza la ghigliottina giacobina o la Rivoluzione d’ottobre senza il terrore rosso? E la realtà è che il solo uso dell’aggettivo «naturale» accostato alla parola vino, senza alcun dubbio, ha sancito un momento rivoluzionario. 

Come vignaioli non possiamo tirarci indietro. Dobbiamo accettare in pieno la responsabilità di aver usato il termine, di averne anzi abusato, di aver provato a scardinare un mondo del vino vecchio, putrido, insostenibile. Di averlo fatto attraverso teorie e pratiche agricole ma anche, e non se ne poteva fare a meno, attraverso lo spazio comunicativo che l’aggettivo «naturale» (insieme ai suoi tanti sinonimi) poteva e doveva aprire. Se oggi il vino naturale è divenuto solo marketing, solo nicchia di mercato, con tanto di lunga lista di vini mal fatti e di conseguenza poco piacevoli, non possiamo dimenticarne, però, l’effetto dirompente di decolonizzazione di un immaginario che in vent’anni aveva elevato l’enologo a nuovo Dio, la chimica a compagna di vita, un gusto piccolo borghese (di gomma e dopobarba firmato) a standard estetico. 

Era un passaggio ineliminabile, anche e soprattutto a livello concettuale, quello del vino naturale. Nell’epoca del dominio della tecno-scienza e nel momento della massima espansione/potenza planetaria dell’homo sapiens (in procinto di farsi homo deus 3), rimettere al centro del discorso sul vino la dialettica fra natura e cultura ha scatenato spazi giganteschi per una nuova ermeneutica. 

Ad esempio. Il vino non è un prodotto, è un testo. Ce lo suggerisce il filosofo Nicola Perullo: «il ruolo umano nella creazione del vino nella sua ultima fase – dalla vigna alla bottiglia, perché tutto ciò che vi è prima si perde in intrecci che non dipendono più direttamente da noi: progenie, elementi, antenati – è peculiare: è una maieutica. Chi fa vino è un maieuta…» 4

Molti studi antropologici ci hanno insegnato come il coltivare, l’allevare, il custodire appartengano alla storia evoluzionistica di homo sapiens; l’uso del fuoco per cucinare, del sale per dare gusto a certi alimenti 5, oltre che la costruzione stessa di utensili, hanno preceduto il vero sviluppo cognitivo e celebrale di homo erectus, smentendo il luogo comune per cui la tecnica sarebbe frutto di una intelligenza superiore. In questo senso «gli esseri umani sono una realtà bio-sociale molto più complessa della somma di due strati, uno naturale e uno culturale, e gran parte della nostra struttura fisica è in realtà il prodotto di un rapporto mai interrotto tra natura e cultura» 6

Il vino naturale (le sue pratiche agricole, il suo laissez-faire enologico, la sua ridondante aneddotica) è esploso a un certo punto come una supernova a ricordarci come «natura» e «cultura» siano in realtà il frutto di una classificazione tutt’altro che universale: sono astrazioni, e il concetto stesso di natura è sempre più costruzione culturale, non certo sinonimo di un’impossibile e oramai perduta wilderness. 

Vins nature, vins vivants: il fatto stesso della loro esistenza, della loro possibile grandezza – ancora oggi negata da molti – ha generato conflitto immediatamente, e lo genera di continuo: fra estremisti della tecno-scienza e bio-nazi, tra enologi di grido per cui tutto si risolve in molecole volatili e vecchi contadini resistenti, fra sommeliers dal gusto internazionale e giovani hipsters alla ricerca di odori e sensazioni forti. Ma come «superare il marketing del naturale. Andare oltre il vino naturale» 7

Nel saltare a piè pari il nodo del movimento «vinoverista», Simonetta Lorigliola – insieme ai protagonisti di questo libro – sembra indicarci il passo decisivo verso una possibile via di uscita. Il problema è la merce, ovviamente. Il vino viene aggettivato in quanto prodotto, merce, bene di consumo. Il vino naturale diventa subito feticcio, la biodinamica diventa brand, il biologico catena di supermercati. Tutto si risolve in comunicazione superficiale, facile, commerciale. 

Eppure chiunque abiti un vigneto, un ecosistema complesso, un paesaggio, sa che non funziona così. Alcuni dei capitoli più belli di È un vino paesaggio recitano: «Un territorio creativo», «Cervelli operai», «Cura e restauro», «Geografie immaginarie», «Sedimenti culturali». Una lingua del tutto diversa che spiega un lavoro completamente differente dalla catena della produzione/valore cui ci ha piegati il capitalismo lavorata. 

Si tratta, invece, del lavoro di un artigianista, come direbbe Jonathan Nossiter 8. E non è un caso che sia Federica, con lo sguardo delle scienze umane, a chiarire il punto: «Il vino è un contenitore in cui far confluire linguaggi diversi. Un territorio di sconfinamento. Un terreno di sperimentazione espressiva (…) Non mi interessa la banale accoppiata arte-vino, che non significa nulla. Per me è una esigenza psichica» 9

Dunque l’etica, certo (agro-ecologia, sostenibilità, biodiversità….). Ma anche, e direi soprattutto, l’estetica. Il piacere libero e gioioso. La creatività del tatto. L’ebbrezza immaginifica. Una critica del gusto che è anche critica dell’assaggio. Dopo Natura/Cultura la seconda diade, quindi: Etica/Estetica. A complessare ulteriormente il quadro. 

Serve davvero un nuovo linguaggio, un nuovo perimetro espressivo. Non bastano i passi già importanti compiuti dentro al movimento «naturalista», in qualche modo ancora inchiodati da una idea normativa – coercitiva – del prodotto finale. Qualcosa che spieghi, tutto quanto insieme, la mucca verde e il territorio, la geologia e la tecnica, il clima che cambia e le botti di quercia, la fermentazione spontanea e la selezione massale, il vignaiolo e il suo abitare un ambiente pulsante. Non un aggettivo. Un altro sostantivo, invece.  

Un vino paesaggio. Un vino che è geografia umana e storia naturale insieme. Un vino che è un’origine ben segnalata sulle mappe, ma che parla un linguaggio planetario. Un vino che è sì tecnica ma, in una elegia dell’ossimoro, si fa «tecnica naturale», processo infinito di dialogo fra processi biologici (la fotosintesi, la fermentazione) e gesti artigiani (la potatura, l’imbottigliamento). 

Un vino che è paesaggio, appunto: «Se è vero che in ogni atto di creazione è impossibile determinare quando cominci la tecnica e quando finisca la vita, quando il concerto trascorra nel viaggio, in quella creazione sempre rinnovata che si chiama paesaggio ciò è ancora più vero» 10. Non il paesaggio rurale toscano o provenzale a uso e consumo degli uffici turistici. No. Un paesaggio dell’anima che è politica ed estetica – insieme – nel suo stratificare secoli, millenni, milioni di anni di interazione tra animali (fra cui l’uomo) e ambiente. 

In questo senso, quindi, la storia ventennale dei Vignai da Duline, simbolo e paradigma di un intero movimento di vignaioli, insieme alle parole di Simonetta Lorigliola, sembra farsi primo Manifesto di questi vini paesaggio. Vini in grado di spezzare, in nome di una nuova libertà del gusto, il circolo vizioso dell’edonismo servile oggi dominante, per cui «Agli antipodi di qualunque forma di libertà, l’universo dell’edonismo moderno in realtà finisce con l’assomigliare al migliore dei mondi huxleyano, con i suoi piaceri ridotti al rango di sonniferi che irraggiano tutti i pori della società e mantengono i suoi membri all’interno di una servitù indolore» 11

Perché, come diceva una famosa battuta del film di Jonathan Nossiter Mondovino, «ci vuole un poeta per fare un buon vino». 

 NOTE
1. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, DeriveApprodi, Roma 2017, p. 75.
2. ↩ Ivi, p. 117.
3. ↩ Cfr. Y. Noah Harari, Homo Deus, Bombiani, Milano 2017.
4. ↩ N. Perullo, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, mimesis, 2018 Milano, p. 34.
5. ↩ Cfr. R. Cavalieri, Gusto. L’intelligenza del palato, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 84-93.
6. ↩ M. Aime, Cultura, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 35.
7. ↩ C. Dottori, Non è il vino dell’enologo, DeriveApprodi, Roma 2012, p. 100.
8. ↩ Si veda J. Nossiter, Insurrezione Culturale, DeriveApprodi, Roma 2017.
9. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, cit., p. 145.
10. ↩ M. Spanò, in Postfazione a È un vino paesaggio, cit., p. 186.
11. ↩ M. Le Gris, Dioniso Crocifisso, DeriveApprodi, Roma 2011, p. 167.

mercoledì 4 agosto 2010

Tu vò fà l'americano... mericano...

Un paio di mesi fa il mio importatore americano mi ha segnalato che si parlava de Gli Eremi 2006 sul Wall Street Journal. Vengo così a sapere che in un ottimo ristorante di New York City (marea), di fronte a Central Park in pieno centro Manhattan, a uno dei redattori della celebre rivista economica americana è stata servita la mia riserva di verdicchio.
Queste le sue note: "The wine was the 2006 Gli Eremi Verdicchio di Jesi Classico Riserva from La Distesa. “I’ve never heard of it before,” I said to Richard. “No one has,” he replied, adding that it was a tiny-production Verdicchio from a small but highly-regarded estate. It’s rich but possessed of a firm minerally note, said Richard, like a Cru Chablis. I was happy to follow his lead.
The Gli Eremi was as Richard had described it: unctuously rich yet tempered by a bright and penetrating minerality that was, indeed, an echo of a Grand Cru Chablis. And most importantly, it complemented our food — even the intensely-flavored fusilli with grilled octopus in a red wine sauce that my friend ordered. I want to go back to Marea right away — to drink another bottle and to eat more of chef Michael White’s fabulous pastas. But time is tight; according to Francesco, the six cases they ordered is just one..."
Che dire? Il Wall Street Journal non è propriamente uno dei miei riferimenti ideologici, però il paragone con un Grand Crus di Chablis per un bianchista non può che far piacere, no?

giovedì 28 gennaio 2010

Giornate invernali

Stamattina -4° ed una gran gelata che ha irrigidito la poca neve scesa l'altro ieri. Freddo secco, come piace a me, tagliente. Tutto fermo in vigna. Poco male, siamo già a metà delle potature. Ne approfitto per qualche consegna, per sistemare la solita mole di burocrazia, per qualche manutenzione in cantina.
Prima che arrivassero i bimbi Valeria ed io passavamo queste giornate invernali chiusi in casa, ben coperti, che all'inizio i soldi non c'erano ed il riscaldamento era spesso spento, a leggere libri, bere camomilla bollente e dormire più del solito. Ora ci resta quel poco tempo fra la nanna dei bimbi e la nostra, unico momento di tranquillità in una casa altrimenti sospesa nel caos. E' allora che ne approfitto per leggere, più voracemente del solito. Gli articoli più interessanti di Internazionale, oppure gli amati libri.
La montagna ed io di Alexander Huber è un fantastico libro sull'arrampicata, sull'amore perverso e folle per uno sport che ho praticato e che vorrei ritrovare prima o poi lungo il mio cammino. Scritto dal più forte arrampicatore di questi tempi, ti inchioda, ti porta in luoghi strani e mitici, ti fa tremare e rabbrividire, ti fa anche un pò sognare.
Comunisti immaginari di Francesco Cundari è un irriverente e sarcastico racconto, molto ben documentato, della storia dei comunisti italiani, da Gramsci fino al PD. Lungo un percorso segnato da frasi e parole chiave, si ripercorre la storia dei compagni che venivano da lontano e volevano andare lontano. Solo che si sono persi e non sanno bene il perché.
Il mercante di utopie di Anna Sartorio è la biografia di Oscar Farinetti, l'ex proprietario dell'impero Uni-Euro, poi inventore di Eataly ed ora proprietario di diverse prestigiose aziende vinicole. Una storia bella, un libro molto ben scritto, lo spaccato di un'Italia che non c'è più. Un unico appunto: non riesco a scorgere l'utopia nella vicenda di un imprenditore di successo, anche se di sinistra. Ma questo credo sia un mio problema.
In viaggio contromano di Michael Zadoorian è un bel romanzo, triste, ma tremendamente originale e intenso. Un bel giorno due anziani coniugi, malati entrambi, decidono di lasciare la loro casa middle class fuori Detroit e lasciarsi tutto alle spalle: medici, figli troppo preoccupati, agi borghesi. Salgono sul loro vecchio camper e si immettono sulla route 66 per un viaggio lungo le strade d'america e fra i ricordi di una vita intera.

sabato 7 novembre 2009

Temporali e rivoluzioni

Questo post necessita di una premessa: il disco di cui sto per parlare lo ha inciso mio fratello. E’ normale, quindi, che io non sia in grado di poter dare un giudizio distaccato. Se ne scrivo, però, non è per nepotismo (non sono in grado, infatti, di fargli vendere più dischi) ma semplicemente perché è un bel disco. Cosa rara, di questi tempi.
Non è un disco “facile”, questo Temporali e rivoluzioni. Fin dal titolo. E’ un disco complesso, fatto più di parole che di note. Cantautorale, si sarebbe detto trent’anni fa. Un disco che cresce costantemente con gli ascolti. Ossessivamente. Progressivamente.
E’ un disco che parla dei nostri tempi. Che racconta di smarrimenti, di perdite, di sconfitte, di emergenze, di precarietà, di crisi, di resistenze. Individuali e sociali. Particolari e globali. Personali e collettive.
Questa è già una prima grandezza del disco: una intimità che si veste di sensibilità più generali e, in qualche modo, condivise. Chi non si è mai chiesto, nel pieno della tempesta, se il temporale passerà? O se i cambiamenti che investono le nostre vite sono rivoluzioni o sono solo modi diversi di nominare le stesse cose?
Sono domande che si ripetono, in forme diverse, lungo tutto il disco. Quanto è difficile uscire dalle campane di vetro in cui ci vogliono e ci vogliamo chiusi? Quanto è difficile scegliere di tagliare la siepe che ci separa dal mondo? (Ed a vent’anni esatti dalla caduta del muro la siepe di Inno nazionale del mio isolato non può non rimandare al muro di Roger Waters). E che succede se ti sporgi oltre la siepe e trovi solo catene e gioie fragili?
Nel percorso del disco ci sono alcuni momenti fondamentali. Catene e gioie fragili è uno di questi: hai lasciato la tua casa, cammini in un bosco scuro e c’è una luce fioca, e lasci briciole di pane per non smarrire la strada. Ma quella luce sembra quella che hai appena lasciato. Giriamo in tondo, in un labirinto. Non c’è via di uscita. Siamo in scacco. Siamo in trappola. E ci chiediamo se la verità sia ancora possibile, proprio quella verità che crediamo non faccia mai male.
E' il tempo di esplorare ogni delusione, scegliere con cura come uscirne. Chiudi l'emergenza nello specchio e l'indifferenza nel tuo cuore. Lucida le cose che non tieni più con te (Chiudi l'emergenza nello specchio)
Intanto cadono le luci sulle nostre ali (angeli che ricordano Wim Wenders?). Col tempo si spengono. Si chiude l’orizzonte, precipita con te (Non fa mai male la verità). E non scordarti di precipitare e di atterrare come sempre, che tutto il senso in fondo, in fondo lo ritrovi lì (Tenerti stretto un ricordo). 
Un altro momento centrale del disco pare La tua casa è piena. Dove la descrizione di una quotidianità intima, personale e disperata dipinge al contempo la situazione di una intera generazione, alle prese con case piene di cose inutili, abbandonata a se stessa senza più tempo, voce, voglia per ribellarsi. Alla decadenza, alla disgregazione, al fraintendimento. Fino a non ritrovarsi e in fondo in fondo non sperarlo più. Fino alla disillusione, che è cifra distintiva di questo nostro tempo instabile e che non ci mette molto a diventare cinismo, indifferenza.
Partenze e coincidenze è il piccolo capolavoro che racchiude tutti questi temi e queste sensazioni nella “canzone perfetta”. Che è poi quell’approdo misterioso dove testo e musica si fondono perfettamente in una forma d’arte che è quella della musica popolare.

E quel gusto di sconfitta svanirà
quando penserai ad una partenza
e quel senso di tepore se ne va
quando credi sia un successo
e invece è solo coincidenza.

Partire per tornare al punto di partenza. Guardare il mondo scomparire in mezzo al temporale. Mentre è solo il caso a guidare gli eventi. Partenze e coincidenze. Temporali e rivoluzioni. Sirene e vampiri. Dicotomie. Perché ogni cosa ha il suo doppio. E per ogni persona che viene ce n’è una che ci lascia. Ed è così che Tutto resta uguale mentre

ogni giorno il tuo vicino
succhia il sangue al suo nemico
e vive la mediocrità
come una onesta condizione.

Ogni rivoluzione appare lontanissima. E vien voglia davvero di appendere i fucili. Per non violare il coprifuoco dentro una società immobile, ferma, eppure precaria. Dentro rapporti personali in stallo, sfilacciati, consumati dalla quotidianità.
E se ricominciassimo dalle cose semplici? E se imparassimo a non ripetere gli errori? E se riuscissimo a perderci davvero ed a perdere del tempo?
Le cose semplici chiude un disco meraviglioso, ed è il tassello mancante, la chiave di volta. Perché lento è il ritorno a casa. Ma la casa, stavolta, sa essere piena davvero. Di cose troppo spesso dimenticate. Valori. Convizioni. Affetti. Qualche sogno, forse. Speranze taciute. Che forse risolvono, per un attimo appena, il caos rumorista, i rumori bianchi, le distorsioni di un mondo senza bussola. Prima del silenzio.
Ci ho messo molto tempo a entrare dentro questo disco (anche se è uscito ufficialmente il 6 novembre lo ascolto da molto tempo). Ma una volta dentro è difficile uscirne. Sono dieci canzoni bellissime, pennellate, legate una all’altra da sottili legami che creano un percorso affascinante, un panorama spesso desolato, dai toni chiaroscurali.
Gli arrangiamenti sono curatissimi e molto più “rock” di quello che può apparire al primo ascolto. Le chitarre, che suonano da paura, i cori, l’hammond, l’elettronica, il pianoforte, sono sempre funzionali al testo ed alla voce. I riferimenti non sono così importanti, si intuiscono sullo sfondo di una produzione (Giovanni Ferrario) di approccio inglese, che strizza l’occhio agli anni sessanta ma ha i piedi ben saldi nel terzo millennio. Non sono importanti, quei riferimenti, perché Giuliano ha trovato definitivamente il suo stile, la sua voce, il suo approdo. Ed un posto fra i migliori nuovi cantautori italiani.
Per info sul tour e per acquistare il disco visitate il sito: www.viaaudio.it/giulianodottori/index.htm

sabato 25 aprile 2009

venerdì 23 gennaio 2009

Così parlarono Slow food/Gambero Rosso

"Corrado Dottori opera scelte coraggiose e pratica una filosofia che mette al centro naturalità. Agricoltura biologica in senso stretto, uso di lieviti indigeni, interventi in cantina ridotti al minimo sono alcuni dei punti su cui Corrado non transige. I vini reagiscono di conseguenza. Hanno carattere generalmente scontroso, alta originalità, qualche piccola imperfezione tecnica, un profilo apprezzato da chi è aperto al nuovo, al diverso. Il più semplice (si fa per dire!) è il Terre Silvate: naso dai dolci sentori floreali, un po' pungente per accenni volatili, un pò semplici; al palato ha tono sostenuto da vivo nerbo e struttura legata a un residuo zuccherino stemperato dalla notevole sapidità finale. Il Nur viene da uve trebbiano dorato malvasia e verdicchio leggermente surmature. Fermenta sulle proprie bucce e si affina in barrique: nel bicchiere si veste di sfumature ambrate, ha un naso di erbe amare nocciola, buccia di mandarino; al palato ha attacco deciso, alcolico, contrastato, mentre il finale è lunghissimo, dal preciso carattere bucciato. Infine il Bianco 99, un vino dolce-non dolce ottenuto mediante metodo solera da uve trebbiano e verdicchio: pasta di mandorle, frutta secca, tratteggi ossidativi si fondono in un gusto non banale".

domenica 19 ottobre 2008

Giudizi positivi

Dalla guida I vini d'Italia de L'Espresso:
"...Si consolida la personalità di alcuni produttori che urge aggregare al vertice della denominazione: Natalino Crognaletti e la sua Fattoria San Lorenzo, strenuo difensore del Verdicchio "di vigna"; come anche Corrado Dottori de La Distesa, carismatico paladino delle ragioni del vino naturale..."
E ancora: "Singolare figura di "contadino critico", con alle spalle solidi studi (e pubblicazioni) socio-economici, Corrado Dottori è un giovane vignaiolo, ma ha la consapevolezza di un veterano. Da una piccola parcella di vecchie vigne in contrada San Michele, firma alcuni tra i Verdicchio d maggiore persnalità oggi in commercio, ricchi di vibrazioni sapide ma sempre molto attenti alla naturalezza e alla bevibilità".
Giuro, non ho fatto alcuna marchetta... Il Terre Silvate 2007 si becca 17,5/20 e sale sul podio insieme a Natalino e a Bucci, mentre Gli Eremi 2006 prende 16,5/20 ed entra nella top ten. Il Nur 2006 si ferma a 15/20 che comunque è un buon punteggio. Al di là dei punteggi (continuo a pensare che le guide non dovrebbero esprimere punti o classifiche), mi fa molto piacere che l'apprezzamento del mio lavoro vanga da una guida che considero oggigiorno quella più autorevole e coraggiosa.
Un'altra bella recensione per Gli Eremi 2006 viene dalla giornalista Laura Rangoni (qui): 
"...Che piacevole sorpresa! È un verdicchio in purezza, con uve surmature poi maturato in legno. Sarà per questo che mi piace così tanto? Il legno? Il mio amato legno? Al naso subito avvolge con una profusione di fiori ed erbe aromatiche, tra le quali sembrano prevalere la salvia, alcuni dicono la menta. Io ci sento la pesca, magari, azzardando, la mela gialla (la Golden , mi fa notare Daniele). Al palato è rotondo, evoluto, ben strutturato, con un retrogusto di mandorla e vaniglia che impreziosiscono un’imponente vena minerale e mitigano il gesso, rendendo questo vino un’avventura affascinante e raffinata, anche per la notevole persistenza".