Scendemmo e, una volta usciti, raggiungemmo l'abbeveratoio dei cavalli. Mio padre si lavò il sangue e si strofinò la faccia, poi risalimmo sul furgone. Si mise al volante e si diresse in centro a Holt, a un negozio di liquori che si chiamava Payday, dove comprò una bottiglia di whiskey e qualche birra. Le mise in un sacchetto di carta. Poi tornammo in campagna e fermò il furgone in cima a una collinetta sabbiosa in un pascolo. (Kent Haruf - Vincoli)
Affittai una camera in un albergo a breve distanza dalla strada dei locali notturni. Per due dollari mi rifilarono una stanza a piano terra con vista sull'oceano, un letto con un materasso sottile, un lavandino e la chiave del cesso sul corridoio. Misi i miei ricambi nel cassettone e, uscendo, mi strappai due capelli dalla testa. (James Ellroy - Dalia Nera)
A ovest, per tutta la notte, lampi ramificati scaturiti dal nulla tremarono dietro i cumulonembi di mezzanotte, illuminando a giorno il deserto lontano di una luce bluastra, e contro l'orizzonte balenante le montagne si stagliavano dure e nere e livide, distanti e aliene come terre la cui vera geologia non era la pietra ma la paura. (Meridiano di sangue - Cormac McCarthy)
Al lavoro era dura. Di pomeriggio svaniva la nebbia e il sole picchiava. I raggi si spostavano dall'azzurro della baia verso quella specie di vassoio formato dalle colline di Palos Verdes, ed era come una fornace. Nel conservificio era peggio. Non c'era aria fresca, neanche quanto bastava a riempire una sola narice. (La strada per Los Angeles - John Fante)
Per capire Western Stars bisogna partire da qui.
E forse da un pugno di film. Crazy Heart, con uno straordinario Jeff Bridges nei panni di un musicista country in declino; I Cowboys con un vecchio John Wayne e le musiche di John Williams; Il Lungo addio di Robert Altman (sempre con le musiche di John Williams); The Wrestler con Mickey Rourke (e la bellissima omonima canzone dello stesso Springsteen); Verso il sole ovvero l'ultimo film di Michal Cimino.
Cose diversissime fra loro ma accomunate dal senso della fine, da personaggi che vivono sul limitare dell'ultimo giro di giostra.
Springsteen ha fatto il suo disco più bello degli ultimi vent'anni. Un disco molto diverso da quel che aspettavamo. Un disco che nasce dentro alle pieghe più nascoste e oscure della sua autobiografia e come coerente prosecuzione dell'incredibile spettacolo teatrale di Broadway.
Western Stars è al tempo stesso la cosa più vicina a Nebraska e la più lontana. Dove la musica di Nebraska era scarna e poco prodotta in Western Stars ci sono arrangiamenti e orchestrazioni ricchissimi, una produzione magnifica e a volte lussuriosa. Il disco del 1982 andava alle radici del folk tradizionale americano, anche se in fondo era permeato di una patina proto-punk e new wave (si pensi ai Suicide). Western Stars è invece un disco in cui la matrice folk vira verso un certo pop cantautorale, verso la California delle grandi colonne sonore hollywoodiane più che della psichedelia.
Eppure questa scelta si rivela, lentamente, ascolto dopo ascolto, come coerente alle storie raccontate. Perché qui le stelle dell'ovest sono sì quelle del deserto ma anche le stelle che non ce l'hanno fatta, attori di serie B, cantanti dimenticati, anti-eroi che hanno perso pure l'ultimo treno. Ma sia chiaro: bollare i personaggi dell'ultimo Springsteen come i "soliti" perdenti di Darkness o di The River non ci aiuta a capire che qui siamo oltre.
Western Stars è infatti un disco che parla di vecchiaia e di depressione, di una quotidianità molto lontana dagli omicidi di Charles Starkweather o dalle pistole di Johnny99.
È un disco di una verità e di una urgenza dolorose: Bruce ha 70 anni, non c'è più traccia in lui dell'icona pop degli anni ottanta, ma nemmeno del workin' class hero dei settanta. Con Western Stars siamo tornati a Tunnel of love, per certi versi, non a caso un altro disco meraviglioso ma fortemente incompreso: ci sono i dubbi, le incertezze, le ombre di un uomo solo in un momento di svolta. Là era un amore finito, qui è che siamo proprio al tramonto.
Tornerà la E-street, torneranno gli stadi, tornerà il dovere di portare in giro ancora una volta la fiaccola del rock'n'roll: sempre più pesante e sempre meno lucente. Ma il viaggio del Bruce scrittore di canzoni ha senso invece oggi fra le strade desertiche di Western Stars, mentre si perde lungo questi binari, quando se non è il capolinea poco ci manca.
Non è un caso, non può esserlo, che il disco sia cantato da dio. Non ha forse mai cantato così bene Bruce Springsteen, e questo ha semplicemente dell'incredibile.
I woke up this morning è un verso che ritorna spesso nel disco, ma sbaglia chi lo associa ad uno stanco cliché blues, ad un'assenza di idee: alzarsi dal letto è un impresa titanica per chi soffre di depressione, e di questo si sta parlando; chi ha letto la sua potente autobiografia sa quale sia il demone che accompagna la vita di Springsteen.
Bruce è invecchiato e non lo nasconde più, anzi ce lo sbatte in faccia. Siamo invecchiati anche noi con lui. Le storie, bellissime e cinematografiche, raccontate in questo disco ci ricordano - ancora una volta! - a che punto siamo della strada, dove sono arrivati Wild Billy, Mary, Terry, e noi con loro. Con una coerenza ed una verità disarmanti queste storie, che sarebbero da far studiare ai tanti finti songwriters di oggi, ci ricordano che là dove un tempo c'erano auto in corsa verso la libertà oggi ci sono pillole e whiskey nascosti dentro sacchetti di carta.
C'è un altro libro che Western Stars mi ha ricordato, un altro libro che parla di deserti e persone sole che lottano contro demoni interiori o ricordi del passato. Si chiama Lullaby Road di James Anderson. È la storia del camionista Ben Jones che fa il postino privato lungo la statale 117 in mezzo a chilometri e chilometri di deserto nello Utah. A Ben Jones succedono cose, finisce col ritrovarsi per caso dentro a una brutta brutta storia. Ma nella quotidianità del fare il proprio lavoro al meglio, nel fronteggiare con dignità un destino che ha sempre qualcosa di inesorabile, Ben Jones troverà la forza per andare avanti, proprio come gli eroi blue collar del boss, proprio come le ex-stelle di un west che non esiste più. Un'altra piccola pagina del grande romanzo americano.
Tutti hanno una buona stella. Anche se continuavo a ripetermi quanto fossi sveglio ed esperto per guidare nel deserto, sapevo che era solo la fortuna a fare la differenza.
A un cero punto, durante la notte, la strada si era confusa con il deserto proprio come sapevo che sarebbe successo. È opinione comune che in caso di guida a visibilità zero il conducente debba stare
nella scia del veicolo di fronte a lui, o seguirne i fanali, se riesce a vederli. Sulla 117 era raro avere qualcuno da seguire, e comunque non ero uno a cui piaceva star dietro agli altri. Un paio di volte, in passato, al valico di Soldier Pass, una fila di veicoli aveva seguito il capogruppo fino a cadere da uno strapiombo. Se dovevo finire in un burrone, non avevo certo bisogno di qualcuno che mi indicasse la strada. Preferivo essere stupido da solo. Si fa prima.
(Lullaby Road - James Anderson)
Vino e territorio. Musica e cultura. Pensieri, sogni e visioni di un Homo Sapiens di campagna
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lunedì 23 settembre 2019
venerdì 25 novembre 2011
Un pò di storia
Volevo assaggiare un grande vino californiano e sono stato accontentato. Chateau Montelena Cabernet Sauvignon 1986 è un vino che si stenta a considerare americano. Nessun sentore di quercia, nessuna sovra estrazione, nessuna invadenza alcolica. Un carattere decisamente bordolese, in senso classico: acidità presente e viva, un tannino non addomesticato ma rinfrescante, un naso giocato sulla finezza, con note di erbe aromatiche, cuoio, cacao, marasca. Giusto per intendersi: l'azienda è quella del famoso "Paris Tasting" nel 1976 quando il suo Chardonnay 1973 mise in riga alla cieca i più famosi Borgogna. Fatto storico che viene considerato in USA come l'atto fondativo della grandezza del vino californiano.
Poi mi sono ritrovato a bere un pò di storia del vino italiano. In quel di Glendale, sobborgo di Los Angeles: a dimostrazione di quanto assurdo e complesso sia il mondo del vino.
Undici gradi alcolici, botte grande numerata, acidità tagliente, vitigni alloctoni, naso irrequieto eppure affascinante. Il Vino da tavola Fiorano 1988 è la fotografia del vino italiano prima delle guide, prima del boom, prima del vino frutto, prima della tecnologia. Una storia bella e triste. Che potete leggere in questo bellissimo pezzo di Eric Asimov, dove si ricordano, fra l'altro, le lodi che Veronelli tesseva nei confronti dei vini di Alberico Boncompagni Ludovisi principe di Venosa.
Un vino davvero emozionante.
Poi mi sono ritrovato a bere un pò di storia del vino italiano. In quel di Glendale, sobborgo di Los Angeles: a dimostrazione di quanto assurdo e complesso sia il mondo del vino.
Undici gradi alcolici, botte grande numerata, acidità tagliente, vitigni alloctoni, naso irrequieto eppure affascinante. Il Vino da tavola Fiorano 1988 è la fotografia del vino italiano prima delle guide, prima del boom, prima del vino frutto, prima della tecnologia. Una storia bella e triste. Che potete leggere in questo bellissimo pezzo di Eric Asimov, dove si ricordano, fra l'altro, le lodi che Veronelli tesseva nei confronti dei vini di Alberico Boncompagni Ludovisi principe di Venosa.
Un vino davvero emozionante.
martedì 15 novembre 2011
American psycho
E dopo il sogno l'incubo. Una città tentacolare, gigantesca, mostruosa, affascinante. Dove c'è sempre il sole ma non c'è un pannello solare. Dove l'acqua per dieci milioni di abitanti viene pompata dal fiume Colorado, perché di acqua nel sud del California non ce n'è. Dove la lingua più parlata è il messicano ma se un messicano prova a passare il confine gli tirano un colpo in testa e lo gettano in una fossa nel deserto. Dove se sei clandestino ti rispediscono in Messico e i tuoi figli restano a Los Angeles. In affido. E così ci sono cinquemila bimbi messicani che non rivedranno mai i genitori. Dove ci sono luoghi, come l'assurda, folle Beverly Hills, che rappresentano in modo plastico e definitivo l'1% che sta mandando a gambe all'aria il mondo. Veri e propri castelli circondati da statue e fontane, proprietà di sconosciuti principi del Dubai o superdivi di una Hollywood che non c'è più. Sì, perché Hollywood è in realtà un luogo che si chiama Burbank, dove poche grandi corporations gestiscono a pochi metri una dall'altra la più grande fabbrica di cultura mainstream del pianeta.
Così ti aggiri per queste strade infinite, tutte uguali, dove ordinatissimi sobborghi rincorrono quartieri più poveri abitati dai latinos, che diventano senza soluzione di continuità cittadine elegantissime, fatte di giardini perfette, palme e ville milionarie, e ti accorgi che l'unico senso qui è davvero il "fare i soldi", come Julian Kaye nella L.A. di American Gigolò. Il più velocemente possibile. In faccia alle centinaia, migliaia di homeless che si aggirano per le strade, ovunque ma soprattutto sulla sesta strada, proprio dietro ai grattacieli di Downtown. Trascinando carrelli con dentro vestiti e cartoni per ripararsi, quando scende la sera. Mai visto niente di simile.
E c'è sempre il sole, non è mai inverno, ma c'è nell'aria una sensazione strana, a volte angosciante, un Sunset Boulevard dei sogni plastificati: il lungo addio di Chandler, e poi Chiedi alla polvere di Fante, Black Dahlia di Ellroy. Ecco, a leggere questi libri forse capisci qualcosa di questa città, di questa terra. E forse hanno ragione, o forse no, proprio loro che si accampano reclamando un mondo diverso, una nuova frontiera, terrà e libertà. E che a breve verranno spazzati via.
Così ti aggiri per queste strade infinite, tutte uguali, dove ordinatissimi sobborghi rincorrono quartieri più poveri abitati dai latinos, che diventano senza soluzione di continuità cittadine elegantissime, fatte di giardini perfette, palme e ville milionarie, e ti accorgi che l'unico senso qui è davvero il "fare i soldi", come Julian Kaye nella L.A. di American Gigolò. Il più velocemente possibile. In faccia alle centinaia, migliaia di homeless che si aggirano per le strade, ovunque ma soprattutto sulla sesta strada, proprio dietro ai grattacieli di Downtown. Trascinando carrelli con dentro vestiti e cartoni per ripararsi, quando scende la sera. Mai visto niente di simile.
E c'è sempre il sole, non è mai inverno, ma c'è nell'aria una sensazione strana, a volte angosciante, un Sunset Boulevard dei sogni plastificati: il lungo addio di Chandler, e poi Chiedi alla polvere di Fante, Black Dahlia di Ellroy. Ecco, a leggere questi libri forse capisci qualcosa di questa città, di questa terra. E forse hanno ragione, o forse no, proprio loro che si accampano reclamando un mondo diverso, una nuova frontiera, terrà e libertà. E che a breve verranno spazzati via.
mercoledì 4 agosto 2010
Tu vò fà l'americano... mericano...
Un paio di mesi fa il mio importatore americano mi ha segnalato che si parlava de Gli Eremi 2006 sul Wall Street Journal. Vengo così a sapere che in un ottimo ristorante di New York City (marea), di fronte a Central Park in pieno centro Manhattan, a uno dei redattori della celebre rivista economica americana è stata servita la mia riserva di verdicchio.
Queste le sue note: "The wine was the 2006 Gli Eremi Verdicchio di Jesi Classico Riserva from La Distesa. “I’ve never heard of it before,” I said to Richard. “No one has,” he replied, adding that it was a tiny-production Verdicchio from a small but highly-regarded estate. It’s rich but possessed of a firm minerally note, said Richard, like a Cru Chablis. I was happy to follow his lead.
The Gli Eremi was as Richard had described it: unctuously rich yet tempered by a bright and penetrating minerality that was, indeed, an echo of a Grand Cru Chablis. And most importantly, it complemented our food — even the intensely-flavored fusilli with grilled octopus in a red wine sauce that my friend ordered. I want to go back to Marea right away — to drink another bottle and to eat more of chef Michael White’s fabulous pastas. But time is tight; according to Francesco, the six cases they ordered is just one..."
Che dire? Il Wall Street Journal non è propriamente uno dei miei riferimenti ideologici, però il paragone con un Grand Crus di Chablis per un bianchista non può che far piacere, no?
Queste le sue note: "The wine was the 2006 Gli Eremi Verdicchio di Jesi Classico Riserva from La Distesa. “I’ve never heard of it before,” I said to Richard. “No one has,” he replied, adding that it was a tiny-production Verdicchio from a small but highly-regarded estate. It’s rich but possessed of a firm minerally note, said Richard, like a Cru Chablis. I was happy to follow his lead.
The Gli Eremi was as Richard had described it: unctuously rich yet tempered by a bright and penetrating minerality that was, indeed, an echo of a Grand Cru Chablis. And most importantly, it complemented our food — even the intensely-flavored fusilli with grilled octopus in a red wine sauce that my friend ordered. I want to go back to Marea right away — to drink another bottle and to eat more of chef Michael White’s fabulous pastas. But time is tight; according to Francesco, the six cases they ordered is just one..."
Che dire? Il Wall Street Journal non è propriamente uno dei miei riferimenti ideologici, però il paragone con un Grand Crus di Chablis per un bianchista non può che far piacere, no?
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domenica 21 giugno 2009
La crisi negli Stati Uniti
I numeri economici spesso non riescono a trasmettere pienamente la realtà delle cose. Si parla di un calo percentuale del PIL del 6%, di un aumento della disoccupazione al 9%, ecc. ma questi numeri restano lontani dalla percezione del comune cittadino.
Ultimamente ho avuto modo di parlare con amici o conoscenti americani e quello che mi dicono va davvero oltre i freddi numeri dell'economia. La crisi negli Stati Uniti è devastante. Il mercato immobiliare è crollato mesi fa ed ora è totalmente fermo. Il settore automobilistico è al fallimento. Le grandi banche continuano a chiedere soldi allo Stato per sopravvivere.
Sto ospitando una woofer americana, di Dallas, neolaureata. Ci ha detto che in questo momento è sostanzialmente impossibile negli States trovare un lavoro decente, e che per questo è venuta a fare questa esperienza in Europa, sperando che al suo ritorno le cose saranno migliorate.
Il mio importatore americano mi dice che la situazione è peggiore di quella post 11 settembre. La crisi ha colpito non solo le classi basse ma anche i ricchi californiani. Lo Stato della California, l'ottava potenza economica al mondo, è alla bancarotta e dovrà accedere a speciali finanziamenti federali, oltre che ristrutturare pesantemente il proprio bilancio.
In tutto ciò il mercato del vino si sta ricollocando su vini "di prezzo", spesso di qualità mediocre, oppure su vini di nicchia, abbandonando progressivamente le bottiglie di gran moda degli anni novanta. Va forte, ad esempio, il Prosecco, mentre soffrono i grandi toscani ed i piemontesi più internazionali.
Per ciò che concerne la ristorazione è emblematico il caso di Los Angeles dove alcuni ristoranti italiani di fascia alta si stanno ricollocando come trattorie, tornando ai piatti della tradizione e abbassando conseguentemente i prezzi: evidentemente anche nella città di Hollywood e Beverly Hills la crisi morde duramente. Qui l'articolo completo del Los Angeles Times sulla ristorazione:
martedì 20 gennaio 2009
La Storia
Ci sono dei momenti in cui si percepisce la Storia.
Ora sto guardando il giuramento di Barack Obama e capisco immediatamente che questo è uno di quei momenti. Da qualunque angolazione lo si guardi. Incredibile la partecipazione della folla; altissima l'attenzione del mondo; intenso il suo discorso, pieno di quella retorica e di quella cadenza da predicatore che lo hanno reso celebre.
E poi capita che sul palco presidenziale salga Aretha Franklin a cantare e capisci che una cosa del genere può capitare solo in America.
Poi capita che una poetessa venga chiamata a declamare versi sul palco dove un minuto prima il Presidente ha tenuto il discorso di insediamento e capisci perché gli Stati Uniti d'America sono ancora un grande paese.
Poi capita che guardi su youtube il video di Bruce che canta This land is your land con Pete Seeger nel concerto per l'insediamento. E scopri che i due hanno cantato anche questa strofa:
“There was a big high wall there that tried to stop me
Sign was painted, it said private property
But on the back side it didn’t say nothing
That side was made for you and me”
Hanno cantato la strofa "socialista" della canzone più famosa di uno, Woody Guthrie, sulla cui chitarra c'era scritto "Questa macchina uccide i fascisti". E l'hanno fatto sotto la statua di Lincoln, a Washngton, nel paese più capitalista del mondo. Per l'insediamento del primo presidente nero della storia. Ed allora ti viene da pensare che quel percorso accidentato verso un mondo più giusto, quel percorso che spesso si interrompe, che a volte sembra una strada senza uscita, che troppe volte perdiamo di vista, proprio quel percorso vale sempre la pena. E che è l'unico possibile, se pensi ai tuoi figli ed al mondo che vuoi lasciargli.
giovedì 30 ottobre 2008
Barack Obama ed il sogno americano
Ho già parlato di Obama in questo blog. L'ho fatto quando ancora sembrava impossibile la sua vittoria alle primarie. Almeno dal 2004, quando tenne un notevole discorso alla convention democratica per John Kerry, ho seguito la carriera di questo politico. Il motivo è semplice: Barack Obama rappresenta, nel bene e nel male, il sogno americano. Che si ami l'America o che la si odi, quel che è certo è che questa idea è stata uno dei perni centrali dell'egemonia economica e culturale degli Stati Uniti nel secolo scorso. Non so se sarà così in futuro ancora. Non lo credo. E però la figura di Obama riporta al centro del discorso politico la capacità delle società e delle comunità di offrire delle "possibilità". Al centro del sogno americano non sta tanto l'idea di "successo", che invece è una sua fuorviante degenerazione, ma l'idea che ciascun essere umano ha diritto almeno ad una possibilità. E qui sta anche la misura del suo fallimento: perché Obama è in realtà l'eccezione in un paese che, al contrario, ha smesso da tempo di offrire possibilità e scelte ai suoi cittadini ed ai cittadini del mondo.
Recentemente Bruce Springsteen ha suonato per sostenere Obama in alcuni Stati "in bilico". Da solo, armato di chitarra acustica come un novello Woody Guthrie, ha raccontato le sue storie. Ma soprattutto ha fatto un discorso. Un grande discorso. Lo riporto qui perché rappresenta bene quello che significano queste elezioni per una parte d'America, per quella parte che si sente tradita, per quella vasta parte che ha dovuto mettere da parte i propri sogni:
Mi piace molto la capacità dialettica, la retorica, del candidato democratico. Non sono d'accordo con molte delle sue idee. Certamente non è un pericoloso estremista di sinistra come cercano di descriverlo i Repubblicani. Al contrario, è un moderato. Ma la sua importanza, la sua forza devastante, è quella di rappresentare, anche fisicamente, il cambiamento, dopo i disastri degli ultimi otto anni.
Ricordo perfettamente la prima elezione di Bush (ero in partenza per l'Etiopia, con mio padre, ne parlammo a lungo, sorpresi) - tra l'altro sto leggendo il bellissimo Uomo nel buio di Paul Auster che colloca quell'evento all'inizio di una immaginaria, ma neanche tanto, nuova guerra civile amaricana.
Ricordo la seconda elezione di Bush, dopo essere stato in America con l'amico Daniele Tenca a sostenere John Kerry partecipando al Vote for Change tour. Sembrava davvero che l'america democratica si fosse risvegliata.
Sono molto timoroso, quindi, nell'esprimere giudizi sul prossimo voto. Non mi fido dei sondaggi, né del sistema elettorale americano.
Ma se Barack Obama verrà eletto, so che come Presidente degli Stati Uniti d'America avrà una cosa che non è appartenuta a nessuno dei suoi predecessori. Non è il colore della pelle. E' l'indipendenza dal sistema delle lobby economiche. La campagna elettorale di Obama, infatti, per la prima volta nella storia è stata finanziata per la grandissima parte dalle donazioni di semplici cittadini, sostenitori, elettori. Questo fatto costituisce la vera novità del fenomeno Obama, il vero cambiamento, troppo spesso sottovalutato.

"I've spent 35 years writing about America, its people, and the meaning of the American Promise. The promise that was handed down to us, right here in this city from our founding fathers, with one instruction: Do your best to make these things real. Opportunity, equality, social and economic justice, a fair shake for all of our citizens, the American idea, as a positive influence, around the world for a more just and peaceful existence.
These are the things that give our lives hope, shape, and meaning. They are the ties that bind us together and give us faith in our contract with one another.
I've spent most of my creative life measuring the distance between that American promise and American reality. For many Americans, who are today losing their jobs, their homes, seeing their retirement funds disappear, who have no healthcare, or who have been abandoned in our inner cities, the distance between that promise, and that reality, has never been greater or more painful.
I believe Senator Obama has taken the measure of that distance in his own life and in his work. I think he understands in his heart the cost of that distance, in blood and suffering, in the lives of everyday Americans. I believe as president, he would work to restore that promise to so many of our fellow citizens who have justifiably lost faith in its meaning.
After the disastrous administration of the past eight years, we need somebody to lead us in an American reclamation project. In my job, I travel around the world, and I occasionally play big stadiums, just like Senator Obama. I've continued to find, whereever I go, that America remains a repository of peoples' hopes, possibilities, and desires, and that despite the terrible erosion to our standing around the world, accomplished by our recent administration, we remain for many, many people this house of dreams. One thousand George Bushes and one thousand Dick Cheneys will never be able to tear that house down.
They will, however, be leaving office -- that's the good news. The bad news is that they'll be leaving office dropping the national tragedies of Katrina, Iraq, and our financial crisis in our laps. Our sacred house of dreams has been abused, it's been looted, and it's been left in a terrible state of disrepair. It needs care; it needs saving, it needs defending against those who would sell it down the river for power or a quick buck. It needs a citizenry with strong arms, hearts, and minds. It needs someone with Senator Obama's understanding, temperateness, deliberativeness, maturity, compassion, toughness, and faith, to help us rebuild our house once again.
But most importantly, it needs you. And me. It needs us, to rebuild our house with the generosity that is at the heart of the American spirit. A house that is truer and big enough to contain the hopes and dreams of all of our fellow citizens. Because that is where our future lies. We will rise or we will fall as a people by our ability to accomplish this task. Now I don't know about you, but I know that I want my house back, I want my America back, and I want my country back".
These are the things that give our lives hope, shape, and meaning. They are the ties that bind us together and give us faith in our contract with one another.
I've spent most of my creative life measuring the distance between that American promise and American reality. For many Americans, who are today losing their jobs, their homes, seeing their retirement funds disappear, who have no healthcare, or who have been abandoned in our inner cities, the distance between that promise, and that reality, has never been greater or more painful.
I believe Senator Obama has taken the measure of that distance in his own life and in his work. I think he understands in his heart the cost of that distance, in blood and suffering, in the lives of everyday Americans. I believe as president, he would work to restore that promise to so many of our fellow citizens who have justifiably lost faith in its meaning.
After the disastrous administration of the past eight years, we need somebody to lead us in an American reclamation project. In my job, I travel around the world, and I occasionally play big stadiums, just like Senator Obama. I've continued to find, whereever I go, that America remains a repository of peoples' hopes, possibilities, and desires, and that despite the terrible erosion to our standing around the world, accomplished by our recent administration, we remain for many, many people this house of dreams. One thousand George Bushes and one thousand Dick Cheneys will never be able to tear that house down.
They will, however, be leaving office -- that's the good news. The bad news is that they'll be leaving office dropping the national tragedies of Katrina, Iraq, and our financial crisis in our laps. Our sacred house of dreams has been abused, it's been looted, and it's been left in a terrible state of disrepair. It needs care; it needs saving, it needs defending against those who would sell it down the river for power or a quick buck. It needs a citizenry with strong arms, hearts, and minds. It needs someone with Senator Obama's understanding, temperateness, deliberativeness, maturity, compassion, toughness, and faith, to help us rebuild our house once again.
But most importantly, it needs you. And me. It needs us, to rebuild our house with the generosity that is at the heart of the American spirit. A house that is truer and big enough to contain the hopes and dreams of all of our fellow citizens. Because that is where our future lies. We will rise or we will fall as a people by our ability to accomplish this task. Now I don't know about you, but I know that I want my house back, I want my America back, and I want my country back".
Niente altro da aggiungere: voglio indietro il mio paese, dice Bruce.
E verrebbe da dirlo anche a me.
mercoledì 15 ottobre 2008
La fine di un mondo
Fa sorridere George W. Bush, il peggior Presidente della storia degli Stati Uniti d’America. Dopo aver vinto le elezioni truccandole, dopo aver trascinato il paese in una guerra che ha dissanguato il bilancio federale, dopo aver sottovalutato e mal gestito l’emergenza creata da Katrina, dopo aver portato il mondo al disastro finanziario con politiche economiche dissennate, ha avuto il coraggio di alzare la cornetta del telefono e chiedere G8 straordinari e misure a salvaguardia della stabilità.
Fa ancor più sorridere che ci sia stato qualcuno dall’altra parte a rispondergli.
Fa sorridere che la guerra in Iraq sia una delle molte cause di questa crisi e non lo dica nessuno. Dopotutto abbiamo esportato la democrazia. Poco importa che la finanza islamica oggi sia ben più solida della nostra e che i cinesi, a breve, siederanno al tavolo dei potenti. Saddam è stato giustiziato. Ma un occidentale sopravvive a Baghdad senza scorta 11 minuti.
Fa sorridere che sia esistito chi pensava davvero che una nazione potesse continuare a consumare più di quello che produceva all’infinito.
Fanno sorridere i potenti del mondo, apparsi impotenti. Ora serviranno migliaia di miliardi di dollari per recuperare fiducia e credibilità. Ed è facile immaginare a chi toccheranno i sacrifici nei prossimi difficili mesi. Le misure approvate recentemente hanno tutte le caratteristiche di una gigantesca socializzazione delle perdite (tanto ormai i profitti sono stati privatizzati da tempo).
Fa sorridere il governo inglese che con Thatcher e Blair ha privatizzato tutto ciò che era privatizzabile e nel giro di un anno ha già nazionalizzato tre colossi finanziari.
Fa sorridere che dopo avere de-localizzato, in nome della globalizzazione, oggi si dica “bisogna tornare all’economia reale”. Intanto abbiamo trasferito know-how e tecnologie in paesi che oggi producono a costi molto inferiori ai nostri e siamo pieni di call-center e venditori di polizze ma ci mancano i tornitori.
Fanno molto sorridere i tanti giornalisti economici che “siamo quasi fuori dalla crisi” oppure “il sistema è solido” oppure “il mercato correggerà gli squilibri” ed ora invece invocano lo Stato padrone in soccorso di quelli che gli hanno pagato le marchette i questi anni.
Fanno sorridere i molti che “i banchieri sono dei ladri” e ancora fino a ieri facevano la fila a comprare bond argentini, fondi azionari, obbligazioni Lehman Brothers.
Fanno sorridere i tanti che oggi “ci vuole l’etica negli affari” e fino a ieri plaudivano a Ricucci, Coppola, Tanzi e Cragnotti.
Fa sorridere il nostro Presidente del Consiglio. Tanto. Dopo aver discusso in nove minuti una finanziaria che non ha minimamente preso in considerazione questa crisi, lui che tromba per tre ore di seguito e dorme tre ore per notte, ha detto che forse andavano chiuse le borse. Cioè i mercati. Che neanche Lenin… Sì, ma poi ha smentito…
Fa sorridere la sinistra radicale. Ora che potrebbe dire di avere qualche flebile ragione, non esiste più. Per colpa di scarsa lungimiranza politica, di bassi personalismi, di incapacità di innovazione teorica.
Ma soprattutto fanno sorridere Walter Veltroni e gli altri dirigenti del Partito Democratico. Erano comunisti quando non andava più di moda. Allora sono divenuti socialdemocratici, ma non era già più di moda. Sono diventati semplicemente democratici. Ma ora che hanno molti amici nella finanza e hanno finalmente scoperto le magnifiche sorti (e progressive) del mercato, torna di moda improvvisamente l’intervento pubblico. Non ci capiscono più niente. Chissà i loro elettori. Accantonata in fretta e furia la tassazione delle rendite finanziarie promessa nel programma 2006 de l’Unione (roba da comunisti, il mercato non avrebbe gradito), hanno però scippato il TFR degli italiani per regalarlo alla previdenza privata. Proprio quella che sta fallendo in tutto il mondo. Dei geni. Alessandro Profumo, gran capo di Unicredit, è amico loro. Unicredit ha venduto derivati a mezza Italia, comprese molte giunte rosse, compresi alcuni comuni marchigiani. Come credenziali per co-gestire la crisi queste appaiono assai deboli.
Fa sorridere tutto questo. Ma è un sorriso amaro.
Questa crisi economica non è la fine del mondo. Ma rappresenta la fine di un mondo.Quello che appare sempre più chiaro è che indipendentemente dagli andamenti borsistici si sta entrando in una dura recessione. Parola che fa rima con disoccupazione. La storia insegna che i periodi di recessione colpiscono maggiormente le classi deboli. Ed è facile immaginare che i costi sociali dell’aggiustamento macroeconomico verranno sopportati proprio da quelle categorie che già sono in sofferenze: lavoratori dipendenti, famiglie mono-reddito, pensionati, giovani precari.
Il secolo breve, il novecento, sta finendo in questi giorni per la seconda volta. Il secolo americano finisce d’autunno così come nell’autunno di diciannove anni fa era finito il sogno della Rivoluzione di ottobre. E’ la fine di un orizzonte culturale e sociale, la fine di quello che da qualche tempo viene chiamato Pensiero Unico. L’idea, cioè, che il benessere individuale e collettivo dipendesse dal mercato e che il mercato fosse esclusivamente il luogo del confronto economico.
Questa non è una crisi finanziaria passeggera ma è una crisi di sistema come lo era stata quella del 1929. E come quella crisi ridisegnerà le mappe della geopolitica e del potere economico. Accadrà nei prossimi anni e sarà un fatto ineluttabile. Lo dobbiamo ad una serie macroscopica di errori nelle politiche economiche del governo americano; alle problematiche di un modello di sviluppo insostenibile nel lungo periodo ed incentrato sul consumo dissennato di beni, di risorse naturali, di energia; ad una speculazione finanziaria che è stata voluta libera e globale; ad una Europa troppo timida e basata su principi monetaristi e finanziari prima che su solide basi politiche e democratiche.
La fine del liberismo di cui molti iniziano a parlare dovrà essere la fine delle facili ricette, delle risposte semplicistiche ad un mondo complesso. La fine di un paradigma.
Non sarà la fine della globalizzazione ma porterà alla mutazione della globalizzazione che abbiamo conosciuto finora. E qui sta la grande possibilità, la grande occasione: la costruzione di un un nuovo modello economico e sociale appare ora non solo possibile ma necessaria. Ci sono le competenze teoriche e le forze umane per farlo. Quello che finora è mancata è una chiara volontà politica: la capacità, propria delle classi dirigenti, di trasformare idee, pratiche, progetti, culture in agenda politica globale.
L’alternativa fa rabbrividire: società spaventate ed impaurite in preda ad una grave crisi economica senza chiari orizzonti democratici e cooperativi hanno già mostrato di rivolgersi a uomini della Provvidenza e a governi autoritari.
PS Sono molto contento del premio Nobel per l'economia a Paul Krugman. Non tanto per il ricordo dei suoi modelli di economia internazionale studiati all'università quanto perché ha sempre difeso e diffuso le proprie idee con coerenza in anni in cui il vento della teoria economica spirava in direzioni opposte. E poi le sue critiche alla globalizzazione sono venute molto prima di Seattle ma non si è mai venduto come guru no-global.
Un nuovo paradigma economico non può non vederlo tra i protagonisti, insieme ad Amartya Sen e Joseph Stiglitz.
Fa ancor più sorridere che ci sia stato qualcuno dall’altra parte a rispondergli.
Fa sorridere che la guerra in Iraq sia una delle molte cause di questa crisi e non lo dica nessuno. Dopotutto abbiamo esportato la democrazia. Poco importa che la finanza islamica oggi sia ben più solida della nostra e che i cinesi, a breve, siederanno al tavolo dei potenti. Saddam è stato giustiziato. Ma un occidentale sopravvive a Baghdad senza scorta 11 minuti.
Fa sorridere che sia esistito chi pensava davvero che una nazione potesse continuare a consumare più di quello che produceva all’infinito.
Fanno sorridere i potenti del mondo, apparsi impotenti. Ora serviranno migliaia di miliardi di dollari per recuperare fiducia e credibilità. Ed è facile immaginare a chi toccheranno i sacrifici nei prossimi difficili mesi. Le misure approvate recentemente hanno tutte le caratteristiche di una gigantesca socializzazione delle perdite (tanto ormai i profitti sono stati privatizzati da tempo).
Fa sorridere il governo inglese che con Thatcher e Blair ha privatizzato tutto ciò che era privatizzabile e nel giro di un anno ha già nazionalizzato tre colossi finanziari.
Fa sorridere che dopo avere de-localizzato, in nome della globalizzazione, oggi si dica “bisogna tornare all’economia reale”. Intanto abbiamo trasferito know-how e tecnologie in paesi che oggi producono a costi molto inferiori ai nostri e siamo pieni di call-center e venditori di polizze ma ci mancano i tornitori.
Fanno molto sorridere i tanti giornalisti economici che “siamo quasi fuori dalla crisi” oppure “il sistema è solido” oppure “il mercato correggerà gli squilibri” ed ora invece invocano lo Stato padrone in soccorso di quelli che gli hanno pagato le marchette i questi anni.
Fanno sorridere i molti che “i banchieri sono dei ladri” e ancora fino a ieri facevano la fila a comprare bond argentini, fondi azionari, obbligazioni Lehman Brothers.
Fanno sorridere i tanti che oggi “ci vuole l’etica negli affari” e fino a ieri plaudivano a Ricucci, Coppola, Tanzi e Cragnotti.
Fa sorridere il nostro Presidente del Consiglio. Tanto. Dopo aver discusso in nove minuti una finanziaria che non ha minimamente preso in considerazione questa crisi, lui che tromba per tre ore di seguito e dorme tre ore per notte, ha detto che forse andavano chiuse le borse. Cioè i mercati. Che neanche Lenin… Sì, ma poi ha smentito…
Fa sorridere la sinistra radicale. Ora che potrebbe dire di avere qualche flebile ragione, non esiste più. Per colpa di scarsa lungimiranza politica, di bassi personalismi, di incapacità di innovazione teorica.
Ma soprattutto fanno sorridere Walter Veltroni e gli altri dirigenti del Partito Democratico. Erano comunisti quando non andava più di moda. Allora sono divenuti socialdemocratici, ma non era già più di moda. Sono diventati semplicemente democratici. Ma ora che hanno molti amici nella finanza e hanno finalmente scoperto le magnifiche sorti (e progressive) del mercato, torna di moda improvvisamente l’intervento pubblico. Non ci capiscono più niente. Chissà i loro elettori. Accantonata in fretta e furia la tassazione delle rendite finanziarie promessa nel programma 2006 de l’Unione (roba da comunisti, il mercato non avrebbe gradito), hanno però scippato il TFR degli italiani per regalarlo alla previdenza privata. Proprio quella che sta fallendo in tutto il mondo. Dei geni. Alessandro Profumo, gran capo di Unicredit, è amico loro. Unicredit ha venduto derivati a mezza Italia, comprese molte giunte rosse, compresi alcuni comuni marchigiani. Come credenziali per co-gestire la crisi queste appaiono assai deboli.
Fa sorridere tutto questo. Ma è un sorriso amaro.
Questa crisi economica non è la fine del mondo. Ma rappresenta la fine di un mondo.Quello che appare sempre più chiaro è che indipendentemente dagli andamenti borsistici si sta entrando in una dura recessione. Parola che fa rima con disoccupazione. La storia insegna che i periodi di recessione colpiscono maggiormente le classi deboli. Ed è facile immaginare che i costi sociali dell’aggiustamento macroeconomico verranno sopportati proprio da quelle categorie che già sono in sofferenze: lavoratori dipendenti, famiglie mono-reddito, pensionati, giovani precari.
Il secolo breve, il novecento, sta finendo in questi giorni per la seconda volta. Il secolo americano finisce d’autunno così come nell’autunno di diciannove anni fa era finito il sogno della Rivoluzione di ottobre. E’ la fine di un orizzonte culturale e sociale, la fine di quello che da qualche tempo viene chiamato Pensiero Unico. L’idea, cioè, che il benessere individuale e collettivo dipendesse dal mercato e che il mercato fosse esclusivamente il luogo del confronto economico.
Questa non è una crisi finanziaria passeggera ma è una crisi di sistema come lo era stata quella del 1929. E come quella crisi ridisegnerà le mappe della geopolitica e del potere economico. Accadrà nei prossimi anni e sarà un fatto ineluttabile. Lo dobbiamo ad una serie macroscopica di errori nelle politiche economiche del governo americano; alle problematiche di un modello di sviluppo insostenibile nel lungo periodo ed incentrato sul consumo dissennato di beni, di risorse naturali, di energia; ad una speculazione finanziaria che è stata voluta libera e globale; ad una Europa troppo timida e basata su principi monetaristi e finanziari prima che su solide basi politiche e democratiche.
La fine del liberismo di cui molti iniziano a parlare dovrà essere la fine delle facili ricette, delle risposte semplicistiche ad un mondo complesso. La fine di un paradigma.
Non sarà la fine della globalizzazione ma porterà alla mutazione della globalizzazione che abbiamo conosciuto finora. E qui sta la grande possibilità, la grande occasione: la costruzione di un un nuovo modello economico e sociale appare ora non solo possibile ma necessaria. Ci sono le competenze teoriche e le forze umane per farlo. Quello che finora è mancata è una chiara volontà politica: la capacità, propria delle classi dirigenti, di trasformare idee, pratiche, progetti, culture in agenda politica globale.
L’alternativa fa rabbrividire: società spaventate ed impaurite in preda ad una grave crisi economica senza chiari orizzonti democratici e cooperativi hanno già mostrato di rivolgersi a uomini della Provvidenza e a governi autoritari.
PS Sono molto contento del premio Nobel per l'economia a Paul Krugman. Non tanto per il ricordo dei suoi modelli di economia internazionale studiati all'università quanto perché ha sempre difeso e diffuso le proprie idee con coerenza in anni in cui il vento della teoria economica spirava in direzioni opposte. E poi le sue critiche alla globalizzazione sono venute molto prima di Seattle ma non si è mai venduto come guru no-global.
Un nuovo paradigma economico non può non vederlo tra i protagonisti, insieme ad Amartya Sen e Joseph Stiglitz.
venerdì 19 settembre 2008
Cric e Crac

La Banca d'affari Lehman Brothers l'11 settembre 2001 aveva la sede presso le Torri Gemelle. E' sopravvissuta a Bin Laden ed alla crisi, esogena, che ha colpito Wall Street sette anni fa. Non ce l'ha fatta di fronte a questa nuova crisi, endogena, interna cioé ai meccanismi finanziari del nuovo capitalismo del terzo millennio che sta divorando giorno dopo giorno la liquidità dei suoi attori più importanti ed esclusivi.
Lehman Brothers, in fallimento, e Merril Lynch, acquistata a prezzi ridicoli da Bank of America, erano due colossi del capitalismo finanziario mondiale. Due marchi prestigiosi cui qualunque giovane laureato in economia avrebbe voluto vedere accostato il proprio nome. Banche senza sportelli. Senza attività commerciale. Banche specializzate solo ed esclusivamente nella consulenza di altissimo livello, nelle operazioni di fusione ed acquisizione di società, nel collocamento di prestiti obbligazionari o di pacchetti azionari, nella trattativa "alla pari" coi Ministri del Tesoro delle più importanti economie globali.
Tutto questo non esiste più, spazzato via in meno di un anno.
L'immagine dei dipendenti che lasciano gli uffici con la scatola di cartone è classica del capitalismo anglosassone. Colpisce di più se pensiamo che fra quelle persone ci sono alcuni fra i più importanti cervelli economici in circolazione, giovani e meno giovani manager e analisti finanziari con curricula di livello altissimo. Un capitale umano spazzato via anch'esso dalla sera alla mattina. Ma non è nemmeno questo il reale problema. La gran parte di queste persone, passata la crisi, troverà un'altra collocazione nel mare magnum dell finanza internazionale, specie se disposti a trasferirisi a Hong Kong o Shangai. Il problema è che dietro i titoli trattatti da questi colossi dai piedi di argilla ci sono anche i piccoli risparmiatori. Gente comune che possiede titoli di Stato o fondi Comuni che stanno subendo grosse oscillazioni. Non solo. Dietro quei colossi, soprattutto, ci sono le aziende che producono. L'economia reale. Spesso dimenticata dai Soloni del capitalismo finanziario, essa sola produce benessere. E' questa economia reale che sta venendo trascinata al ribasso da questa crisi. Negli USA ci sono oggi campi che paiono campi nomadi italiani e che invece raccolgono migliaia di persone appartenenti alla classe media che hanno perso la casa in seguito a questa crisi e non hanno letteralmente un posto dove andare. Questa è la situazione della prima economia mondiale. Poi si guarda al PIL e si vede che è cresciuto... Per chi? Per quali aziende? Per quali lavoratori?
Dove siamo finiti? Questa è la domanda che dovremmo porci. Nel 1992 George Soros con il suo fondo di investimento piegò la Banca d'Inghilterra costringendola a svalutare la Sterlina (fu anche il periodo nero della Lira e della mega finanziaria Amato). Nel 1997 ci fu la grande crisi dei mercati asiatici. Nel 1998 la crisi russa, seguita a inizio millennio da quella argentina. Poi è venuto l'11 settembre. Tutte queste grandi crisi, risoltesi con fallimenti e perdite e ripartenze, hanno portato a concentrazioni di capitale sempre maggiori. Ad un capitalismo sempre più finanziario e speculativo. Incontrollabile persino per i governi e le Banche Centrali. Eppure la politica non ha fatto nulla, piegata al dogma del Pensieo Unico per cui i mercati hanno sempre ragione.
Dove siamo finiti? Dov'è quel capitalismo capace di creare benessere, di remunerare il risparmio famigliare, di consentire un livello equo di consumi, di garantire alla generazione successiva di stare meglio della precedente? In gioco oggi vi sono i principi stessi dell'economia di mercato, divorata da se stessa in un gioco perverso per cui il mezzo diventa il fine ed i fini giustificano sempre di più i mezzi, siano essi le crisi alimentari, la gente che perde la casa, le famiglie che non arrivano a fine mese, i giovani sempre più precari. Perché le soluzioni a tutto questo, stranamente, paiono essere sempre le stesse: tagliare la spesa pubblica, più flessibilità nel lavoro, più mercato. E se fossimo invece come un drogato cui si stanno dando dosi sempre maggiori cui seguono crisi sempre maggiori?
Quello che deve spaventare è quello che si cela dietro questa crisi. La banca inglese Barclays ha deciso di non acquistare la morente Lehman Brothers perché incapace di capire "quali perdite si nascondessero ancora nei bilanci". L'ingegneria finanziaria dei futures, delle opzioni, dei titoli subprime, questa gigantesca economia di carta che non produce ricchezza, ha questa caratteristica: è talmente complessa che nessuno sa veramente quanto ci si è esposti al rischio. Vengono intaccate cioé le certezze fondamentali di quella economia di mercato a gran voce reclamata: la trasparenza dei bilanci e l'idea che a determinati profili di rischio corrispondano determinate remunerazioni o perdite.
Di fronte a tutto ciò la sinistra mondiale è silenziosa. Quando va al governo si barcamena cercando di non disturbare troppo, quando è all'opposizione grida e strepita ma senza proporre alcuna prospettiva differente quasi timorosa nel ricordare che l'economia è un mezzo per far star meglio la gente e non il manovratore occulto da non disturbare. Quasi che il socialismo, pardon, il democraticismo, non possa far più nulla.
Nel 1944 John M. Keynes, economista certamente non comunista, propose la creazione di Istituzioni Internazionali che cercassero di mantenere la stabilità dei mercati internazionali nel quadro di un sistema che era ancora quello del Gold Standard. Dalla fine di quel sistema negli anni settanta i governi hanno proceduto nel tempo a smontare pezzo dopo pezzo quella costruzione trasformando il Fondo Monetario e la Banca Mondiale in altrettanti strumenti del Pensiero Unico. La totale liberalizzazione dei mercati ha fatto il resto.
Più recentemente un economista premio Nobel, certamente non comunista, James Tobin, ha proposto la creazione di una tassa sovranazionale per scoraggiare la speculazione finanziaria, la Tobin Tax. Sarebbe stata solo una goccia nel mare. Un inizio. Un simbolo. Eppure a quel gran movimento che ne ha promosso per anni l'istituzione sono state date solo manganellate. Il movimento è morto, le crisi arrivano peggiori di prima.
Prima che sia troppo tardi sarebbe il caso che la Sinistra mondiale, se esiste ancora, ricominciasse una riflessione seria sul Capitale. Su questa globalizzazione. Su questa economia. Prima che sia troppo tardi.
lunedì 11 febbraio 2008
American movies
Due grandi film americani: al cinema ho visto Into the wild di Sean Penn; in DVD, invece, Reign over me di Mike Binder.
Il primo, forse fin troppo osannato da certa critica, è un film di immagini e visioni, con una fotografia meravigliosa. E' un film forse difficile da capire per chi non conosce o non ama l'america, i miti della frontiera, della libertà assoluta, del grande Nord, di un "West" interiore prima ancora che geografico. E' un film estremo, come la storia del protagonista, lungo, difficile per certi versi. Con una colonna sonora esaltante a firma Eddie Vedder. Un film in cui libertà si declina come solitudine e rifiuto della società, con una serie notevole di riferimenti letterari (Thoureau e London, su tutti), musicali (tutto il rock americano), cinematografici (in qualche modo Easy rider, Il mucchio selvaggio, Balla coi lupi).
Il secondo è un film basato, invece, sulla sceneggiatura e gli attori. Un grande Adam Sandler nel ruolo di un vedovo dell'11 settembre incapace di metabolizzare il dolore. Un ottimo Don Cheadle nel ruolo dell'amico, a sua volta in crisi. Un cameo pazzesco di Donald Sutherland. Il tutto a servizio di una storia coerente e bella che si svolge attraverso dialoghi riusciti e toccanti sullo sfondo di una New York affascinante e reale. Cigliegina sulla torta la musica: unico rifugio del protagonista per sfuggire al dolore della perdita, il film è segnato dal rock più classico, come il titolo stesso, un pezzo degli Who, lasciava presagire. Stupenda la scena dei due amici che jammano su Out in the street di Springsteen, così come la scena madre del racconto catartico della perdita che si dissolve in modo straziante su Drive all night, sempre da The River, che appare quasi riferimento epico e generazionale dell'America di oggi.
Il primo, forse fin troppo osannato da certa critica, è un film di immagini e visioni, con una fotografia meravigliosa. E' un film forse difficile da capire per chi non conosce o non ama l'america, i miti della frontiera, della libertà assoluta, del grande Nord, di un "West" interiore prima ancora che geografico. E' un film estremo, come la storia del protagonista, lungo, difficile per certi versi. Con una colonna sonora esaltante a firma Eddie Vedder. Un film in cui libertà si declina come solitudine e rifiuto della società, con una serie notevole di riferimenti letterari (Thoureau e London, su tutti), musicali (tutto il rock americano), cinematografici (in qualche modo Easy rider, Il mucchio selvaggio, Balla coi lupi).
Il secondo è un film basato, invece, sulla sceneggiatura e gli attori. Un grande Adam Sandler nel ruolo di un vedovo dell'11 settembre incapace di metabolizzare il dolore. Un ottimo Don Cheadle nel ruolo dell'amico, a sua volta in crisi. Un cameo pazzesco di Donald Sutherland. Il tutto a servizio di una storia coerente e bella che si svolge attraverso dialoghi riusciti e toccanti sullo sfondo di una New York affascinante e reale. Cigliegina sulla torta la musica: unico rifugio del protagonista per sfuggire al dolore della perdita, il film è segnato dal rock più classico, come il titolo stesso, un pezzo degli Who, lasciava presagire. Stupenda la scena dei due amici che jammano su Out in the street di Springsteen, così come la scena madre del racconto catartico della perdita che si dissolve in modo straziante su Drive all night, sempre da The River, che appare quasi riferimento epico e generazionale dell'America di oggi.
domenica 6 gennaio 2008
Obama e altro
L'Iowa, si sa, non conta granché. Ma un primo passo è stato compiuto. Credo che nessuno nel gruppo di Barack si faccia illusioni. Obama è un politico pragmatico e accorto, nonostante la giovane età, e sa che la strada è molto lunga, piena di insidie, e che la Storia non gioca certo a suo favore. Ma l'audacia della speranza può molto, per dirla col suo libro. E l'eventuale vittoria di Barack Obama alle primarie democratiche (non oso immaginare di più), sebbene ardua, è la cosa migliore che ciascuno di noi dovrebbe augurarsi per il 2008.
Poi vengo a sapere che Fabio Volo è lo scrittore più letto d'Italia. E che vuole un figlio, pur restando single. Ora, chi mi conosce sa che non sono propriamente un difensore della famiglia-borghese-cattolica. Ma che si possa volere un figlio restando single la trovo una delle affermazioni più schifosamente egoiste e irresponsabili che mi sia capitato di recente di ascoltare. Perlomeno la convivenza, cazzo. E chi ha un figlio sa di cosa sto parlando. Oltretutto mi sono volutamente fatto del male leggendo Un posto nel mondo, edito da Mondadori e acquistato senza farmi vedere in un Autogrill (con che faccia sarei andato dal mio libraio, infatti, a chiedere Fabio Volo?). Ora, il libro in sé io ci ho provato a trovarci dei pregi. Qualche bella frasetta, qua e là, c'é. Di quelle che strizzano l'occhio alle ragazzine. Ma è il libro di uno che è dieci anni che gli hanno detto di rappresentare la nostra generazione (quella nata negli anni settanta) e che non smette un attimo di provarci a farlo. Il fatto è che a me non mi rappresenta per un cazzo. E nemmeno a tutti i trentenni-sulla-via-dei-quaranta che conosco. E' un libro inutile e insipido. E pure è lo scrittore più letto d'Italia. Grazie Mondadori. Grazie Autogrill.
venerdì 12 ottobre 2007
Magic

Non poteva mancare, quindi, una mia opinione sul suo ultimo lavoro, Magic. Innanzitutto confesso che, come promesso al mio amico Daniele questa estate, per ascoltare il disco ho aspettato l'uscita del vinile. Da qualche mese sono tornato, infatti, ad acquistare quasi solo vinili. Non sto qui a spiegare perché, magari ne scriverò prossimamente.
A scanso di equivoci dico subito che aspettavo questo disco da più di vent'anni. Questo disco nel senso di un disco come questo. Un disco che Bruce non è stato in grado di, o non ha voluto, pubblicare per più di due decenni. E lo dico ben sapendo che la sua voce non è più quella di vent'anni fa, che Brendan 'O Brien non è forse il produttore giusto per la E street Band, che la copertina non è granché, che certi suoni sono bruttini... Però di fronte ad un pugno di canzoni bellissime e suonate in modo splendido alcune critiche circolate in rete mi hanno davvero stupito. Perché questo è un grande disco, cosa che non erano né The Rising né Devil and Dust. Ma soprattutto questo è un disco di grandi canzoni rock, pure, semplici, dirette, mainstream, springsteeniane. Ed è perlomeno da Born in the USA che non sentivamo nulla di simile. Ho letto critiche che parlano di un disco "di mestiere", di "mancanza di ispirazione", di un disco pensato solo per il live. Ognuno certamente avrà i suoi gusti e le sue preferenze. Quello che a me sembra, è che questo sia un disco che cresce incredibilmente ascolto dopo ascolto. Che ci sia più buona melodia in una singola canzone di questo disco che in tutto The Rising. Che sia un pò come il maiale nelle campagne di una volta, non si butta vi niente; non c'è una sola canzone debole o scarsa. La qualità media della scrittura (melodie e testi) è alta. Ed in più ci sono canzoni davvero bellissime: Long walk home sarà un classico, Radio Nowhere è il più bel singolo di Springsteen dai tempi di Hungry Heart, Girls in their summer clothes è una melodia straordinaria, degna del miglior Brian Wilson, I'll work for your love è puro Springsteen style rock'n'roll, Gypsy biker sembra un pezzo di Lucky Town suonato dalla E street (il che è quasi un sogno), Last to die è una botta come lo era Roulette ai tempi belli. La band è di nuovo la band, con la sua potenza e i suoi ricami, e non è quell'insieme di buoni turnisti che pareva su The Rising. Si sente di nuovo Danny, vivaddio, con i suoi discreti tweeeee tweeee, si sente un muro di chitarre e c'è materia finalmente per il grande Max, grandissimo davvero per tutto il disco. Mi spiace per i tanti falsi web giornalisti e per i neo-springsteeniani sboroni ma a riascoltare The Rising dopo questo disco si percepisce quanto loffio fosse.
Vengo ai testi. Certo non siamo di fronte a Jungleland o Darkness. Ma se pensiamo che ci siamo dovuti sorbire
Secret Garden e Sad eyes, ragazzi non scherziamo! Le liriche sono molto buone e raccontano personaggi vaganti alla ricerca di qualcosa, spiriti fraintesi fra ciò che è vero e ciò che non lo è, con una cifra generale che è quella dello smarrimento, della paura, di nuove fughe, di movimento senza quiete, lontano da un mondo dominato da relazioni sociali disgreganti, alienanti, sfasciate, da città che sono in rovina o in fiamme. E sullo sfondo, costantemente, fra metafore ed accuse evidenti, quella guerra che sta ricacciando l'america indietro nel tempo. Alla faccia di chi ci ha detto, casa discografica in primis, che questo non era un disco "politico": è il disco più politico di Springsteen da Born in the USA, se si considera Tom Joad un disco di denuncia sociale. Qui la magia non è quella di Born to run, qui si intendono i giochi di prestigio di un governo che fa credere quello che non è, che falsa il gioco, che cambia il significato stesso delle parole libertà, democrazia, pace. "The freedom that you sought's driftin' like a ghost amongst the trees, this is what will be" oppure "You said heroes are needed, so heroes get made. Somebody made a bet, somebody paid". E poi ci sono le bare del cimitero dove verrà seppellito il motociclista gitano: "You slipped into your darkness, now all that remains is my love for you brother lying still and unchanged to them that threw you away... Now I'm counting white lines, countin' white lines and getting stoned my gypsy biker's coming home". E ancora gli errori di Last to die: "Who'll last to die for a mistake, whosw blodd will spill, whose heart will break...". Persino in un pezzo spensierato come Livin' in a future, nel contesto di una crisi di coppia si fa riferimento alla delusione per le elezioni con una emblematica nave chiamata "Liberty" che se ne naviga lontano verso un orizzonte rosso sangue.

Ma in questo sfacelo ecco apparire una strada, un sentiero, quello che Bruce indicava ai tempi del Vote for Change, quel concetto di comunità locale che può rendere l'individuo meno solo, che costituisce a sua volta comunità più grandi e complesse. E' una lunga strada verso casa, a Long walk home, questo muoversi senza una meta apparente, fuggendo l'oscurità. Una casa che non sono solo quattro mura dove rinchiudere le proprie incertezze, ma una casa che è invece una comunità che ti abbraccia, dove non sei affollato ma nemmeno solo, dove c'è una bandiera, che in fondo è quella stessa bandiera che stava sulla copertina di Born in the USA. "You know that flag flying over the courthouse, means certain things are set in stone. Who we are, what we'll do and what we won't". Springsteen riparte dai padri fondatori, come sempre. Da quella Costituzione calpestata dall'attuale amministrazione. E dà una direzione ai suoi nuovi spiriti vaganti. "Everybody has a neighbor, everybody has a friend, everybody has a reason to begin again". Questo è Bruce. Questo è il rock con cui sono cresciuto e che mi fa battere il cuore.
Tutto bene? Ovviamente no. La voce certamente non è più quella di un tempo, appesantita anche da una produzione forse eccessiva. I suoni non sono indimenticabili e certi arrangiamenti sono ridondanti. Forse una produzione alla Steve Van Zandt vecchi tempi avrebbe arricchito ulteriormente i pezzi facendo di Magic il capolavoro della maturità di Springsteen. Invece ci tocca ancora una volta avere dei rimpianti.
Ma quando il pianoforte annuncia l'inizio di Terry's song non posso che pensare a quando urlavamo "Terry!" da sotto il palco a Genova o a Nizza, con Massi e il Lello, e ascoltare in silenzio una ballata meravigliosa, sicuro che erano vent'anni che aspettavo un disco come questo. Semplicemente un disco di Bruce e della E street band.
domenica 12 agosto 2007
Letture
Fra le molte letture che sono riuscito a concedermi quest'estate voglio segnalare due libri molto diversi.
Il primo è di uno scrittore che ha il dono della magia letteraria, Jay McInerney, newyorchese, autore di "Le mille luci di New York", libro-capolavoro degli anni ottanta. Ho divorato il suo "Good Life", un romanzo scintillante, amaro, decadente sulla New York post 11 settembre. La storia di due coppie dell'altissima borghesia della grande mela, il racconto di personaggi reali immersi in un mondo irreale, svegliatosi d'improvviso a causa di qualcosa di inconcepibile, la lucida descrizione di una civiltà sotto assedio che ha perso la bussola.
Il secondo è un libro strano e avvicente: il titolo è una citazione dal Cantico dei Cantici, "Confortatemi con le mele". L'autrice, Ruth Reichl, è una famosa critica gastronomica americana (New York Times e Los Angeles Times). Il libro è una sorta di autobiografia ma con il passo del romanzo. Non solo. E' costantemente inframmezzato da ricette di cucina particolarmente importanti per l'autrice, con riferimento alle storie narrate. La lettura procede, così, fra descrizioni di ristoranti e vini, di amori e comuni hippies, di cene luculliane e dialoghi con chefs stellati, in un continuo girotondo di viaggi, separazioni, deliziose descrizioni culinarie, interviste. A parte qualche "americanata" di troppo, è un libro molto acuto e divertente.
Il primo è di uno scrittore che ha il dono della magia letteraria, Jay McInerney, newyorchese, autore di "Le mille luci di New York", libro-capolavoro degli anni ottanta. Ho divorato il suo "Good Life", un romanzo scintillante, amaro, decadente sulla New York post 11 settembre. La storia di due coppie dell'altissima borghesia della grande mela, il racconto di personaggi reali immersi in un mondo irreale, svegliatosi d'improvviso a causa di qualcosa di inconcepibile, la lucida descrizione di una civiltà sotto assedio che ha perso la bussola.
Il secondo è un libro strano e avvicente: il titolo è una citazione dal Cantico dei Cantici, "Confortatemi con le mele". L'autrice, Ruth Reichl, è una famosa critica gastronomica americana (New York Times e Los Angeles Times). Il libro è una sorta di autobiografia ma con il passo del romanzo. Non solo. E' costantemente inframmezzato da ricette di cucina particolarmente importanti per l'autrice, con riferimento alle storie narrate. La lettura procede, così, fra descrizioni di ristoranti e vini, di amori e comuni hippies, di cene luculliane e dialoghi con chefs stellati, in un continuo girotondo di viaggi, separazioni, deliziose descrizioni culinarie, interviste. A parte qualche "americanata" di troppo, è un libro molto acuto e divertente.
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