sabato 27 gennaio 2024

The Docks: rock a Milano trent'anni fa

I Docks nascono al Liceo Classico Manzoni di Milano più o meno tra la fine del 1988 e l'inizio del 1989. C'è questa rassegna di giovani rock-bands nella palestra del liceo - che è in autogestione - e mi viene da pensare che i ragazzi che stanno suonando (per lo più cover dei Clash, degli U2, dei Police) sono davvero davvero molto fighi. E così la pensano pure quasi tutte le ragazze. Quindi perché non provare a mettere su una band? 

Mio fratello Giuliano è piccolissimo, dodici anni, ma già studia chitarra classica. Ed io, che di anni ne ho sedici, da poco ho una piccola tastiera Casio con cui provo a strimpellare qualcosa. L'immaginario ovviamente è quello del pop anni ottanta.

I fratelli Dottori nel 1988

Ma per mettere su un gruppo serve una voce: io sono davvero stonato e Giuli ha ancora una voce bianca. Il mio compagno di classe e grande amico Paolo Ricotti è abbastanza intonato. Lo sento cantare in gita scolastica, quando a un certo punto salta fuori una chitarra. Così gli propongo di fare una prova. L'idea è quella di un repertorio di rock-blues classico, con qualche incursione nel cantautorato italiano. Fatico a ricordare chi partecipa alle prime prove ma nell'autunno del 1989 la prima line-up dei Docs (senza la k) è certamente questa: Paolo Ricotti (voce), Corrado Dottori (tastiere), Giuliano Dottori (chitarra), Carlo Ferrari (basso), Paolo Peroni (batteria), Paola Maraone (cori). In questa formazione esordiamo live il 2 dicembre 1989. Affittiamo una sala in via dei Missaglia (zona Grattosoglio) e vendiamo i biglietti ad amici, compagni di classe e conoscenti vari. (Diciassette anni e la mia prima giacca di pelle, un chiodo prestatomi dalla mia amica Paola La Rosa).

Siamo scarsi. Ma in quei primi momenti siamo veramente scarsi. Eppure la sola idea di far parte di una rock-band ci pare la cosa più importante e figa del mondo. Una questione di identità personale, di visione delle cose. La musica per noi è questa roba qui: poca tecnica e grande passione. E poi ore e ore passate ad ascoltare i pezzi da suonare per trovare gli accordi giusti e le note degli assoli. Tutto ad orecchio, spesso suonando sui dischi. Ma i dischi che puoi permetterti sono pochi e spesso ti devi arrangiare "scaricando" i pezzi sulle musicassette direttamente dalla radio, sperando che lo speaker non parli troppo e nel momento sbagliato.

Paolo, Corrado, Giuliano (con la sua prima chitarra elettrica)

Fin dall'inizio alterniamo cover e pezzi nostri. Rock delle origini, Dire Straits, Police, Beatles, Jimi Hendrix, Zeppelin e Floyd; ma anche Zucchero e Vasco: tutto parecchio mainstream ma in un calderone in cui i primi pezzi originali provano a mettere insieme blues e funky con testi spesso venati di satira. Tra le "influenze" di questa fase ci sono gli ancora inediti Elio e Le Storie Tese - che ascoltiamo grazie a mitologiche cassette piratate che girano nei licei milanesi - e poi lo ska dei primissimi Casino Royale (qui ospiti nella mitica trasmissione "Doc") e il soul emiliano dei Ladri di Biciclette. In un certo senso siamo totalmente fuori moda: il 90% delle band di adolescenti in quel periodo suona metal: Megadeth e Manowar a manetta! 

La seconda line-up della band vede l'ingresso di Matteo Maraone al basso e, per un breve periodo, di Filippo Casoni come chitarrista ritmico. Il gruppo cambia il nome in The Docks (a volte con l'articolo a volte senza). Si suona in diversi contesti: in feste private più o meno assurde, al Teatro Gnomo - dietro il Liceo Manzoni - in una rassegna di gruppi giovanili, e poi in oratori, in spazi appositamente affittati,  in circoli ACLI e in locali come lo storico Magia Music Meeting di via Salutati 2 (qui qualche info). La "base operativa" è la sala prove "Malibù" che poi diventa anche studio di registrazione.

Magia Music Meeting 22/05/1992 - scaletta

Nel frattempo esplode il grunge e su Videomusic inizia a circolare quella che sarà la musica degli anni novanta: oltre a tutte le band di Seattle ecco Red Hot Chili Peppers, The Black Crowes, Spin Doctors, Countin' Crowes, Radiohead ma anche Litfiba, il primo Ligabue, Timoria, Frankie Hi-Nrg Mc, Rats, Negrita, Almamegretta, Ritmo Tribale, Africa Unite, ecc. Per noi sono anni di ascolti e di grande fermento musicale. E non solo per noi: sembra che finalmente il rock, in tutte le sue varie sfaccettature, riesca a far breccia in un paese da sempre legato musicalmente solo alle canzoni sanremesi. Ecco le chitarre e le batterie! Ecco testi differenti dal solito. Il fermento che si respira è quello che di lì a poco genererà la prima "vera" scena alternativa italiana (CSI, Marlene Kuntz, La Crus, Afterhours, Massimo Volume, Bluvertigo, Subsonica, Estra, Scisma, ecc.) che vede in Milano uno dei centri nevralgici.

In quel periodo il Malibù Studio è la casa dei Quartiere Latino di Paolo Martella che usciranno di lì a poco per Wea con l'album "Prima di subito" ottenendo un certo riscontro (apriranno anche alcune date del tour di Vasco Rossi Gli Spari Sopra): si tratta di progetto molto anni novanta, un crossover piuttosto chitarristico di funky, rock, rap e simil grunge. Niente di che, ma con loro inevitabilmente si cazzeggia e ci si confronta. 

I Docks respirano tutta quest'aria che li circonda e la scrittura cambia prendendo la direzione di un rock italiano con radici americane, psichedeliche, folk, sporcato da ovvie influenze grunge, specie nelle lunghe code strumentali. Le canzoni sono tutte scritte da noi fratelli Dottori: io mi occupo dei testi e Giuliano della musica. Nel 1993 la band trova la line-up definitiva: Paolo "Probus" Ricotti (voce), Giuliano Dottori (chitarre) Corrado Dottori (tastiere), Matteo Maraone (basso) e Paolo Fabrizio (Batteria). 

The Docks nella formazione definitiva

Siamo ancora davvero scarsi ma crediamo nei pezzi che abbiamo. E con questa formazione iniziamo le registrazioni della demo "Cadere nell'asfalto". Undici pezzi di cui due cover: un rock tirato del disco solista di Mick Jagger ("Wandering spirit" uscito nel 1993 e prodotto da Rick Rubin) e una rivisitazione di "Shelter from the storm" di Bob Dylan. Le canzoni originali sono un mix di pezzi con qualche anno sulle spalle e composizioni più recenti. I testi descrivono una città dura, decadente e competitiva, ci sono riferimenti alla droga e alla depressione e c'è ben poco sentimentalismo. D'altronde la "Milano da bere" è diventata Tangentopoli e la Lega Nord di Umberto Bossi ha appena vinto le elezioni.

E correre più forte
la città ti taglia fuori
correre più forte 
la città non ha pietà 
(Le mille luci dei navigli)

Questa città ci oscura la mente
è figlia di una nebbia volgare
sentiamo il suo velenoso respiro
non credere all'oro lucente che vedi
(Cadere nell'asfalto

E poi resti lì
senza parole
per sopravvivere
oppure ridere
e troppe stelle
in un cielo nero
rincorrono il sole
senza toccarsi
(E se perdo)

Gli arrangiamenti lasciano spazi sempre più importanti alla Stratocaster distorta di Giuliano e al basso aggressivo di Matteo Maraone, pienamente in stile anni novanta. Accanto a episodi naïf e piuttosto banali alcuni pezzi sono comunque degni di nota: la psichedelica e scarna "Notte Nera", il funkettone hard-rock "Nuoce alla salute", la classica ballad "E se perdo" e il mid-tempo grunge "La strada che ci porta in fondo", forse il pezzo migliore scritto dai fratelli Dottori, specie per il suo essere assolutamente "anni novanta".

Nasci s'una sera che non hai scelto
lastricata di mattoni dorati
fiancheggiata da alti alberi in fiore
costruiscono muri lungo la strada
scuri e possenti, pieni di mistero
e ti senti forte, bello e sicuro
Ma quella strada poi 
non ti basta più 
senti voci e rumori intorno a te
Dobbiamo andare in fondo
sulla strada che ci porta in fondo

Le registrazioni coprono l'arco di un anno, più o meno tutto il 1994, e avvengono sia al Malibù Studio che al New Hammil Recording Studio, su bobine analogiche. I costi sono elevati e si registra in gran parte in presa diretta, poche take e pochissime sovra-incisioni. Un altro mondo rispetto alle possibilità offerte dalla tecnologia digitale che verrà. Da notare che i pezzi incisi al Malibù vengono registrati e mixati da un giovane Marco Trentacoste che suona nei V.M.18 e diventerà poi un importante producer, oltre che il chitarrista dei Deasonika.

La demo viene distribuita in musicassetta in poche centinaia di esemplari. La band farà un'ultima apparizione al mitico Rock Planet di Milano il 13/01/1995 per poi sciogliersi definitivamente. 

In occasione dei trent'anni da quelle registrazioni è divertente riascoltare su cassetta alcune di quelle canzoni. E devo ammettere che è ancora più divertente sfruttare i progressi della tecnologia per provare a giocare un po': portandole in digitale e ri-lavorandole grazie all'Intelligenza Artificiale e ai moderni software audio. Per sorridere su chi eravamo e su quanto, alla fine, ci siamo divertiti.             

martedì 19 aprile 2022

Netflix Party

Nel prossimo mese di maggio uscirà nelle librerie, per l'editore peQuod di Ancona, Netflix Party, il mio nuovo libro. 

Si tratta di una raccolta di dodici racconti, short stories direbbero gli americani. Tra i protagonisti ci sono viaggiatori dispersi in un futuro arido, pubblicitari in fuga da se stessi, adolescenti senza scampo, musicisti jazz, homeless, scalatori, alieni atterrati sul pianeta Terra. E poi ancora: bottiglie di vino che raccontano una vita ormai giunta alla fine e cinici manager alle prese con l’ennesimo Negroni sbagliato.

Sono dodici storie solo apparentemente sganciate l'una dall'altra: messe assieme provano a ricostruire uno sguardo sul nostro mondo, su quello che ci sta accadendo, sulla variegata umanità di inizio millennio alle prese con fatti epocali come la pandemia, il cambiamento climatico, un'economia sempre più diseguale. 


L'illustrazione in copertina è di Francesco Dottori


Il titolo che dà il nome all'intera raccolta è il titolo di uno dei racconti, l'ultimo. In realtà mi pare sintetizzare bene il respiro profondo di questi testi. Netflix Party perché volenti o nolenti viviamo vite sempre più virtuali; perché a prescindere dalla pandemia viviamo vite confinate, dove gli spazi di socialità e di libertà autentica sembrano continuamente restringersi; perché viviamo vite le cui relazioni ed emozioni sono sempre più decise da altri, e spesso da algoritmi di cui nemmeno conosciamo l'esistenza.

Per cercare di fare emergere le contraddizioni in cui siamo immersi ho scritto di personaggi o situazioni estremi. Ho stressato i contesti e portato le vicende sempre sul bordo di un precipizio immaginario. Così le dodici storie raccontano l’ansia, l’adrenalina, il senso di perdita, la follia, lo smarrimento che si provano una volta giunti al limite: quando le scelte valgono doppio, gli errori sono imperdonabili e la catastrofe sembra imminente. 

E pure, nonostante tutto, c’è un senso di profonda umanità racchiuso nelle scelte di molti dei personaggi. Quasi una sorta di resistenza a un mondo che ci vuole confinati.

sabato 26 febbraio 2022

La guerra in Ucraina vista da una vigna

Riporto uno stralcio da "Come vignaioli alla fine dell'estate" che mi sembra particolarmente calzante rispetto a quanto succede in Ucraina, soprattutto pensando alla questione energia/clima/stati-nazione.


Da una vigna puoi capire molto bene alcune questioni del contemporaneo.

Le vigne hanno dei confini naturali o artificiali molto netti. Spesso quelle storiche, soprattutto in Borgogna, sono dei clos, cioè degli spazi delimitati da muretti a secco. Altre volte a far da limite sono viottoli o fossi o canneti oppure file di alberi (si pensi ai cipressi toscani). Spesso questi confini delimitano, se crediamo al principio del terroir, identità ben precise e differenti. Ma anche delle «sovranità»: i proprietari del fondo determinano cosa piantare, chi far lavorare, quando raccogliere, ecc. E spesso accade che tra un clos e l’altro non sia solo la natura a far la differenza, ma anche l’uomo.

Il momento che stiamo vivendo è l’onda lunga delle prime recinzioni di terre comunitarie, le enclosures che furono alla base del capitalismo moderno e della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni sono state anche alla base della Grande Trasformazione (1) e, dunque, anche di quello Stato-Nazione che oggi viene richiamato da destra e da certa sinistra come salvifico gommone di salvataggio contro la globalizzazione cattiva. Senza accorgersi, invece, che proprio come le enclosures furono incentivate dallo Stato per facilitare la ricca aristocrazia rurale inglese, così la globalizzazione si è ser- vita degli Stati nazionali per imporre la sovranità della finanza sul mondo reale.

È l’assurdo di un mondo capovolto, nel quale la Cina comunista vuole apparire come «aperta» al commercio e l’America di Trump diventare protezionista. Dov’è la sovranità? Nei parlamenti nazionali o nei consigli di amministrazione delle multinazionali? Nelle deboli, e spesso corrotte, strutture sovra-nazionali o nella liquida ed efficiente intelligenza del Capitale contemporaneo?

Perché la verità è che lo scontro tra globalisti e sovranisti è solo un altro modo per fottere quello che rimane della working class. Che ci perde in ogni caso.

Tutto questo lo puoi vedere da una vigna.

Che cos’è la sovranità d’altronde se non il potere su di un territorio? Potere e territorialità. La terra è da sempre anzitutto una geografia su cui instaurare un potere. Nella mia vigna, all’interno di confini ben delimitati sulle mappe catastali, c’è la mia sovranità di proprietario, ma essa coesiste con una legisla- zione regionale, statale, europea e persino globale che rendono il mio potere su quella porzione di terra fortemente limitato: non posso, ad esempio, impiantare una vigna nuova senza aver ottenuto diritti di impianto; non posso impedire ai cacciatori di passare e cacciarci dentro; non posso usare alcuni pro- dotti chimici, giustamente vietati; oppure sono costretto a usarne alcuni in casi di emergenze fitosanitarie.

Quello che è accaduto nel nostro pianeta sotto la spinta della tecno-scienza e delle trasformazioni dei modi di produzione degli ultimi decenni è anche, e soprattutto, la riduzione dello spazio geografico, antropologico e sociale. Nel villaggio globale l’Homo oeconomicus è specie dominante uguale a se stessa indipendentemente da ogni particolarismo. Siamo consumatori globali, ma non siamo cittadini del mondo. C’è una scissione tra bisogni, aspirazioni, immaginari globali e diritti e sovranità locali e limitati. Da questo punto di vista siamo o potremmo essere tutti migranti economici: di fronte al movi- mento libero del capitale, ai disastri ambientali sempre piùfrequenti, alle guerre delle quali perdiamo memoria, a distanze sempre meno rilevanti, di fronte a immaginari reali e virtuali sempre più condivisi e attesi che si scontrano con confini sempre più stringenti.

La forzatura di massa dei confini nazionali potrebbe essere una delle cifre maggiori del prossimo futuro, una forza prepotente di cambiamento che correrà parallela alla forza naturale/artificiale del cambiamento climatico: ecco perché meticciato e libertà di movimento sono diventate «la» prima emergenza per i difensori di un presunto conservatorismo oramai fuori tempo massimo.

Viviamo una cesura storica senza precedenti. La terza rivoluzione industriale ci consegna un mondo che è solo un lontano parente di quello esistente 250 anni fa. Dopo la Prima rivoluzione industriale, basata sulla forza motrice dei «carburanti», dopo la Seconda rivoluzione industriale incentrata sulla chimica, la rivoluzione digitale, con tutte le sue applicazioni diffuse, ha stravolto non solo le economie ma anche le relazioni spazio-temporali tra gli umani. Eppure cerchiamo di governare questo mondo attraverso infrastrutture istituzionali vecchie e superate, pensate per abitare una realtà che non esiste più.

Si potrebbe, invece, guardare alle piante. Alla loro capacità di decentrare le decisioni: «in generale, le piante distribuiscono sull’intero corpo le funzioni che gli animali concentrano in organi specifici (...). In un certo senso la loro organizzazione è il segno stesso della modernità: hanno un’architettura modulare, cooperativa, distribuita e senza centri di comando, in grado di sopportare alla perfezione predazioni catastrofiche e ripetute» (2). Al contrario di quanto si pensa, in natura le gerarchie sono rare e funzionano male. Le complessità vengono risolte non attraverso logiche di potere, ma attraverso i principidi un’intelligenza collettiva. Nella loro storia evoluzionistica i vegetali hanno risolto i problemi posti dall’ambiente in modo molto diverso dagli animali. Radicamento profondo in un luogo e capacità di vagabondare pressoché illimitata di semi e spore: le piante possono apparire davvero come un modello per le comunità umane del futuro alle prese con un pianeta sempre più piccolo.

Oggi la potenza e la velocità del cambiamento in atto condurranno al dissolvimento delle vecchie strutture «sovraniste», non al loro consolidamento. «L’antropocene richiede un mutamento delle visioni consolidate del governo e della legittimità (...) Il vecchio modo di vedere la responsabilità e l’impatto dell’azione individuale non è più adatto all’Antropocene per via degli aspetti collettivi, sistematici e permanenti della nuova interazione fra umanità e natura» (3). Come la Grande Accumulazione sfociata nella Prima rivoluzione industriale ha portato alla fine del feudalesimo e alla costruzione di nuove istituzioni politiche, così la Grande Accelerazione, prodromo alla rivoluzione digitale, non potrà che mettere sempre più in sofferenza l’intero impianto normativo contemporaneo. Costringendoci a rivederne «le sue vecchie fondamenta politiche se non vogliamo vedere il nostro sistema globale spinto a forme di collasso sempre più estreme. Questo non è un piccolo sforzo: occuperà la parte maggiore di questo secolo. Non sappiamo ancora dove porterà» (4).

Niente sarà più come prima nell’Antropocene.

Nemmeno la vigna che ho davanti agli occhi. Nemmeno i vini che ne verranno fuori. Non ci sarà alcun grand-cru classé a poter resistere a questa sovversione e qualunque idea di un terroir immobile, cristallizzata dentro disciplinari, pensata per la protezione di vitigni o parcelle indifendibili, è destinata a franare. Con buona pace di ogni sovranità immaginata dentro ai muretti a secco dei clos.

Note:

1)    Karl Polanyi, "La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca", Einaudi, Torino 2010.

2)    Stefano Mancuso, "Plant revolution", Giunti, Firenze 2017, p. 145.

3)    Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, "Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo", DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 190 e 191.

4)    Rana Dasguspta, "The demise of the nation state", The Guardian, 05/04/2018.

venerdì 4 febbraio 2022

Pantelleria, d'inverno

Pantelleria mi si rivela definitivamente in una assolata, scintillante, giornata di gennaio. Capisco che Pantelleria non è quella d'agosto, invasa dai turisti, dalle vespe, dalle auto a noleggio, dai ricchi figli di imprenditori e professionisti; quella dei lussuosi dammusi, delle feste notturne sul mare, delle riviste, degli attori famosi o degli sdolcinati passiti. O almeno: è quella solo in parte.

Arrivo con Francesco direttamente da Marsala dove abbiamo finito la potatura del vigneto del progetto Halarà. Siamo un po' cotti: per la sveglia alle cinque e e per la serata precedente in cui si è festeggiato aprendo parecchie bottiglie. In giro non c'è nessuno. Andiamo subito a vedere qualche vigneto. Con la Panda di Francesco ci addentriamo per stradine di campagna, in mezzo a una macchia mediterranea lussureggiante, una garìga profumatissima e piena di colori.


Gli alberelli appaiono qua e là, incastonati fra muretti di pietra vulcanica, nei pochi pianori strappati alle colate. Negli anni Francesco e Nicoletta hanno recuperato tanti piccoli appezzamenti, in gran parte vecchie vigne, alcune quasi centenarie. L'intuizione è stata subito quella di sganciarsi completamente dalla "modernità" del Passito di Pantelleria, in gran parte vinificato lontano dall'isola, e fare vini-vigna. Vini di terroir. Un'idea visionaria pensando che il vitigno principe è anche il principe di tutti gli aromatici: lo Zibibbo. 

Osservo piante di novant'anni e mi emoziono di fronte alle loro contorsioni, alla bellezza fiera delle branche, a potature che nei decenni hanno creato sculture viventi. Osservo la differente tessitura del terreno, i diversi colori, le diverse tipologia di roccia vulcanica. Ascolto il silenzio, il mare in lontananza, il vento fra i capelli. Quasi tutte le abitazioni sono vuote, in attesa di un'altra estate. Tutto è chiuso, sospeso, isolato. Non è facile vivere così isolati, penso. Ma io che ci sto solo per un giorno, io che sono pure un po' orso, non riesco a non apprezzarne la forza e la pace.


Il primo che ha fatto capire quel che potevano essere i vini di Pantelleria è stato Gabrio Bini. Abbiamo un importatore in comune e dunque ho avuto negli anni qualche confidenza coi suoi vini. Non me ne sono mai del tutto innamorato per varie ragioni. Ma ne posso capire il successo. 

Tanca Nica, l'azienda di Francesco e Nicoletta, è la realtà che serviva perché i più ferventi appassionati di vino potessero iniziare a capire appieno i vini di questi luoghi: un'azienda davvero pantesca, profondamente ancorata alla visione contadina dell'isola, ma forgiatasi dopo lunghi anni di studio e lavoro in giro per il mondo. Locale-Globale, dunque. La rivoluzione del vino naturale in tutta la sua geometrica potenza: vini puri, agricoli, senza manipolazioni, ma guidati da una mano enologica talentuosa e da una autenticità che rifugge le scorciatoie. 

Lo capisco in modo definitivo assaggiando tutte le vasche della annata 2021. Vini di classe e finezza. Vini dove Francesco fa risplendere lo Zibibbo di una luce tutta sua, in cui la carica aromatica è solo una traccia che conduce altrove. 

In lontananza, ma nemmeno troppo, vediamo la Tunisia, distante solo 65 Km. E mi sembra assurdo che a latitudini simili si possano fare vini dalla trasparenza simile. Vini che racchiudono in sé tutti gli elementi primordiali.

Vini di aria: con il vento costante, onnipresente, a farla da padrone. Scirocco e maestrale. È il vento mi dice Francesco che decide le dinamiche di una annata, di una vendemmia. 

Vini di acqua: perché siamo su un'isola. Su una piccola isola circondata dal Mediterraneo. È il mare a rendere possibile la vegetazione dell'isola, perché in questo sud estremo senza il mare ci sarebbe solo il deserto. 

Vini di fuoco: sole, sole, sole. Che è calore ma anche luce, una luce sfolgorante. Vini di sapore, dunque, dove diluizione è una parola sconosciuta anche se spesso i vini di Tanca Nica non fanno più di 12 gradi. 

Vini di terra: terre nere, terre grigie, terre rossastre. Frutto di eruzioni e colate preistoriche, di una moltitudine di metalli fusi, di stratificazioni tutte diverse.Così la follia di vinificare micro-parcelle separate a seconda del suolo, una Borgogna dello Zibibbo e del Mediterraneo più sudista, si rivela per quello che é: l'ennesima conferma che la parola "mineralità", controversa e forse anche errata, trova però riscontro nel bicchiere per qualche oscura ragiona.


Dopo un'altra sveglia prima dell'alba me ne torno a casa con la voglia di tornare, di tornare ancora fuori stagione. Quando Pantelleria esprime interamente tutto il suo fascino isolano e primordiale.


mercoledì 24 novembre 2021

Appunti sparsi. Noi. La vendemmia 2021. I prossimi tempi.

Mentre una fitta nebbia ci impedisce di continuare la raccolta delle olive - ce ne sono tante e belle - alcune riflessioni si rincorrono, sfuggenti, da qualche tempo.

I vini della vendemmia 2021 riposano nelle vasche e nelle botti. A parte qualche residuo zuccherino qua e là, sono buoni. Alcuni sono molto buoni. È stata una vendemmia piuttosto veloce nei tempi di raccolta e molto lenta nelle fermentazioni, come era prevedibile. Una vendemmia molto diversa dalla precedente che era stata disastrosa soprattutto per quanto riguardava il mio approccio. Se infatti ero uscito dalla 2020 con dubbi e insicurezze, con una sorta di incapacità di giudizio e di azione che mi pareva assurda dopo ventidue vendemmie, con questa vendemmia ho riscoperto il piacere della vinificazione. Intendiamoci: è sempre qualcosa di piuttosto masochista, con le notti insonni e tutto quanto... Ma in qualche modo mi pare di aver recuperato il senso più profondo del mio lavoro.

Il microscopio. 

In qualche modo il microscopio è stata la chiave. Non che il microscopio in sé possa risolvere i problemi. Però quel che è successo è che si sono come disciolte molte delle incrostazioni ideologiche sul "naturale" che in questi anni si erano progressivamente stratificate in me, in noi. Da un lato il microscopio mi ha letteralmente riportato proprio dentro alla Natura. Dall'altro mi ha sganciato finalmente dalla retorica del "Naturale". Sembra una contraddizione ma non lo è. Penso ad esempio al bellissimo libro di Christelle Pineau "Cornoletame e microscopio" in cui si fa una approfondita analisi antropologica del movimento del vino naturale.


Osservare l'estremamente piccolo, il microcosmo di lieviti e batteri, mi ha guidato verso riflessioni più macro, su questo nostro mondo incastrato nella pandemia, preda di rancori, paure, muri. È stato un viaggio in qualche modo catartico, e lo è ancora. 

Osservare la vita microscopica e le sue influenze sul nostro lavoro, sulle nostre vite; immaginare il virus come fosse un lievito. E poi pensare alle nostre società. Alle nostre aziende. Alle nostre istituzioni. Al nostro ambiente. Pensare a come tutto sia collegato e a come tutto sia estremamente fragile.

La realtà è che mi sto progressivamente allontanando dal "vino naturale". Da sempre ho criticato certi atteggiamenti e valutato i rischi di alcune operazioni. In tempi non sospetti: sia nei libri, che in vari contributi web (solo una selezione per chi fosse curioso: qui qui e qui). Nonostante questo ci ho creduto e continuo a pensare che quella rivoluzione sia stata foriera di un più ampio rinnovamento del mondo del vino tout court. 

Eppure oggi l'esplosione stile supernova del "naturale" e il suo enorme successo mi sembrano in gran parte una rappresentazione già vista, vecchia. Con tutte le sue narrazioni, i suoi selfie, le sue forzature, le sue bottiglie feticcio, i suoi influencer, il suo circo e i suoi circoli e le sue falsità belle e buone. Proprio nel momento in cui i nodi della catastrofe ecologica che ci circonda vengono definitivamente al pettine, proprio quel mondo, il nostro mondo, balbetta parole come "sostenibilità" e "biodinamica" ma in fondo in fondo è del tutto silente. E politicamente ininfluente.

Peggio. Una parte del movimento si dimostra, rispetto alla pandemia in atto, dubbiosa nei confronti della scienza quando non apertamente negazionista e cospirazionista. Il che fa il paio - devo dire in modo coerente (non me ne ero mai reso pienamente conto) - con una idea di agronomia e di enologia che si allontana sempre di più da una qualsivoglia ragionevole base scientifica. (Che poi il mondo scientifico sia pieno di problemi questo è un altro piano del discorso e qui nessuno si è mai tirato indietro rispetto ad una critica serrata alle sue distorsioni). 

Mi chiedo: cosa fare di fronte a tutto questo disagio? E la risposta è complicata, difficile.

Forse ritirarsi e decrescere. Ri-educarsi. Fare politica attiva. E piantare un sacco di alberi. 

Questo è ciò che abbiamo fatto ed è ciò che continueremo a fare. Che il vino, in fondo, è sempre stato solo una scusa. 

domenica 18 luglio 2021

Come vignaioli alla fine dell'estate: l'introduzione

C’è questo primo fermo immagine dell’estate 2019 che continua a passarmi per la mente.
 

Una slitta trainata da cani, un cielo azzurro e luminosissimo, una linea di montagne sullo sfondo. La slitta e i cani viaggiano sospesi sull’acqua. Camminano letteralmente sulle acque. 

La foto è stata scattata in Groenlandia e mostra lo scioglimento del permafrost: appena sotto il pelo dell’acqua c’è il ghiaccio che si sta sciogliendo e sul quale i cani e la slitta stanno scivolando, generando l’incredibile effetto ottico (1)

C’è poi una seconda immagine molto potente in questa estate a tratti surreale: si tratta di una foto satellitare che mostra gli incendi scoppiati in Siberia. Si stima che tre milioni di ettari fra boschi e tundra siano andati in fumo, rilasciando 140 milioni di tonnellate di CO2, una cifra assolutamente gigantesca che ci racconta di una dinamica climatica totalmente fuori controllo.

Infine c’è un’ultima fotografia che rincorre nella mia mente le altre due, provando in qualche modo a cancellarle. Siamo in mezzo alle rovine di Micene, in mezzo a grandi blocchi di pietra che testimoniano di una grande civiltà in frantumi. Ecco, proprio lì, in mezzo ad alcune pietre di una antica dimora devastata, cresce una vite. Una vite selvatica. Che prova a farsi strada e a sopravvivere là dove non c’è più nulla.

La vite. Pianta resiliente, testarda e ribelle. Unica forma di vita in mezzo al vuoto. 

È un’immagine che mi fa riflettere sul movimento dei vignaioli naturali. Su quanto sia al centro del grande cortocircuito fra natura e cultura e su quanto poco stia facendo per prendere davvero posizione di fronte alla catastrofe ecologica.

 


La crisi ambientale che stiamo vivendo è in gran parte una crisi della Politica.

Nel 1975 Wallace Broecker pubblicava su Science un articolo dal titolo emblematico: Climatic Change: Are we on the Brink of a Pronounced Global Warming?” (2). L’insostenibilità del nostro modello di sviluppo è cioè cosa nota da sessant’anni almeno, eppure non è mai stata davvero al centro delle campagne elettorali o dei programmi politici di nessun grande partito politico di massa.

Nella ri-edizione di “Tempi storici Tempi biologici”, nel 2005, Enzo Tiezzi affermava “con un misto di imbarazzo e di orgoglio che le previsioni di vent’anni fa si sono dimostrate fondate e scientificamente corrette”. Nulla si crea e nulla si distrugge, la legge della termodinamica non fa sconti a nessuno: il ciclo del Carbonio sta alla base dell’aumento fuori controllo delle temperature del pianeta. I politici lo sanno da tempo. Ma nessuno ha mai davvero agito.

 

Eppure, se una speranza esiste, questa risiede ancora una volta proprio nella politica. 

In una nuova rotta.

Veniamo da anni, decenni, dominati dalla cieca fede in una dimensione globale sbagliata che ha prodotto danni sociali ed ambientali devastanti. La reazione è stata peggiore del male: una tendenza a rifugiarsi nell’identità locale e in un nuovo nazionalismo escludente. 

Dobbiamo cambiare immaginari, utilizzare nuove parole, pensare nuovi attori. Delineare i protagonisti della nuova lotta che si muovano in un terzo orizzonte, al contempo locale e globale.

“Ci vuole un termine che raccolga la stupefacente originalità (la stupefacente antichità) di questo agente. Chiamiamolo per il momento il Terrestre, con la T maiuscola per evidenziare che si tratta di un concetto; e, anche, per precisare in anticipo dove ci si dirige: il Terrestre come nuovo attore politico” (3).

 

Ho scritto questo libro con tutta l’urgenza che un mondo arrivato al capolinea può generare. Con gli occhi di un agricoltore che vede la natura cambiare giorno dopo giorno, immerso in una pratica quotidiana che dipende spesso da variabili incontrollabili. 

Ho scritto questo libro nella speranza che possa informare, angosciare, sensibilizzare. Che possa convincere almeno un solo lettore della necessità di un attivismo concreto e radicale contro il riscaldamento globale.

Il pessimismo della ragione mi porta a pensare che sia già troppo tardi. Al tempo stesso credo che non si debba lasciare nulla di intentato. 

Lo dobbiamo ai nostri figli cui lasciamo un pianeta in fiamme. 

 

 




(1) Sono 290 i miliardi di tonnellate di ghiaccio fuso che si sono riversate nell’Atlantico nei primi sette mesi dell’anno e certamente il record del 2012 verrà superato.

(2) https://blogs.ei.columbia.edu/files/2009/10/broeckerglobalwarming75.pdf

(3) Bruno Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.
Pagg. 55 e 56

 

domenica 27 giugno 2021

Socialismo o barbarie: i dubbi di un anarchico di fronte al futuro

Ci ho messo un anno a scrivere questo post "sulla pandemia".
Stava lì nelle "bozze". Cancellato e ricominciato mille volte. Ad ogni chiusura e a ogni riapertura. A ogni nuova notizia o polemica. A ogni commento di Tizio o di Caio che mi parevano aver torto o ragione. 
Ora nelle Marche siamo in una situazione di siccità estrema e ci sono temperature che in giugno non si erano quasi mai viste. E penso che tutto si tiene, che tutto è correlato. E allora ci riprovo.
Da dove posso cominciare?
Forse dal riso amaro che mi ritrovo stampato in faccia da mesi scorrendo i social media e i giornali on-line, alla ricerca di opinioni che mi aiutino a capire e ad approfondire i temi di questa pandemia. 
Il riso amaro di fronte allo stato di questo paese e di questo nostro occidente.
Siamo bombardati da opinioni e informazioni di ogni tipo. E la pioggia torrenziale di questa inesauribile comunicazione si fa subito fango, pantano dove è impossibile trovare una via percorribile verso una qualche forma di conoscenza stabile, sicura, definita.
Vorrei allora provare un ragionamento differente. Che abbracci uno sguardo da lontano. Che metta da parte l'informazione singolare e immediata cui ci stiamo abituando sempre più, e provi a collocare questi giorni nella loro complessità plurale.
Stiamo assistendo ad una violentissima accelerazione della Storia.
Parlando coi miei figli ho provato a spiegarglielo. Tutte le generazioni vivono almeno un momento storico fondamentale, decisivo. Per la mia generazione - ad esempio - è stato il crollo del muro di Berlino, nella sua dimensione ideologica prima che fisica. Per la generazione precedente certamente il ciclo di movimenti sessantotto/settantasette. 
Questa pandemia sarà molto probabilmente il "loro" evento: qualcosa che sposta i destini e muta le dinamiche sociali e politiche. Non fraintendetemi. Non sono così naif da pensare al singolo evento (la scoperta dell'America, l'invenzione della macchina a vapore...) come unica determinante della Storia: la storiografia moderna, marxista e non, ha da tempo mostrato l'importanza delle "derive", dei tempi lunghi, delle accumulazioni, dei movimenti sotto-traccia, delle dialettiche sociali ed economiche, spesso invisibili, che incidono sui grandi fatti.
È incontestabile, però, che l'arrivo di questo virus - uno shock esogeno direbbero gli economisti - sta mettendo sotto pressione tutte le delicate strutture con cui le moderne democrazie occidentali più o meno liberali avevano provato a mantenere un fragile equilibrio: quello tra benessere economico, coesione sociale e libertà personali. Non solo. L'arrivo del virus ha rimesso di colpo in discussione paradigmi che sembravano inscalfibili.
Si pensi, ed è l'esempio più clamoroso, all'Europa: nel giro di pochi mesi il COVID-19 ha raso al suolo decenni di pensiero ordo-liberale basato sull'austerità. Nemmeno la crisi finanziaria ci era riuscita: solo il governo italiano negli ultimi mesi ha speso decine e decine di miliardi di euro in deficit, qualcosa di inimmaginabile anche solo un anno fa. 
E ovviamente ci sarà un prezzo da pagare. Ma non è questo davvero il punto... 
Si tratta di una sensazione prima che di una ragionamento limpido.
Come posso spiegarlo?


Avete presente "Una poltrona per due"?
Ecco, è successo proprio quel che succede a Dan Aycroyd quando da ricco diviene povero: una certa parte del mondo (Principalmente nell'emisfero nord, principalmente in occidente, principalmente di pelle bianca) non era più abituata, da tempo, da almeno tre generazioni, a vivere in certe condizioni di estrema precarietà e insicurezza. E quando all'improvviso la propria Comfort Zone ha iniziato a vacillare si è trovata di colpo senza riferimenti. (Perché vaglielo a dire all'abitante di una favela brasiliana, al residente di una bidonville africana, al ragazzo di un paesino di campagna dell'India, che il Coronavirus sta intaccando il loro stile di vita!)Quello che non è ben chiaro alle classi medie occidentali è che, se è vero che da anni esiste un effetto trascinamento verso il basso della propria condizione, è però altrettanto vero che esse sperimentano ancora livelli di vita molto superiori a quelle delle generazioni precedenti oltre che dei miliardi di altri abitanti del pianeta che in occidente non vivono.
Lo dimostrano in modo incontestabile alcune delle reazioni più assurde al virus, tipo le lacrime per le mancate vacanze sugli sci in piena seconda ondata: pensiamo per un istante all'Europa del 1918 e pensiamo agli effetti combinati di una orribile guerra mondiale e di una epidemia come la spagnola e proviamo a sovrapporre queste immagini alle fotografie di certe corse all'aperitivo o allo shopping natalizio. L'effetto è di puro straniamento. 
Per questo motivo trovo insopportabile questa ipocrisia diffusa per cui intere masse di individui che hanno per decenni vissuto sopra le proprie possibilità - a danno degli altri abitanti del globo e delle risorse naturali del pianeta - negli ultimi mesi si siano fondamentalmente lamentati per la limitazioni di alcune del tutto prescindibili libertà borghesi.
Una ipocrisia che si sostanzia poi in un altro modo: milioni e milioni di cittadini che negli ultimi decenni hanno voluto meno Stato e più Mercato, che hanno votato in modo coerente e convinto per partiti di destra e/o di sinistra tutti quanti in modo trasversale favorevoli alla riduzione delle tasse (e dunque alla riduzione di stato sociale), alla riduzione del debito, alle privatizzazioni, ecco questi stessi cittadini si sono messi a pretendere all'improvviso l'assunzione di medici e infermieri, la ri-apertura di ospedali, la garanzia di tracciamenti su larga scala, la sistemazione dei trasporti pubblici e l'erogazione di sussidi a pioggia. Così, di colpo.
Certo, la povertà sta aumentando a dismisura. E certo, ci sono intere fasce di popolazione che soffrono pesantemente: ma c'erano anche prima e a chi interessavano? Questa è l'ipocrisia di Dan Aycroyd: si accorge della povertà solo quando diventa povero, che è esattamente ciò che sta succedendo.


Così mi ritrovo a confrontare la gestione della pandemia di tutti i paesi del Sud-America con quella di Cuba e penso Cazzo, compagni, forse quella Rivoluzione non ha avuto tutti i torti a privare il popolo di qualche libertà civile se poi è riuscita a costruire e mantenere sistemi sanitari ed educativi di qualità per tutti! (che poi in realtà ci sarebbe da discutere - e molto - sui diritti garantiti a Cuba, chiedere ad esempio agli omosessuali). 
Ma non era questo, in fondo, quel che sognavano i comunisti? Uno scambio fruttuoso e sostenibile tra libertà personale e diffusione dei diritti? Ed è - me ne rendo conto - un ragionamento orribile perché da anarchico ho sempre sofferto questa scelta. Non dovremmo proprio arrivarci a uno scambio del genere. Ma nel guardarmi intorno non posso non notare come la stragrande maggioranza dei comportamenti individuali - sui quali volenti o nolenti poggia l'idea di autogestione - abbia in questi ultimi mesi delineato in occidente una inequivocabile scelta valoriale: mettere in conto la convivenza con il virus e la sua diffusione, e dunque un certo numero di vittime, per mantenere in piedi, anche se zoppicante, il nostro "stile-di-vita". 
Si dirà, come sempre, TINA: There Was No Alternative. 
Ma ne siamo proprio sicuri?
La domanda non è oziosa. E sì! Sottende un certo moralismo. Ma non c'è nulla di male nel moralismo: dipende dai valori cui si fa riferimento. Anche il privilegiare l'economia ad ogni costo è una scelta morale. Si tratta di privilegiare l'utilitarismo e, questo, come ben sappiamo, è la base di Homo oeconomicus: un attore razionale teso alla massimizzazione della propria utilità personale. È un cazzo di valore. Ed è, in definitiva, il valore che fonda il capitalismo. 
La domanda non è oziosa per il semplice fatto che questa pandemia può essere vista in qualche modo come una "prova generale": il cambiamento climatico ci obbligherà a rinunciare per sempre ad alcune libertà personali in cambio della sopravvivenza della specie. Passato questo virus, che prima o poi passerà, ce ne saranno forse altri più gravi - o forse no - ma in ogni caso dovremo fronteggiare un paio di verità incontestabili: 
1) il caos climatico che ci attende produrrà effetti profondi e strutturali sulle nostre vite sociali
2) non saremo mai in grado di vivere in dieci/undici miliardi di essere umani sul pianeta Terra e ottenere contemporaneamente benessere economico, salute ecologica e libertà personale.
È una visione troppo pessimista? Troppo Malthusiana? Forse.
Ma non dobbiamo sprecare l'unica nota positiva che la pandemia ci ha consegnato: la sperimentazione del mondo che verrà se non cambiamo rotta. Perché ciò che stiamo vedendo in larga parte non è altro che un mondo vecchio che prova a resistere nell'unico modo che conosce: garantire un livello di consumismo che possa salvaguardare la sopravvivenza del sistema. 
È questo che davvero vogliamo?
O forse è urgente mettere in conto un'alternativa sapendo fin d'ora ch'essa non potrà essere il migliore dei mondi, l'utopia degli anarchici? Che nella società dell'Antropocene dovremo tutti rinunciare a qualcosa (un po' di benessere economico? qualcuna delle tante libertà che gli ultimi decenni ci avevano regalato?) purché queste rinunce siano nel senso della sobrietà e, soprattutto, della eguaglianza? 
Non è socialismo questo?
E non appare come l'unica soluzione alla barbarie?

giovedì 1 aprile 2021

Contorsioni e rivalse


Ho sempre provato un fascino incredibile per le vecchie piante di vite.
È una delle ragioni per cui in questi anni ho piantato relativamente poche nuove parcelle e invece affittato o acquistato vigne di una certa età.
Mi affascinano le contorsioni delle vecchie viti. Il loro continuo, ostinato, resistere. La loro natura più intima le spinge verso l'alto. La vite è una liana, cerca il cielo, la verticalità. Ma viene costretta dall'uomo, o dagli elementi, a restare vicino a terra. Fronteggia un destino che è in qualche modo contro-natura. E nel far questo si arrovella, si curva, si attorciglia, si contorce. Affronta tagli, richiude ferite, sfugge al vento magari strisciando, vede crescere in sé buchi neri e fratture. Vere e proprie incisioni nell'anima che la linfa è costretta ad aggirare, ogni volta cercando una nuova strada. 
Una vecchia vite è - banalmente - molto simile a una vita. Umana. 
Ti ritrovi a quasi cinquant'anni a cercare il cielo. È nella tua natura. Ma non puoi più andare dove vorresti, liberamente e senza pensieri. C'è già un tronco più o meno possente, ci sono branche ramificate, ci sono i tagli più o meno netti che il mondo ti ha inflitto. Qualche buco nero. I segni delle vittorie e quelli delle sconfitte. Ci sono la meraviglia e lo stupore sempre nuovi di una storia, individuale e collettiva. E ci sono intorno anche delle fallanze, perché non tutti i tuoi compagni ce l'hanno fatta. 
C'è, nelle vecchie vigne, e nelle nostre vite, questo alternarsi di pieni e di vuoti. 
Ma soprattutto, e lo vedi chiaramente, senza dubbi o incertezze, in primavera, c'è una inarrestabile spinta vitale, che se ne frega di tutto, e che in modo ancestrale, primitivo, ribelle, aggira ogni ostacolo ed ogni avversità. Una specie di temeraria rivalsa.   

venerdì 5 febbraio 2021

L'annata 2020 e alcuni dubbi radicali

Si dice sempre che ogni vendemmia è una storia a sé. Ed è vero. 

Ma poi ci sono annate che sono davvero dei punti di svolta, di non ritorno. Nel mio caso penso alla 2004: la prima annata in cui iniziai a sperimentare le fermentazioni spontanee. Oppure alla 2013, forse la migliore annata degli anni 2000 qui a Cupramontana: una vendemmia irripetibile che ci ha consegnato il senso del nostro limite qualitativo.

La vendemmia 2020 è stata per me una vendemmia durissima. I vini in vasca stanno mettendo a dura prova ogni mia convinzione, anche quella di continuare questo lavoro. Mi trovo nella condizione di non capire più le cose che sto facendo, la direzione verso cui stiamo andando. Tutta la bellezza del lavoro in campagna, la complessità dell'ecosistema che stiamo costruendo, e che mai come quest'anno pareva meravigliosa, non riesco a ritrovarla per nulla nei vini. O forse c'è, ma a me non piace più.

I miei vini sono sempre stati oggetto di dibattito. A molti non sono mai piaciuti ma non è stato mai un problema. Abbiamo smesso di mandarli alle commissioni assaggio. Abbiamo smesso di mandarli alle guide. Piacevano a noi. E piacevano ai nostri clienti. Tanto bastava.

Gennaio e Febbraio sono due mesi brutti per assaggiare i vini nuovi, specialmente i vini a base Verdicchio. Può essere che fra qualche mese questi brutti anatroccoli rifioriscano. Ma il punto non è questo, non è solo estetico. Fare vino naturale, perlomeno come siamo arrivati a farlo noi, implica l'assunzione di grandi rischi: di fatto tutta l'enologia moderna, quella che si basa sull'utilizzo di coadiuvanti e additivi più che sulla conoscenza dei processi, è basata sul concetto di riduzione del rischio. Ecco, la sensazione è che in questa fase io sia andato davvero troppo oltre, che il sottile confine tra un rischio calcolato e un salto nel vuoto sia stato oltrepassato.



Ancora oggi, dopo più di vent'anni di vinificazioni, mi trovo a non comprendere fino in fondo certe dinamiche. Oppure a comprenderle ma a non riuscire ad affrontarle nel modo in cui vorrei. Il clima non ci aiuta, ma non ci aiuta nemmeno la ricerca scientifica. E nemmeno - spiace dirlo - il nostro "movimento" così compatto quando si tratta di andare a una fiera e così poco interessato a costruire una "educazione alternativa". Così mi ritrovo solo ad assaggiare il frutto di un lavoro duro, approfondito, minuzioso, costoso sia in termini di energie che economie, e a doverlo rifiutare, a sentirlo come distante, come il frutto del lavoro di un neofita, di un principiante alle prime armi.

Forse è anche il momento che stiamo vivendo, forse i micro organismi responsabili delle fermentazioni hanno colto il fraintendimento, la paura (Giovanna, lo so che lo pensi!) e magari ri-assaggiare la 2020 tra dieci o quindici anni ci farà ricordare la pandemia, il lockdown, l'incertezza di questi tempi folli.

Oppure è solo arrivato il momento di lasciar perdere. Lasciare tutto in mano a un bravo enologo e andarmene in giro a fare bird-watching. Minchia, pensate il fallimento.      

venerdì 8 gennaio 2021

Sulla moda degli Orange Wines

Ho iniziato a sperimentare le macerazioni di uve bianche nel 2003/2004. Ero ovviamente esaltato dai primi assaggi di vini che mi apparivano rivoluzionari. Gravner, Radikon, Damijan, Zidarich. E poi La Stoppa e Maule. Comprai anche un'anfora e insieme ad Alessandro Fenino (Pievalta) facemmo un esperimento di macerazione di tre mesi di uve Verdicchio di una vigna che seguivamo nei fine settimana. A ripensarci oggi mi viene da sorridere. Il vino alla fine non ci piacque granché.

Andai avanti con gli esperimenti fino alla nascita del Nur. Quando nacque, nel 2006, qui in zona la tipologia era una novità assoluta. Ma, si sa, io ero quello strano. Quando nel 2010 la guida de L'Espresso lo premiò con l'eccellenza fu una cosa piuttosto straordinaria perché fino ad allora qui venivano considerati solo i Verdicchio classici, quelli moderni, color paglierino chiarissimo e verdolino. Figuriamoci un vino a maggioranza Trebbiano che si presentava color ambra! 

Oggi gli Orange Wines sono esplosi come moda planetaria. Se ne fanno in tutto il mondo e con tutti i vitigni. Il bel libro di Simon Woolf "Amber revolution" ha contribuito a far uscire dalla "nicchia" una tipologia che partendo dalla sua patria di elezione, la Georgia, aveva stimolato un ritorno alle origini in luoghi come il Carso e il Collio sloveno e italiano dove macerare a lungo le uve bianche sulle bucce era stata una tradizione consolidata.


Oggi, esattamente come all'epoca della barrique o dei vini rossi super concentrati degli anni novanta, gli Orange Wines sono diventati "the next big thing", tanto che oramai anche grandi aziende cominciano ad ampliare la gamma inserendo vini banchi macerati. Molto spesso ciò accade prescindendo dalla qualità intrinseca (esattamente com'era successo per certe spremute di legno di un tempo non lontano): prevale cioè il segno, il significante, l'immaginario. Sono i nostri tempi. In cui quasi mai il "valore" corrisponde al reale bisogno, al prezzo o alla qualità. Lo spiega molto bene questa lucida analisi sul concetto di valore dal sottotitolo "Forme dell'attuale da Marx ad Appadurai": "L’iperrealismo, o l’ipercapitalismo, non rappresentano altro in Baudrillard che il momento del superamento dell’analisi marxiana del capitalismo storico, nella misura in cui – nell’ultimo ordine di simulacro – ciò di cui ne va è dell’aggancio a ogni valore referenziale: sia esso il bisogno naturale, il bene o il valore d’uso... Ed è qui che la moda, compimento dell’economia politica, rivela l’ultimo stadio di evoluzione della merce, nella sua passione suicidaria per un passato sempre da resuscitare. La moda: l’assenza del bisogno naturale e la pura seduzione della combinatoria dei segni linguistici e monetari."

L'esplosione della moda degli Orange è l'ennesima dimostrazione di questa dinamica: puntare sullo stile produttivo e sull'immaginario, più che sul territorio. Ciò che conta diventa solo il colore! L'arancio, l'ambra. (Il segno). Perché in effetti, a parte quello, nel calderone dei macerati bianchi oggi c'è la qualunque. E a pensarci bene non potrebbe essere diversamente: chiedere un Orange, come sempre più sento fare, è esattamente come chiedere "dammi un rosso" oppure "dammi un rosato". 

E quindi di colpo nei Castelli di Jesi ci sono un sacco di macerati di uve Verdicchio. Naturali e soprattutto non. E va bene così, se non fosse che la sensazione netta sia quella, come sempre, che in questa regione si insegua sempre il mercato, si arrivi sempre "dopo" e in modo distorto. Finendo semplicemente col fare dei vini di cui non si sentiva la mancanza.

Di fronte a tutto questo si potrà pensare: qual è il problema? In teoria nessuno. E infatti anche 'sticazzi! se avessimo una critica e un mercato capaci di districarsi tra l'apparenza e la realtà, tra la verità e la finzione... Ma così non è. E dunque quando si parla di vini "Orange" si fa strada una gran confusione.

Innanzitutto - siccome i primi bianchi macerati erano dei vini naturali - oggi chi ordina un orange lo fa immaginando per forza di cose che stia ordinando un vino naturale. Ma la moda ha portato aziende che naturali non sono a produrre dei bianchi macerati lavorati da vigne convenzionali e con vinificazioni convenzionali. E poi, mentre nella prima fase era piuttosto chiaro cosa aspettarsi da un "arancione", oggi anche a livello gustativo le cose si sono mischiate parecchio: i tecnici che prima rifiutavano l'idea stessa di una macerazione in bianco ora hanno iniziato a "gestirla", riportando nei canoni un'idea produttiva che era nata come libera e selvaggia.

La speranza è che lentamente torni un po' di chiarezza e che, una volta passata la moda, ci restino vini piacevoli da bere e coerenti col proprio territorio: vini accomunati solo dal colore ma che siano in grado di esprimere la complessità dei suoli, dei climi, dei vitigni, delle fermentazioni spontanee, delle vinificazioni naturali. Insomma: dei grandi vini.

mercoledì 5 agosto 2020

Nuovi mondi e vecchie politiche

Faccio politica da quando mi ricordo.
Già 9 o 10 anni, nei prati del Parco Ravizza a Milano, quando si giocavano infinite partite a pallone, mi mettevo in mezzo ai litiganti - c'era sempre qualcuno che la voleva risolvere a botte - per tentare un approccio assembleare, democratico e pacifista ai problemi generati da un calcio di rigore o da una punizione. 
Negli anni della giovinezza ho attraversato la Milano da bere, la caduta del muro di Berlino, la prima guerra del golfo, Mani pulite, l'avvento di Berlusconi, la globalizzazione sempre con la convinzione che la Politica fosse una azione necessaria e in qualche modo anche sufficiente all'organizzazione della vita umana sulla Terra (e forse anche nello Spazio). Ho re-incontrato Valeria, per poi non lasciarla più, durante una campagna elettorale. Insieme abbiamo creato La Distesa che è in qualche modo un luogo estremamente intriso di Politica. Ci siamo candidati in varie elezioni, abbiamo frequentato circoli e sezioni, abbiamo discusso e litigato più o meno con tutto l'arco costituzionale dei partiti locali. Non abbiamo mai preso una tessera: io - figuriamoci - sono ancora l'anarchico che ero a diciassette anni, e Vale la comunista eretica espulsa dalla federazione dei giovani comunisti... Insomma un mezzo disastro...
La nostra generazione ha prodotto mostri come Matteo Renzi e Matteo Salvini.
Il che basterebbe a negare ai 40/50enni di oggi il diritto a fare Politica. 
La realtà è che si avvicinano le elezioni regionali nelle Marche - ma non solo - e molto semplicemente monta la totale disperazione sul "che fare?".
Siamo cresciuti con la narrazione del "meno-peggio", del "voto-utile", del "sennò-vince-tizio". Una storia figlia della fine delle ideologie e che ha radicalmente svuotato di contenuti ogni contenitore della ormai presunta sinistra, sia quella di lotta che quella di governo. Qualche volta si è votato, qualche volta no. Qualche volta più convintamente, qualche volta meno. Ma sempre con la certezza di essere minoranza di una minoranza, senza alcuna reale capacità di incisione sulla tela della storia. Piccola o grande che fosse.
Con gli amici dei centri sociali tante volte ci siamo amichevolmente scontrati sulla necessità - o meno - di un confronto istituzionale, di una "politica politicante" e non solo conflittuale, di una qualche forma organizzata di "rappresentanza". 
La sensazione sempre più netta, più cogente, più dolorosa, è che il quadro odierno (che sì! È anche figlio di COVID ma è soprattutto il frutto di una dinamica storica che viene da lontano) sia del tutto mutato. 
Ci troviamo di fronte a mondi totalmente nuovi e sconosciuti e la sensazione è quella di affrontarli, viverli, utilizzando strumenti vecchi e superati. 
Come se navigassimo in Internet oggi ma con la connessione di venti anni fa.
Come se affrontassimo un esercito perfettamente equipaggiato con archi e frecce.
Il dibattito internazionale sui Fondi Europei, il dibattito nazionale (ma anche globale) sull'immigrazione, la reazione internazionale alla Pandemia... Tutto appare ridicolo, fuori luogo, stonato.
Abbiamo istituzioni e regole pensate in un novecento che non esiste più. Che è stato semplicemente spazzato via. A partire dal feticcio "Stato-Nazione".
Ci troviamo a parlare di liste, listini e listarelle per una Regione che non ha ancora minimamente superato i problemi della crisi 2008/2012, che non ha saputo affrontare il terremoto, che ha fatto fallire attività produttive e aeroporti, che ha tagliato la sanità in lungo e in largo salvo poi chiedere fondi per aprire un ospedale COVID da dodici milioni di euro rimasto vuoto, che non ha alcun tipo di visione per il futuro che non sia la Sagra del Prodotto Tipico di 'staminchia.
Sono oramai trent'anni che la politica non è altro che l'affannato tentativo di gestire vecchi centri di potere - di destra e di sinistra - nel tentativo di mantenere un instabile consenso elettorale. Un consenso il cui unico fine è la gestione delle infinite emergenze cui gli amministratori di ogni livello sono tenuti a rispondere. La questione della "casta" si è risolta semplicemente nel tentativo di sostituzione di ceti politici ed il populismo altro non è se non il cavallo di Troia di chi vuole affrontare il tema della globalizzazione attraverso la costruzione di nuovi rifugi indentitari. Ci siamo già passati e non è finita bene.          
Per questo ci sembra assurdo parlare di candidature, alleanze, accordi, dialoghi col territorio, e tutto l'armamentario di una retorica politichese fuori tempo massimo. Ci sono dinamiche là fuori che stanno sgretolando il nostro vecchio mondo e l'unica risposta sensata sarebbe quella di una rinnovata carica utopista. Perché quando la distanza tra istituzioni e mondo reale si fa incolmabile, quello è il momento che precede le rivoluzioni.

lunedì 6 aprile 2020

The past is finished, the future is unknown


Io non riesco ad odiarlo questo Virus.
Dopo un mese di quarantena questo è l'unico pensiero che mi viene.
Sarà che la nostra è una quarantena dorata, privilegiata. Come agricoltori abbiamo spazi e possibilità che altri si possono solo sognare in questo momento.
Eppure non credo sia questo il punto.
Non riesco a odiare questo virus perché non è un "nemico" e perché non siamo in "guerra". Certo, lo dobbiamo isolare, ne dobbiamo mitigare gli effetti, lo dovremo mettere in un angolo e "sconfiggere" come l'umanità ha fatto con altri patogeni, alcuni ben più gravi, altri meno. Ma il fatto è che si tratta di una forma di vita terrestre e naturale che, in quanto tale, ci mette di fronte a quel che siamo come umanità, come specie, come abitanti della Terra. Non è una guerra. Si chiama evoluzione. Ogni forma di vita compete per trovare il suo posto in questo meraviglioso pianeta. Nel fare questo evolve, muta, trova soluzioni e antidoti. Quel che abbiamo chiamato Scienza non è un'arma in una guerra. È una risposta. Che la nostra intelligenza di specie ha elaborato per consentirci di adattarci e di evolvere come comunità sociale.
Avremmo potuto, ad esempio, lasciar perdere e far sì che la pandemia seguisse il suo corso.
Sappiamo che il virus per una vastissima parte della popolazione produce effetti "leggeri", alcuni di noi sono addirittura "asintomatici". Eppure abbiamo bloccato le nostre economie e cambiato i nostri stili di vita in tutto il mondo per affrontare il virus. Miliardi di persone sono in quarantena.
Perché?
Molto semplicemente perché la gran parte degli esseri umani, una netta maggioranza, ritiene che la nostra umanità consista proprio nel non abbandonare i più deboli: gli anziani, i malati, i disabili, gli immuno-depressi e così via. Si tratta, in definitiva, di una scelta morale. Che ci definisce in quanto uomini indipendentemente da qualsiasi appartenenza identitaria: etnica, nazionale o religiosa.
In questa scelta siamo cioè tutti meticci e a-polidi. Sarà forse per questo che i più titubanti, i più restii alla quarantena - va sottolineato e andrà ricordato ai posteri! - sono stati i rappresentanti di una certa destra populista reazionaria e anti-umanista (i Bolsonaro, i Johnson, i Trump...) oltre ai rappresentanti di certi potentati industriali.
Dunque non posso odiare un patogeno che per la prima volta da decenni ci costringe ad ammettere che siamo ancora "uomini" e che l'economia è solo un mezzo, uno strumento, e non il fine ultimo della nostra azione, del nostro senso in quanto abitanti del Pianeta Terra.
La realtà è che gli esseri umani erano abituati fino a poco tempo fa a convivere con emergenze come questa. Si moriva presto. Si viveva male. La grande maggioranza degli esseri umani viveva in luoghi malsani, con poche risorse e nessuna comodità. Quel che chiamiamo "benessere" è una conquista recentissima se pensiamo ai tempi della Storia e, peraltro, ancora oggi una conquista diffusa in modo largamente diseguale.
Quel che abbiamo raggiunto lo dobbiamo a un mix esplosivo di conoscenza scientifica, organizzazione sociale e potenza economica. La globalizzazione degli ultimi decenni ha portato al dominio incontrastato della nostra specie sul pianeta. In qualche modo è stato l'apice della nostra evoluzione. Ci siamo sentiti invincibili.
Nel giro di un solo mese è cambiato tutto. Un microscopico essere sta rivelando, invece, tutte le nostre fragilità. Gli scenari che la questione del "cambiamento climatico" ci stava prospettando come imminenti - ma spalmati su un orizzonte di qualche decennio - si sono manifestati all'istante con una potenza di fuoco deflagrante.
Sono muto e incapace di riflessioni coerenti da settimane.
Quando ho finito il tour di presentazione di "Come vignaioli alla fine dell'estate" proprio in quel momento esplodevano i primi casi in Lombardia e Veneto. In pratica quel libro, che parla di estinzione di massa, decrescita e natura ibrida, è stato di colpo attualizzato da una realtà che è esplosa a velocità folle.
Ecco, io non lo so se andrà tutto bene.
Leggo decine di articoli su come sarà il mondo dopo il Coronavirus. Su come sarà l'economia, su come cambierà la politica, su come muteranno le nostre abitudini. E vedo un sacco di interventi sul "nostro" mondo, quello dell'enogastronomia e dell'agricoltura. Ristoranti che non riapriranno, distributori e importatori che falliranno, aziende vinicole che faranno fatica a stare in piedi.
Leggo, ascolto, rifletto. Ma resto muto.
Il mondo di prima è finito, dicono. Ma come sarà quello futuro nessuno può saperlo con certezza. E forse è proprio in questo assurdo e dilatato presente che può celarsi una strada: nei momenti di svolta le nostre scelte valgono doppio. Quel mondo che avevamo in mente e che ci sembrava impossibile, divorato dal Pensiero Unico, diventa una possibilità concreta e non solo utopistica.
Qualche volta penso che La Distesa potrebbe anche non esistere più, perlomeno nella sua forma attuale. Poi, subito dopo, penso: e chissenefrega. Se siamo custodi di un pezzo di t/Terra questo prescinde dall'essere una "azienda". Le nostre scelte del passato non sono state fatte in chiave economica. Ci adatteremo. Resistenza Naturale significa innanzitutto adattamento. Cambiare per continuare a fare parte della rete della vita, dell'ecosistema.
Non sappiamo ancora come farlo ma potrebbe anche rivelarsi un nuovo inizio.
E quindi Peace Love, Soul. And resistance!

lunedì 27 gennaio 2020

Cupramontana, di nuovo capitale

Uno dei regali più belli per il ventesimo anniversario de La Distesa è certamente quel che sta succedendo a Cupra.
Entrando in paese in automobile da sempre si viene accolti da un cartello che recita "Benvenuti a Cupramontana, capitale del Verdicchio". Il riferimento è a una dicitura "ufficiale" risalente al 1939 che - ben prima dell'avvento della DOC - formalizzava la centralità del Comune nel contesto della produzione vitivinicola marchigiana.
Qui d'altronde ebbe sede una delle cattedre ambulanti di enologia (fine ottocento), qui nacque la famosa Fazi-Battaglia, qui venne istituita una delle più storiche cooperative vinicole (la Colonnara).
Negli anni sessanta si contavano una trentina di imbottigliatori (le cantina Aurora di mio nonno era fra queste).
Poi cominciò la crisi. Complici la fine della mezzadria, e la conseguente emigrazione, e una qualità media dei vini decisamente in caduta libera.
Quando nel 2000 cominciammo a imbottigliare come La Distesa in paese erano rimasti solo la cantina sociale, l'azienda Bonci e un paio di piccole realtà principalmente legate al commercio di vino sfuso.
C'era un solo produttore bio, ovviamente bistrattato da tutti, che imbottigliava pochissime bottiglie.
Dopo venti anni il panorama è completamente cambiato. Tanto che la guida "L'Italia di vino in vino" edita da AltraEconomia a firma di Luca Martinelli, Sonia Ricci e Diletta Sereni (con la prefazione di Armando Castagno) dedica a Cupra un intero capitolo. È una scelta rilevante dato che gli altri capitoli sono dedicati a interi distretti vinicoli (le Langhe, il Collio, l'Etna, la Valpolicella, ecc.) e a realtà ben più conosciute ed estese (il Carso, il Chianti senese, ecc.)


Quello che è stato colto è probabilmente la vitalità di una scena che negli ultimi anni è letteralmente esplosa. "La piccola comunità di vignaioli artigiani-naturali" recita il sottotitolo. Ed è così. Capita spesso, quando giro per fiere o chiacchiero con colleghi, che mi venga chiesto: "ma cosa succede a Cupra?" con un misto di ammirazione e stupore, soprattutto considerando il resto dei Castelli di Jesi o Matelica.
Oggi le cantine che imbottigliano a Cupra hanno abbondantemente superato la decina ma, soprattutto, va notato come le nuove realtà operino quasi tutte in regime biologico e/o in naturale. 
A fianco a noi c'è l'oramai storica Marca di San Michele con i suoi vini sempre di altissimo profilo; sempre a San Michele da qualche anno si è affermata Ca'Liptra che arricchisce il catalogo supernatural di Les Caves de Pyrene; non lontano la brava Giulia Fiorentini, i cui vini sono da poco entrati nel catalogo di Velier/Triple A. Senza dimenticare che, nel comune di Staffolo ma sul lato che guarda Cupra, e in linea d'aria davvero vicinissimi, ci sono aziende di grande valore di ispirazione naturale come La Staffa di Riccardo Baldi o biologiche come Antonio Failoni.
Ma è tutto il territorio a muoversi in questa direzione se si considerano anche i conferitori di uve: realtà di altissimo spessore come Pievalta (che ha appena impiantato vigne a cupra, lato monte Follonica) o Andrea Felici acquistano uva bio in contrada San Michele; la stessa Colonnara ha molti soci in regime biologico e da poco una linea bio. 
Nuovissime realtà artigiane e bio con vigneti a Cupra hanno iniziato da pochissimo: Colle Jano, Oppeddentro, mentre a breve sarà possibile assaggiare la prima annata di una nuovissima azienda completamente naturale con vecchie vigne nella zona di Manciano.
Inutile dire che tutto ciò ci riempie di gioia e anche - un pochino - di orgoglio per un effetto "trascinamento" che certamente abbiamo contribuito a scatenare. Così come è molto probabile che il lavoro di zonazione delle vigne cuprensi assieme all'apertura del complesso dei Musei In Grotta e agli annuali laboratori de Il Grande Verdicchio siano state iniziative importanti per il rilancio di questo territorio.
Se a questo si aggiungono un attivissimo Gruppo di Acquisto Solidale ed il progetto della Fornace del Gusto, gli spazi comunali a disposizione degli agricoltori per la trasformazione e il confezionamento a norma di prodotti locali, si capisce quanto questo paese sia in realtà cambiato a dispetto delle apparenze.     
Insomma, Cupramontana è di nuovo Capitale. Se non del Verdicchio perlomeno di una bella e sostenibile economia locale.

giovedì 10 ottobre 2019

Di catastrofi e civiltà decadute

Dall'introduzione di "Come vignaioli alla fine dell'estate" di Corrado Dottori
Ed. DeriveApprodi. Collana Habitus.

"...Siamo in mezzo alle rovine di Micene, in mezzo a grandi blocchi di pietra che testimoniano di una grande civiltà in frantumi. Ecco, proprio lì, in mezzo ad alcune pietre di una antica dimora devastata, cresce una vite. Una vite selvatica. Che prova a farsi strada e a sopravvivere là dove non c’è più nulla.
La vite. Pianta resiliente, testarda e ribelle. Unica forma di vita in mezzo al vuoto.
È un’immagine che mi fa riflettere sul movimento dei vignaioli naturali. Su quanto sia al centro del grande cortocircuito fra natura e cultura e su quanto poco stia facendo per prendere davvero posizione di fronte alla catastrofe ecologica.
La crisi ambientale che stiamo vivendo è in gran parte una crisi della Politica.
Nel 1975 Wallace Broecker pubblicava su «Science» un articolo dal titolo emblematico: Climatic Change: Are we on the Brink of a Pronounced Global Warming? L’insostenibilità del nostro modello di sviluppo è cioè cosa nota da sessant’anni almeno, eppure non è mai stata davvero al centro delle campagne elettorali o dei programmi politici di nessun grande partito politico di massa.
  Nella riedizione di Tempi storici Tempi biologici, nel 2005, Enzo Tiezzi affermava «con un misto di imbarazzo e di orgoglio che le previsioni di vent’anni fa si sono dimostrate fondate e scientificamente corrette». Nulla si crea e nulla si distrugge, la legge della termodinamica non fa sconti a nessuno: il ciclo del Carbonio sta alla base dell’aumento fuori controllo delle temperature del pianeta. I politici lo sanno da tempo. Ma nessuno ha mai davvero agito..."


In vendita nelle librerie, on-line e presso la casa editrice.

lunedì 23 settembre 2019

Chasin' wild horses - Buon compleanno, Bruce.

Scendemmo e, una volta usciti, raggiungemmo l'abbeveratoio dei cavalli. Mio padre si lavò il sangue e si strofinò la faccia, poi risalimmo sul furgone. Si mise al volante e si diresse in centro a Holt, a un negozio di liquori che si chiamava Payday, dove comprò una bottiglia di whiskey e qualche birra. Le mise in un sacchetto di carta. Poi tornammo in campagna e fermò il furgone in cima a una collinetta sabbiosa in un pascolo. (Kent Haruf - Vincoli)

Affittai una camera in un albergo a breve distanza dalla strada dei locali notturni. Per due dollari mi rifilarono una stanza a piano terra con vista sull'oceano, un letto con un materasso sottile, un lavandino e la chiave del cesso sul corridoio. Misi i miei ricambi nel cassettone e, uscendo, mi strappai due capelli dalla testa. (James Ellroy - Dalia Nera)

A ovest, per tutta la notte, lampi ramificati scaturiti dal nulla tremarono dietro i cumulonembi di mezzanotte, illuminando a giorno il deserto lontano di una luce bluastra, e contro l'orizzonte balenante le montagne si stagliavano dure e nere e livide, distanti e aliene come terre la cui vera geologia non era la pietra ma la paura. (Meridiano di sangue - Cormac McCarthy)

Al lavoro era dura. Di pomeriggio svaniva la nebbia e il sole picchiava. I raggi si spostavano dall'azzurro della baia verso quella specie di vassoio formato dalle colline di Palos Verdes, ed era come una fornace. Nel conservificio era peggio. Non c'era aria fresca, neanche quanto bastava a riempire una sola narice. (La strada per Los Angeles - John Fante)

Per capire Western Stars bisogna partire da qui.
E forse da un pugno di film. Crazy Heart, con uno straordinario Jeff Bridges nei panni di un musicista country in declino; I Cowboys con un vecchio John Wayne e le musiche di John Williams; Il Lungo addio di Robert Altman (sempre con le musiche di John Williams); The Wrestler con Mickey Rourke (e la bellissima omonima canzone dello stesso Springsteen); Verso il sole ovvero l'ultimo film di Michal Cimino.
Cose diversissime fra loro ma accomunate dal senso della fine, da personaggi che vivono sul limitare dell'ultimo giro di giostra.
Springsteen ha fatto il suo disco più bello degli ultimi vent'anni. Un disco molto diverso da quel che aspettavamo. Un disco che nasce dentro alle pieghe più nascoste e oscure della sua autobiografia e come coerente prosecuzione dell'incredibile spettacolo teatrale di Broadway.
Western Stars è al tempo stesso la cosa più vicina a Nebraska e la più lontana. Dove la musica di Nebraska era scarna e poco prodotta in Western Stars ci sono arrangiamenti e orchestrazioni ricchissimi, una produzione magnifica e a volte lussuriosa. Il disco del 1982 andava alle radici del folk tradizionale americano, anche se in fondo era permeato di una patina proto-punk e new wave (si pensi ai Suicide). Western Stars è invece un disco in cui la matrice folk vira verso un certo pop cantautorale, verso la California delle grandi colonne sonore hollywoodiane più che della psichedelia.
Eppure questa scelta si rivela, lentamente, ascolto dopo ascolto, come coerente alle storie raccontate. Perché qui le stelle dell'ovest sono sì quelle del deserto ma anche le stelle che non ce l'hanno fatta, attori di serie B, cantanti dimenticati, anti-eroi che hanno perso pure l'ultimo treno. Ma sia chiaro: bollare i personaggi dell'ultimo Springsteen come i "soliti" perdenti di Darkness o di The River non ci aiuta a capire che qui siamo oltre.  
Western Stars è infatti un disco che parla di vecchiaia e di depressione, di una quotidianità molto lontana dagli omicidi di Charles Starkweather o dalle pistole di Johnny99.
È un disco di una verità e di una urgenza dolorose: Bruce ha 70 anni, non c'è più traccia in lui dell'icona pop degli anni ottanta, ma nemmeno del workin' class hero dei settanta. Con Western Stars siamo tornati a Tunnel of love, per certi versi, non a caso un altro disco meraviglioso ma fortemente incompreso: ci sono i dubbi, le incertezze, le ombre di un uomo solo in un momento di svolta. Là era un amore finito, qui è che siamo proprio al tramonto.
Tornerà la E-street, torneranno gli stadi, tornerà il dovere di portare in giro ancora una volta la fiaccola del rock'n'roll: sempre più pesante e sempre meno lucente. Ma il viaggio del Bruce scrittore di canzoni ha senso invece oggi fra le strade desertiche di Western Stars, mentre si perde lungo questi binari, quando se non è il capolinea poco ci manca.
Non è un caso, non può esserlo, che il disco sia cantato da dio. Non ha forse mai cantato così bene Bruce Springsteen, e questo ha semplicemente dell'incredibile.
I woke up this morning è un verso che ritorna spesso nel disco, ma sbaglia chi lo associa ad uno stanco cliché blues, ad un'assenza di idee: alzarsi dal letto è un impresa titanica per chi soffre di depressione, e di questo si sta parlando; chi ha letto la sua potente autobiografia sa quale sia il demone che accompagna la vita di Springsteen.
Bruce è invecchiato e non lo nasconde più, anzi ce lo sbatte in faccia. Siamo invecchiati anche noi con lui. Le storie, bellissime e cinematografiche, raccontate in questo disco ci ricordano - ancora una volta! - a che punto siamo della strada, dove sono arrivati Wild Billy, Mary, Terry, e noi con loro. Con una coerenza ed una verità disarmanti queste storie, che sarebbero da far studiare ai tanti finti songwriters di oggi, ci ricordano che là dove un tempo c'erano auto in corsa verso la libertà oggi ci sono pillole e whiskey nascosti dentro sacchetti di carta.
C'è un altro libro che Western Stars mi ha ricordato, un altro libro che parla di deserti e persone sole che lottano contro demoni interiori o ricordi del passato. Si chiama Lullaby Road di James Anderson. È la storia del camionista Ben Jones che fa il postino privato lungo la statale 117 in mezzo a chilometri e chilometri di deserto nello Utah. A Ben Jones succedono cose, finisce col ritrovarsi per caso dentro a una brutta brutta storia. Ma nella quotidianità del fare il proprio lavoro al meglio, nel fronteggiare con dignità un destino che ha sempre qualcosa di inesorabile, Ben Jones troverà la forza per andare avanti, proprio come gli eroi blue collar del boss, proprio come le ex-stelle di un west che non esiste più. Un'altra piccola pagina del grande romanzo americano.

Tutti hanno una buona stella. Anche se continuavo a ripetermi quanto fossi sveglio ed esperto per guidare nel deserto, sapevo che era solo la fortuna a fare la differenza.
A un cero punto, durante la notte, la strada si era confusa con il deserto proprio come sapevo che sarebbe successo. È opinione comune che in caso di guida a visibilità zero il conducente debba stare  
nella scia del veicolo di fronte a lui, o seguirne i fanali, se riesce a vederli. Sulla 117 era raro avere qualcuno da seguire, e comunque non ero uno a cui piaceva star dietro agli altri. Un paio di volte, in passato, al valico di Soldier Pass, una fila di veicoli aveva seguito il capogruppo fino a cadere da uno strapiombo. Se dovevo finire in un burrone, non avevo certo bisogno di qualcuno che mi indicasse la strada. Preferivo essere stupido da solo. Si fa prima.
(Lullaby Road - James Anderson)