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lunedì 19 febbraio 2018

La Musica Vuota on tour

Qualche presentazione del mio romanzo è in cantiere.
Macerata, Ancona e Bologna con format differenziati e in luoghi del cuore.


Nel frattempo grazie a "LaFeltrinelli" per la bella sinossi/recensione.

"Edoardo Alessi è un broker o “private banker”, come recita la targhetta nel suo ufficio, diviso tra carriera e affetti (la compagna Raffaella e l’amante Maria). Una passione sfrenata per la musica – ascoltata e suonata – ormai messa da parte da una carriera nel settore finanziario, il rifiuto della sua provenienza contadina, la vita vuota milanese, domande che a tratti lo attanagliano del tipo “Chi sei diventato?”. Se lo chiede spesso e non sa darsi risposta. Forse la può trovare tra gli appunti, i ritagli di giornale e gli scritti di una vita, suoi e del padre, che di tanto in tanto rilegge e che sono dispersi per tutto il romanzo. Una digressione continua (o forse, meglio, un flusso di coscienza), alternando ricordi e presente, tra viaggi per lavoro – anche in California e Messico – sempre a cavallo e in bilico tra la presenza di Maria e Raffaella, l’amico Ceska e, nel finale, lo zio di Edoardo. Corrado Dottori, qui alla sua prima prova narrativa, ci racconta una storia di vita, come tante, ma sicuramente con il pregio, e non è poco, di evitare facili rassicurazioni e autoindulgenze, in una ricerca di senso che tenta, questo sì, di evitare, o magari soltanto dimenticare, che a un certo punto (di non ritorno), se non si accettano compromessi, la nostra “musica” diventa vuota, quasi sempre. (forse)".


domenica 3 febbraio 2013

Confusione

Avete presente quando i pezzi di un puzzle proprio non ne vogliono sapere di assumere una forma coerente? Quando fra tutte le teorie ed i modelli matematici possibili la sola a prevalere è la teoria del caos con i suoi infiniti e psichedelici frattali?
Ecco quella è la mia vita oggi. Trascinata dalle correnti. Con il tempo che corre veloce, vu vu vum, effetto velocità... Tra imbottigliamenti e potature, fiere e mercati, giunte e riunioni, varicelle e compleanni, presentazioni e cene, degustazioni e compiti a casa, assessori ed etichette, raffreddori ed analisi, recensioni e barbatelle. Tutto frullato e mischiato. Agitato non mescolato. Con il consueto seguito di sensi di colpa vari: cattivo marito, padre assente, azienda trascurata, libro inutile e politica che tanto non cambia mai. Come se tutti i salti mortali fossero del tutto ininfluenti. Come se l'unica cosa che avresti davvero voglia di fare fosse saltare su un treno merci e girare senza meta per il mondo.

martedì 15 novembre 2011

American psycho

E dopo il sogno l'incubo. Una città tentacolare, gigantesca, mostruosa, affascinante. Dove c'è sempre il sole ma non c'è un pannello solare. Dove l'acqua per dieci milioni di abitanti viene pompata dal fiume Colorado, perché di acqua nel sud del California non ce n'è. Dove la lingua più parlata è il messicano ma se un messicano prova a passare il confine gli tirano un colpo in testa e lo gettano in una fossa nel deserto. Dove se sei clandestino ti rispediscono in Messico e i tuoi figli restano a Los Angeles. In affido. E così ci sono cinquemila bimbi messicani che non rivedranno mai i genitori. Dove ci sono luoghi, come l'assurda, folle Beverly Hills, che rappresentano in modo plastico e definitivo l'1% che sta mandando a gambe all'aria il mondo. Veri e propri castelli circondati da statue e fontane, proprietà di sconosciuti principi del Dubai o superdivi di una Hollywood che non c'è più. Sì, perché Hollywood è in realtà un luogo che si chiama Burbank, dove poche grandi corporations gestiscono a pochi metri una dall'altra la più grande fabbrica di cultura mainstream del pianeta.


Così ti aggiri per queste strade infinite, tutte uguali, dove ordinatissimi sobborghi rincorrono quartieri più poveri abitati dai latinos, che diventano senza soluzione di continuità cittadine elegantissime, fatte di giardini perfette, palme e ville milionarie, e ti accorgi che l'unico senso qui è davvero il "fare i soldi", come Julian Kaye nella L.A. di American Gigolò. Il più velocemente possibile. In faccia alle centinaia, migliaia di homeless che si aggirano per le strade, ovunque ma soprattutto sulla sesta strada, proprio dietro ai grattacieli di Downtown. Trascinando carrelli con dentro vestiti e cartoni per ripararsi, quando scende la sera. Mai visto niente di simile.
E c'è sempre il sole, non è mai inverno, ma c'è nell'aria una sensazione strana, a volte angosciante, un Sunset Boulevard dei sogni plastificati: il lungo addio di Chandler, e poi Chiedi alla polvere di Fante, Black Dahlia di Ellroy. Ecco, a leggere questi libri forse capisci qualcosa di questa città, di questa terra. E forse hanno ragione, o forse no, proprio loro che si accampano reclamando un mondo diverso, una nuova frontiera, terrà e libertà. E che a breve verranno spazzati via.

venerdì 11 novembre 2011

California Repubblic

Tutto inizia con una bottiglia di Barolo Conterno Cascina Francia 2005. Forse perché Flori e Jim che mi ospitano sono dei pasdaran del nebbiolo?
E poi scoprire che la religione più diffusa in California è il Surf. Anche se poi la super sfida dell'anno, tipo finale di Champions League, la vince un ragazzino brasiliano. Che è come dire che gli USA vincono la Coppa del Mondo di calcio... Girare per enoteche, wine bar e ristoranti e trovare ovunque musica jazz ed il vino di Arianna Occhipinti. Scoprire che si elegge il Sindaco di San Francisco e ci sono seggi elettorali nei garage di private abitazioni. Mangiare la pizza più buona del mondo nella pizzeria di un tipo che pare una rock star.


Demolire i vini di Mondavi in una degustazione comparata. Imparare che la City Lights non è una libreria ma una comunità, e quanto cazzo è bello ascoltare Jimi Hendrix nella Monterey Bay sull'Oceano Pacifico. E le tende di Occupy Santa Cruz, un sacco di gente che adora il Verdicchio, il Golden Gate Bridge senza i mostri né gli alieni.
Scoprire che la bandiera della California celebra una repubblica nata da una rivoluzione del 1846 e che vi sono disegnati una stella rossa ed un orso grizzly.

martedì 1 marzo 2011

L'ex prima industria del sistema Italia

Fra i tanti problemi che ha questo nostro paese, intesa come comunità nazionale che il prossimo 17 marzo festeggerà un'importante quanto controversa ricorrenza, c'è l'ormai totale discrepanza fra le parole ed i fatti. Viviamo, cioé, in una realtà parallela dove tutti possono dire la loro senza alcun riscontro statistico o fattuale che possa confermare o meno certe affermazioni. E' il frutto di una società da un lato troppo e male mediatizzata (nel senso che i media - tutti, senza esclusione - invece di fotografare la realtà la manipolano); dall'altro di una caratteristica tutta italiana che è riassumibile nella frase: "...tanto poi tutto s'aggiusta...". Anche i numeri.
Questa banale premessa per parlare di turismo. Chi - in piccolo o in grande - ha avuto a che fare con il settore turistico nel nostro paese sa bene che gli ultimi anni non sono stati facili. C'è una crisi generalizzata nel settore che coinvolge tutti: alberghi, bed&breakfast, agriturismi, resort, campeggi. A parte il fatto che il sistema-Italia è arretrato pesantemente nel mondo, tanto da non essere più il nostro paese una meta fra le più ambite dai turisti, c'è un enorme problema legato al turismo interno: gli italiani viaggiano meno in generale ma se viaggiano scelgono sempre meno il proprio paese.
Eppure alla recente fiera BIT di Milano si sono come sempre suonate le campane a festa. E' una situazione che ricorda un pò il settore del vino, dove da diverso tempo si nega la crisi ed anzi si gioisce per l'aumento dell'export. Dimenticando che nel 1970 la media del consumo di vino in Italia era di 114 litri pro-capite mentre oggi è 40 litri pro-capite.
Questa scelta di privilegiare nelle politiche pubbliche il mercato estero, che è solo in minima parte legata alla globalizzazione, accomuna sia il settore vinicolo che quello turistico, col risultato di finire proprio nella tana del lupo, ovvero dentro ai mercati più competitivi e difficili.
Ecco, per farla breve consiglio l'articolo "turismo senza sorrisi" sul portale lavoce.info, dove è possibile trovare qualche numero e pure una equlibrata analisi.

venerdì 28 gennaio 2011

Nuovo tour

5-6 Febbraio, Roma.
Vini Naturali a Roma. Terza edizione del bellissimo evento organizzato da Tiziana Gallo nelle eleganti sale dell'Hotel Columbus in Via della Conciliazione. www.vininaturaliaroma.com
10 Febbraio, Treia (Mc).
Degustazione c/o Casolare dei segreti. Degustazione e cena in compagnia di due altri bravissimi produttori, Nino Barraco e Nicoletta Bocca. www.casolaredeisegreti.it
16 Febbraio, Perugia.
Verticale de Gli Eremi. Annate storiche non più in commercio. Degustazione c/o Ristorante Stella.
5-6 Marzo, Agazzano (Pc).
Sorgente del vino live. Castello di Agazzano. Terza edizione del bellissimo mercato dei vignaioli organizzato da Sorgente del Vino. www.sorgentedelvinolive.org
27-29 Marzo, Dusseldorf (DE). 
Prowein. Un pò di globalizzazione non guasta. E poi, alla sera, una buona birra ed uno stinco come si deve sono d'obbligo.
7-9 Aprile, Cerea (Vr). Vino, vino, vino.
Vini secondo natura. Con il Consorzio vini veri per comunicare l'atto agricolo come atto culturale, a pochi passi da Vinitaly. www.viniveri.net

Non garantisco lo stage diving ma vi aspetto numerosi!

venerdì 2 aprile 2010

Agriturismo nelle Marche? Sì grazie...

Se state progettando un week-end fuori porta o una vacanza estiva in una regione ancora poco conosciuta, ed ai margini del gran turismo di massa, la Regione Marche è ciò che far per voi. E se venite nelle Marche mi pare una scelta obbligata soggiornare a La Distesa.
Siamo infatti nel cuore delle Marche, a un'ora e mezzo d'auto sia da Urbino che da Ascoli, i due gioielli urbanistici della regione; a dieci minuti dalle Grotte di Frasassi, le più belle d'Italia e dal Parco della Gola della Rossa dove è possibile passeggiare ed arrampicare; e poi Gubbio e Assisi, le spiagge di Senigallia e Portonovo, le rocche ed i Castelli di Jesi, gli eremi e le abbazie sparse nel territorio; per non parlare del Verdicchio e dell'ottima offerta eno-gastronomica.


La struttura offre diverse soluzioni per il soggiorno: gli appartamenti Sant'Urbano, Sant'Elena e La Romita, ampi e confortevoli, completi di bagno e cucina ed in grado di accogliere 3/4 persone ciascuno; l'appartamento Esinante, dalla caratteristica architettura rurale marchigiana, in grado di ospitare 4/5 persone, suddiviso in due camere da letto, bagno, cucina e soggiorno con grande camino colonico.
Le strutture de La Distesa comprendono una sala comune per letture e svago completa di TV satellitare, una sala degustazioni dove consumare le colazioni e, nei fine settimana, merende, aperitivi o cene a base di prodotti del territorio. Una piscina privata, ad uso esclusivo dei clienti, completa l'ospitalità agrituristica de La Distesa.
Su richiesta organizziamo tour enologici e corsi sul Verdicchio e sul vino in generale. Che volete di più?
Sul sito www.ladistesa.it trovate prezzi ed altre informazioni. 

lunedì 4 gennaio 2010

Sancerre e Pouilly Fumé - Parte terza

Eravamo rimasti al Silex di Dagueneau. Si riparte girovagando per vigneti. Il colpo d'occhio è molto bello, specie coi colori d'autunno. Anche qui, come in gran parte della Francia, le zone vinicole con denominazioni importanti sono sfruttate in modo intensivo e totalizzante. E' certamente questo il limite principale del modello viticolo francese.

 

Modello intensivo fatto anche di chimica invasiva e vigneti meccanizzati. Sarà per questo che proprio in Francia il movimento "naturale", per antitesi, per ribellione, è più avanti che altrove?
Eccoci dunque visitare una azienda biodinamica di Sancerre, Domaine Vacheron. Il Sancerre 2008 è pulitissimo, netto. Ha un'impostazione che rende questo Sauvignon più vicino all'idea che abbiamo in Italia: molta aromaticità, con agrumi, asparago, anice al naso, ed una acidità sempre tagliente ma decisamente di più facile approccio. Molto piacevole. Diverso il Sancerre Les Romains 2007 dove ritroviamo l'impostazione più classica della denominazione con tanta mineralità, salinità diffusa, sentori di buccia di mela. Chiude, però, irrisolto con un finale di pesca sciroppata. Convincenti i rossi di questa azienda: il Sancerre rouge 2007 si presenta subito molto più interessante degli altri Pinot nero assaggiati in zona, con sentori nitidi di noce moscata, crostata di ciliegie, tabacco da pipa, frutti rossi, pepe; all'assaggio è verticale, nervoso, giovanile. Il fratello maggiore, Sancerre rouge Belle dame 2006, un vino più borgognone, fatte tutte le distinzioni del caso. Prugna, marmellata di amarena, noce moscata, frutti rossi, tracce di evoluzione ed un tannino più levigato ne segnano la beva. Un'azienda che, impressione mia del tutto intuitiva, pare a metà del guado fra la scelta biodinamica in vigna e vinificazioni molto "tecniche" in cantina.
Altra azienda gestita secondo criteri biodinamici è La Moussiere di Alphonse Mellot, altro "colosso" della vitivinicultura locale. Chiusa la cantina, ci accontentiamo di una colossale degustazione mattutina nel vicino negozio. Il Sancerre 2008 è un pò bananoso. Esile, molto dritto. Il Sancerre Les Romains 2007 esplode al naso con sentori finissimi di pera e lampi lievemente sciroppati, è elegantissimo, asciutto, salmastro con una chiusura marina ed un malico che fa salivare e "sanguinare". Il 2008 è un bimbo, verdastro al naso con sentori di crauti, sedano e, ancora!, pesca sciroppata; sale, sale, sale in bocca e chiusura tostata. I vini di questa azienda ci lasciano stupefatti, i profumi sono nitidi, scintillanti, stranissimi, al palato sono vibranti, di una freschezza surgiva, estrema, petrosa. La demoiselle 2008 sa di lavanda, di sapone, di fiori essiccati; è molto giovane, acidissimo, scarno. Generation 2008, che già conoscevo, è molto complesso, sa di erbe medicinali, di cavolo, di mare (acciuga, salamoia), mentre in bocca ha una acidità mostruosa, urticante, ma esce lunghissimo con un finale tostato elegantissimo. Sono vini paradigma di questa zona, all'ennesima potenza, in qualche modo estremi ed estremisti, anche nelle tecniche di cantina, immagino. Il manico si sente. Nel Satellite 2008 torna la pera, accanto alla lavanda, a fiori quasi balsamici, alla viola, a petali di rosa: finissimo, elegante, una gran dama da sera. Ci guardiamo e non crediamo ai nostri nasi, forse ci siamo drogati. Edmond 2007 è mielato, più evoluto, tostato. Molto complesso, andrebbe lasciato respirare nel bicchiere ma già siamo al Pouilly Fumé 2008 che si presenta con sentori di lampone (lampone!) o fragolina di bosco, poi affumicato, classico, petroso, verticalissimo in bocca che pare una falesia di calcare. Necessitiamo di un dentista per le nostre gengive ed i nostri denti... Ed ancora non è finita.


martedì 8 dicembre 2009

Sancerre e Pouilly Fumé - Parte seconda

La variabilità dei vini di Sancerre e Pouilly, poiché il Sauvignon è l'unico vitigno utilizzato, deriva in gran parte dal terroir. E' quello che succede anche a Chablis con lo Chardonnay. A differenza che a Chablis, però, dove si ha la netta preponderanza di suoli argillo-calcarei soprannominati "kimmeridge", che si alternano ad argille più sciolte, in questa parte della Loira la grossa differenza fra i vigneti viene dalla presenza o meno del suolo chiamato "Silex", traducibile in italiano col termine "selce" ovvero roccia sedimentaria composta principalmente da silice. 
Oramai quasi tutti i migliori produttori tendono a vinificare le uve di vigneti piantati su
suoli "silex" separatamente. E' da queste vigne in particolare che si estraggono i sentori più classici del Pouilly Fumé: la selce, infatti, è proprio la pietra focaia, utilizzata sin dalla preistoria per accendere fuochi. Anche a Sancerre è presente tale suolo, ma in percentuale molto minore: di qui la prima grande differenza fra queste due aree davvero vicine. A Sancere prevalgono vini più fruttati ed "immediati", mentre a Pouilly prevalgono mineralità e salinità, con vini che si aprono maggiormente negli anni.
Rivoluzionario e guru indiscusso di questa zona è stato Didier Dagueneau, morto lo scorso anno in un incidente aereo. La "vulgata" è che Dagueneau sia stato il primo a vinificare separatamente i diversi suoli, fra cui le uve da vigneti silex (da cui la famosa etichetta ed il famoso vino), tanto è vero che sulle sue bottiglie il vitigno Sauvignon viene nominato come "Blanc fumé de Pouilly".
La figlia di Didier Dagueneau ci accoglie in una cantina che è molto semplicemente la più pulita ed ordinata che abbiamo mai visto. E ne abbiamo viste. Assaggiamo i vini direttamente dalle vasche di acciaio, dove vengono assemblate prima dell'imbottigliamento le diverse botti di legno, piccole e medie, dove tutti i vini dell'azienda compiono fermentazione ed affinamento.
I vini sono di una cristallina e sfolgorante freschezza. Si inizia da un "generico" Fumé de Pouilly 2008 che si distingue per un acidità malica incredibile e per impressionanti e nitide note di pera e di albicocca. Si prosegue con la cuvée Pur sang 2008: scintillante per mineralità, presenta finissimi accenni di salvia ed anice al naso ed una bocca salmastra, drittissima ed esplosiva di lime. Poi è la volta della cuvée Buisson Renard 2008 che deriva da suoli più argillosi e meno silicei. Il vino è più fruttato, largo e morbido, sebbene secondo i canoni locali, fragrante. Sono tutti vini che dimostrano per intero la loro estrema gioventù ma fanno intuire complessità e straordinario potenziale evolutivo.
Il Sancerre Mont damné 2008 è fine, a suo modo morbido, con note di fieno ed asparago, con un finale lungo e succoso. Un vino decisamente affascinante per la capacità di abbinare grande acidità ed intensa pienezza. L'ultimo vino che ci viene proposto è una delle pietre angolari del vino bianco in terra di Francia: la cuvée Silex 2008. Il vino presenta elegantissime note affumicate, di idrocarburo, agrumi, chili, pepe bianco. E' giovane, irruente, pare acqua sorgiva per quanto è straordinariamente fresco e bevibile. A centro bocca mostra sostanza e chiude in grande allungo con accenni vegetali e sapidi straordinariamente piacevoli. Si tratta di un vino dal futuro lunghissimo che ci mostra solo una parte della sua vitalità. Ma, in attesa di stappare il 2007 che porto via a 56 Euro, tanto basta.            

martedì 1 dicembre 2009

Sancerre e Pouilly Fumé - Parte prima


Mi sono spesso interrogato sul senso di raccontare degustazioni ed assaggi ai 4 lettori di questo blog. Soprattutto quando si tratta di lunghi post sui brevi viaggi in Francia che mi concedo tradizionalmente a fine vendemmia col solito gruppo di amici-bevitori-intenditori-tecnici.
La risposta è che riordinare le idee dopo una degustazione (nonché i disordinati appunti che mi ritrovo in mano) è qualcosa che mi aiuta molto nel mio lavoro quotidiano. Credo che in viticoltura ed enologia, nel senso umanistico che do ad entrambi i termini, siano fondamentali il continuo confronto con teorie e prassi differenti e la reiterata messa in discussione di ciò che si conosce o che si presume di conoscere. Non solo. Fare vino, e farlo al meglio, porta con sé quasi naturalmente la necessità di ricerca empirica davvero imponente. Questo perché le teorie, che sono necessariamente costruzioni astratte, hanno senso fino ad un certo punto una volta calate in una realtà fatta di migliaia di componenti chimici, diversità ambientali, geologiche, climatiche, socio-culturali. Insomma, per quel che ne posso capire, il vino è il regno della complessità e pertanto rifugge le soluzioni semplici e gli approcci facili.
Con questa logica, da bianchista tuttora insoddisfatto, è sempre una sfida ai limiti del possibile il confronto con in vini bianchi dei maestri francesi. E per questo motivo dopo Champagne, Alsazia e Borgogna ci restava da esplorare ancora una grande zona di bianchi: la Loira, specie là dove regna il Sauvignon Blanc.
Dopo il consueto e interminabile viaggio notturno ci ritroviamo, così, a sgranocchiare Croissant caldi sulla piazza di Pouilly-sur-Loire, appena prima di prendere possesso delle nostre accoglienti stanze nello gite di turno. 
Perché ci facciamo del male nell'aprire le danze, come tradizione, con una cooperativa è presto detto: in tutto il mondo è in questi luoghi che ci si avvicina, nel bene e nel male, alla comprensione di una zona vinicola. Cave de Pouilly, dunque. Il Pouilly-sur-loire 2006 non è niente più che fresco e lievitoso, ma il Poully Fumé 2007 già si presenta più complesso, con note agrumate, lievemente affumicate, e poi di asparago e di sottaceto. Il Pouilly Fumé vecchie vigne 2007 è più varietale, verde, contraddistinto da note di foglia di pomodoro al naso; molto verticale in bocca, segnata dal malico, ma chiusura piacevole, salina, iodata, dura, con un richiamo al cetriolo agro. 
Io odio il Sauvignon, mi ripeto come un mantra fin dall'inizio, e fin dall'inizio sono costretto a notare come non sia così infastidito dai tratti che più caratterizzano questo vitigno. Il Tonelum Pouilly Fumé 2007 da terroir Silex affinato in barrique conferma la sensazione: naso estremamente pulito, segnato da una nota fumé che ben si integra col legno, lungo, elegante, salatissimo in chiusura di bocca. Il resto della gamma si mantiene su discreti livelli e con prezzi più che abbordabili.

Dopo un breve giro per vigneti ci appare alla vista lo Chateau La Ladoucette. In questa "maison" si comincia a fare sul serio e ci rendiamo presto conto che, anche più che a Chablis, l'acidità è qualcosa con cui dovremo convivere. Il Pouilly Fumé 2007 La Ladoucette è finissimo, elegante, dalla spiccata nota minerale; note di asparago selvatico si intuiscono su uno sfondo dominato dalla pietra focaia mentre in bocca emerge un affascinante carattere salmastro, iodato ed algido, dritto, senza alcun cedimento alla morbidezza. Il Sancerre 2007 La Ladoucette è da subito più immediato: emergono sentori di muschio, lavanda, miele d'agrumi, frutto della passione, pomodoro verde. L'aromaticità è espressione di un vino ancora incredibilmente salino ed acido, dove la salivazione si fa inarrestabile dopo la prima sorsata, dove il malico conquista la bocca in modo progressivo ma non fastidioso.  E' poi la volta del Sancerre 2007 La Poussie, Sauvignon più classico, caratterizzato da profumi molto netti di mango, agrumi, frutto della passione, pepe bianco e da una bocca più pronta ed immediata, ma non banale, dove solo in chiusura si avverte una lieve nota vegetale (peperone). E' poi la volta del vino rosso, un Sancerre 2006 Comte Lafond Gran cuvèe. L'appellation prevede l'utilizzo al 100% del Pinot Nero ma siamo piuttosto lontani dalla Borgogna. Ad un naso nettissimo di ciliegia e piccoli frutti rossi, fragrante ed elegante, fa da contraltare una bocca dove prevalgono note vegetali, una magrezza eccessiva ed un finale troppo amaro ed astringente.
Torniamo in paese e, appena prima di pranzo, ci accoglie la piccola sala degustazione di Masson-Blondelet. Qui la viticoltura avviene senza l'utilizzo di diserbanti e pesticidi ma l'azienda non è a conduzione completamente bio: ci viene ricordata l'estrema piovosità della zona e la difficoltà nella gestione dei trattamenti anticrittogramici. Il Pouilly Fumé Les Pierre de Pierre 2007, su suolo silex, è subito un pò chiuso, poi presenta note minerali, di limone, su un sostrato classico "fumé". In bocca è molto molto acido, freschissimo ma davvero duro. Il Pouilly Fumé Villa Paulus 2007, su suolo Kimmeridge, è immediato, dominato da un fruttato a base di pesca bianca e da sensazioni marine in bocca che non stancano mai. Lo stesso vino nella versione 2008 è più lievitoso, molto pulito, floreale, con note molto curiose di alghe e frutti di mare. Chiusura fruttata molto diritta. Il Pouilly Fumé Tradition Cullus 2005 presenta note di pera e frutti esotici, ha un finale lunghissimo ed elegante ma risulta un pò magro a centro bocca. In generale tutti i vini, vinificati in acciaio, risultano molto piacevoli e ben fatti, forse appena un pò facili, ma espressivi certamente della denominazione. Siamo in ogni caso stupefatti dai livelli di acidità riscontrati in tutti i vini. Una acidità viva, nervosa, per lo più appagante. Ma il meglio dovrà ancora venire.

  

mercoledì 25 novembre 2009

Il cielo sopra Berlino

Impossibile conoscere una città in due giorni. Possibile respirare una atmosfera, inseguire un'idea. Ordine e creatività. Servizi pubblici ed efficienza. Effervescenza culturale e capitalismo spinto. Centri sociali anarchici e wine bar ultra-fighetti. Lungo la linea che un tempo separava un est ed un ovest metafisici prima che politici sopravvivono contraddizioni vere ed altre solo apparenti. Frutto della grande Storia, passata di qui ad ampie falcate, nel bene e nel male, fino a diventare concreta e fisica espressione della follia ideologica novecentesca. Storia non ancora fuggita da un agglomerato urbano che da vent'anni tenta di ritrovare una identità grazie a giovani, artisti, gay, architetti visionari, immigrati, registi, musicisti elettronici, loosers e winners di varie estrazioni sociali. 
Impossibile conoscere una città in due giorni. Possibilissimo annotare l'angosciante differenza con le nostre città. Vecchie. Morte. Chiuse in una dimensione piccolo-borghese che le sta trasformando in buchi neri in grado di attrarre solo il peggio, culturale, sociale, economico.
E' così che mi sono trovato a camminare per le strade della capitale tedesca con Achtung Baby nelle cuffie, disco nato dall'intuizione geniale di Bono&Brian Eno, che videro fin da subito in Berlino la nuova capitale d'Europa... Disco ancora oggi di una modernità sconcertante... E' così che mi sono trovato a cercare nel cielo grigio sopra Berlino i ricordi di ventidue anni fa quando, adolescenti in gita scolastica, si attraversava il Check Point Charlie per entrare in quello che apparve, a noi figli di papà del ricco occidente, come una desolante terra di nessuno. Due anni dopo la corsa verso la libertà travolse quel muro così denso di significati. Che poi la libertà fosse lì, davvero a portata di mano, questa è tutta un'altra storia.

sabato 15 agosto 2009

Il Mediterraneo com'era una volta

Da qualche anno è lo slogan scelto dalla Croazia per il proprio marketing turistico. Bello, non c'è che dire. Vero? Forse non in pieno agosto quando masse di turisti ormai da tutta Europa hanno come meta le coste e le isole croate. Eppure un fondo di verità c'è. Il mare croato, quell'Adriatico che sul nostro lato marchigiano è tutt'altra cosa, è veramente in Dalmazia ancora un ambiente selvaggio e da scoprire, paradiso per velisti e appassionati di barche ma anche per famiglie e vacanzieri di ogni sorta. Poche grandi strutture alberghiere o villaggi e, invece, migliaia di appartamenti privati, piccole pensioni e bed&breakfast famigliari. Una offerta che non manca di nulla ma resta ad un livello sopportabile a chi non ama le grandi masse. Una natura ancora quasi incontaminata. Una varietà di paesaggi e un susseguirsi di cale, spiagge, isole, isolette, rocce e strapiombi da far innamorare chiunque. Una enogastronomia molto interessante. Una generale sensazione di tranquillità e rilassatezza, tipicamente mediterranee. Tutto questo rende la Dalmazia, e le coste croate più in generale, davvero una meta sempre più conosciuta ed apprezzata. 
Dopo Dugi Otok, Isola Lunga, che ci aveva molto affascinato tre anni fa, stavolta siamo stati a Korčula - Curzola una settimana, giusto il tempo di rifiatare e farsi qualche bella nuotata. Più turistica eppure davvero bella anch'essa, col suo mare ed  suoi vigneti. Nella penisola di Pelješac - Sabbioncello e a Korcula, poi, ho visto il futuro della enologia europea. Vigneti abbarbicati su montagne bianche di calcare assolato, ancestrali, con fittezze altissime e condotte ad alberello o, come in Grecia, striscianti sulla pietra, vitigni autoctoni che si specchiano nel mare, profumi e sapori salmastri, minerali, sassosi. Il Posip, il Grk, il Rukatac a Korcula sono vitigni bianchi di assoluto valore,e,  così come il rinomato vitigno rosso Plavac Mali a Peljiesac (da alcuni geneticamente simile allo Zinfandel californiano e, dunque, al Primitivo pugliese), sono un patrimonio su cui lavorare e da cui partire per fare vini affascinanti, diversi, non omologati. Come quella Malvasia Istriana che, qualche centinaio di chilometri più a nord, oramai è in grado di dare vini bianchi fra i migliori d'Europa. Speriamo che qualche enologo-stregone dalle nostre cantine non arrivi a rovinare tutto quanto.
Intanto oggi è il 40° anniversario di Woodstock. Non dico nulla, se non di acquistare il DVD da poco uscito con lo storico documentario nella versione "director's cut". Imperdibile per gli amanti della musica rock.

lunedì 26 maggio 2008

Lungo il grande fiume - Parte quarta


Dopo molto tempo termina il racconto del viaggio lungo il Rodano di due anni fa. L'ultima parte riguarda i vini della parte sud della Cote du Rhone.

MARCEL RICHAUD – Cairanne.
Alcuni di noi conoscevano già questo vigneron, avendolo incontrato alla bella manifestazione di Fornovo Taro nel 2004. Oltre ad essere un ottimo produttore Marcel Richaud è anche animatore di una associazione molto interessante, Les Toqués des dentelles. Si tratta di un gruppo di vignerons del sud della Cote du Rhone, nelle sue diverse denominazioni, uniti da una comune etica da “contadini-viticoltori”. Orientata a fare una agricoltura sana e naturale, questa associazione è una delle tante espressioni di vitalità che il settore vitivinicolo francese dimostra di avere a livello di piccole aziende, vignaioli e contadini che tentano di reggere il monopolio dei grandi chateaux e negociants attraverso una offerta diversificata, di qualità spesso estrema e legata alla naturalità della coltivazione e della trasformazione.
In particolare i vini di Richaud ci hanno colpito per la loro essenza non omologata e singolare. La forzatura delle maturazioni porta a vini iper-concentrati che, certamente, non sono dalla beva facile, ma che esprimono molto bene le caratteristiche dei principali vitigni presenti nella zona: grenache, syrah, mourvedre e carignan. Il fatto che i vini più “facili” fossero esauriti ha, però, certamente rinforzato tale sensazione.

CAIRANNE ROUGE 2005.
E’ un assemblaggio di differenti vigneti con una età che va dai 40 ai 70 anni. La resa media è di 35 hl. a ettaro. L’elevazione avviene per il 20% in cemento e per l’80% in barriques e tonneaux mai nuovi. Il colore è un rosso denso, violaceo. Al naso emerge subito una vena alcolica possente che conduce sentori di inchiostro, grafite, pepe bianco, peperoncino. Prendendo aria si apre su toni di frutta rossa matura e cioccolato. In bocca è denso, grasso, molto caldo. I tannini sono larghi e impetuosi.

L’ESBRESCADE – CAIRANNE ROUGE 2004
Questo è il vino di punta di Richaud. Proviene esclusivamente da un vigneto singolo posto fra Cairanne e Rasteau con rese di 25 Hl. a ettaro. Il colore è un rosso scuro, quasi impenetrabile. L’olfatto è complesso, dominato anche qui dalla potenza dell’alcool (15,5%) e da sensazioni quasi liquorose di marmellata di amarena e cioccolato fondente cui seguono note spezie e affumicate tra le quali si fa strada il peperoncino verde, tipico di molte grenache che abbiamo assaggiato. In bocca è potente, largo, molto tannico ma i tannini sono precisi e maturi. La persistenza è lunghissima, così come imponente è il calore generato da ogni sorsata. Un vino da meditazione e da lungo invecchiamento dove la Mourvedre gioca un ruolo importante con la sua carica tannica.

CAVE DE CAIRANNE – Cairanne.
La visita a una cantina cooperativa è sempre importante per capire la qualità media di un territorio, la capacità di una denominazione di esprimere il suo potenziale e i vitigni che la caratterizzano. In questo senso la Cantina di Cairanne è un buon esempio di cooperativa in grado di svariare da prodotti di largo consumo e bassi prezzi a prodotti di qualità media fino a riserve dall’ottimo rapporto qualità/prezzo. Il “Percorso Sensoriale” offerto ai visitatori è un po’ troppo costruito per visitatori americani o giapponesi ma mostra come l’attenzione al turismo viticolo e alla clientela privata sia in Francia patrimonio anche delle realtà più commerciali.
Ci hanno colpito nella vasta panoramica di vini assaggiati l’estrema pulizia e precisione, specie olfattiva e una bevibilità mai banale ma espressiva dei caratteri varietali dei vitigni. In particolare il Cairanne blanc 2005, fresco e piuttosto fine nella sua nota dominante di mela verde, il Cairanne rouge 2004 La Réserve Camile Cayran con sentori nitidissimi di frutti di bosco, derivante per un 20% da macerazione carbonica, e dalla buona sapidità.

LES SALYENS - Cairanne 1999
Il colore è un rosso rubino con riflessi mattone. All’olfatto si presenta con sentori tipici di frutta rossa matura. Con l’aria vira verso sensazioni più acri, di erbe aromatiche. Poi di fiume e terra. In bocca è sapido, serrato, non lungo ma piacevole. La chiusura è quasi minerale, di pietra focaia che ritorna all’olfatto come cenere, sigaro e zolfo. Ma è anche la solforosa a essere forse un po’ troppo evidente. Un ottimo rapporto qualità/prezzo.

CHATEAU MONT REDON
Si tratta di un classico chateau francese, produttore di grande quantità ma di fama discreta. I vini bianchi ci hanno deluso notevolmente denotando solforose troppo evidenti, banalità espressiva, ed una scarsa finezza generale. I rosé sono risultati decisamente migliori, specialmente il Lirac 2005, ancora un po’ chiuso ma decisamente minerale. Sono i rossi a rimettere le cose a posto. A cominciare dal Cote du Rhone 2004 pulito, dai netti sentori di fragola, dalla sapidità piacevolissima. Per continuare con il Lirac 2004 dove sentori più animali di grasso e di prosciutto si fondono con la frutta rossa. Per arrivare agli Chateauneuf du Pape. Vini austeri, classici, affidabili. Quello che ci si aspetta dalla denominazione e dal marchio. D’altronde lo stesso Didier Fabbre afferma che “la filosofia dell’azienda è quella di cercare di fare vini sempre uguali a se stessi”. Non seguire l’annata, quindi, ma tentare di imporre sempre il proprio stile.
Se è vero che il rischio, evidente, è quello di produrre vini meno sorprendenti rispetto ad altri, certamente però non si può parlare di omologazione ma di una strada attraverso la quale Chateau Mont-Redon tenta di esprimere le caratteristiche salienti del territorio. E’ attraverso i tagli fra le differenti parcelle, i dosaggi dei differenti vitigni secondo uno stile bordolese e l’uso anche di legni nuovi che tale via si manifesta. Non vi è originalità ma il risultato sono vini che probabilmente non deludono mai e che in una cena cui si è invitati possono piacere certamente a molte persone.

CHATEAUNEUF DU PAPE 2001
Un vino che all’inizio sembra essere già in fase discendente. Invece con l’aria si apre su sentori di visciola che si fanno via via più balsamici, quasi mentolati. In bocca è rotondo, armonico, molto pieno. I tannini smentiscono la sensazione iniziale e impongono la loro presenza in mezzo alla bocca. Il finale è lungo e riporta sensazioni di sottobosco, di cuoio, di foglie umide e ancora di amarena. Un vino davvero buono.

CHATEAUNEUF DU PAPE 1999
L’attacco è di ciliegia sotto spirito cui seguono sensazioni fluviali e terrose. Molto complesso e austero al naso, al palato risulta molto morbido e concentrato. Poi esce una vena minerale indefinibile, quasi di idrocarburo. I tannini sono maturi, perfetti. Con l’aria le sensazioni olfattive dominanti di amarena virano su note di tartufo e, ancora, di terra. Un altro classico. Un vino che è probabilmente al suo apice.

CLOS DU MONT OLIVET
Questa azienda di medie dimensioni fa in qualche modo da contraltare alla precedente. Si tratta di una famiglia di viticoltori da molte generazioni che tenta con ogni nuova generazione di rinnovarsi sebbene nel rispetto delle tradizioni. I vini sono quindi coraggiosi e moderni ma senza alcun cedimento al gusto internazionale. E’ soprattutto la grenache a brillare, con interpretazioni che ne esaltano le caratteristiche di vitigno del sud, caldo e potente ma che riesce ad esprimersi, soprattutto con l’evoluzione, attraverso una nitidezza olfattiva stupenda, anche per la totale assenza di sentori di legno tostato. E’ soprattutto con l’assenza di diraspatura in una certa percentuale del pigiato (ma si è arrivati anche al 100%) che si tenta al tempo stesso di lavorare sui tannini e di immettere una dose di complessità che risulta sempre più evidente con la terziarizzazione.
Il risultato finale sono vini “sudisti”, a volte duri, ma sempre intriganti e puliti, frutto di una “mano” enologica non invasiva ma che, specie all’olfatto, tende a orientare verso la finezza una materia sempre densa e concentrata. In questo senso anche vini più semplici emergono come esempi di una eleganza che riesce a dominare sostanze alcoliche e strutture tanniche a volte davvero imponenti. Lo Chateauneuf bianco 2005 si è presentato equilibrato, piuttosto fresco e dotato di una mineralità ancora solo accennata. La morbidezza si conferma nota dominante ma in modo meno banale che per altri bianchi del Rodano e con una pulizia olfattiva notevole. Stessa caratteristica riscontrata nel Cotes du Rhone 2004 da vecchie vigne con sentori di fragola e cannella nitidi ed eleganti; in questo caso la bocca viene chiusa da tannini molto buoni che lasciano indovinare una nota verde tutt’altro che fastidiosa o banale. Una caratteristica, che ritroveremo nei vini più importanti, della grenache noir di questa azienda e di questi luoghi.
Una valutazione complessiva non può non rimarcare come questa azienda aperta al mercato internazionale, specie americano, e con ottime valutazioni da parte del “guru” Robert Parker resti ben ancorata ad una visione tradizionale dei vitigni e del territorio. Una lezione che molti, in Italia e non solo, dovrebbero apprendere.

CHATEAUNEUF DU PAPE ROUGE 2004
L’attacco al naso è dominato all’inizio da note un po’ chiuse di fiume e terra umida. Vi è una nota verde molto elegante, una speziatura che tende verso il peperoncino. Appare ancora molto giovane. Anche al palato dove i tannini, sebbene non astringenti, sono davvero molto presenti. La chiusura è lunga e dritta. Prosciuga la bocca ma lasciando una sensazione di grande freschezza. E’ un vino ancora molto giovane che acquisterà valore dopo la degustazione delle annate successive.

CHATEAUNEUF DU PAPE 2003
Un vino con più frutto del precedente in cui le note di confettura sono bene integrate in una nota alcolica molto presente ma non fastidiosa. Ma sono poi note di resina, di chili, di peperoncino a dominare l’olfatto mostrando la grenache nella sua tipicità più piacevole. I tannini sono molto presenti insieme ad una concentrazione possente. Ma il vino non è mai stucchevole o eccessivamente morbido, anzi le note “verdi” si dimostrano quasi balsamiche (le ritroveremo nell’annata 1996 come splendide sensazioni di legno di ebano e di cedro).

CHATEAUNEUF DU PAPE 2001
I colori nei vini di questa azienda sono dei rossi rubini accesi e integri ma non eccessivamente fitti, a dimostrare un certo predominio della grenache su sirah e mourvedre. Al naso il 2001 si offre subito con sentori di legno di cedro, di resina, di frutti rossi aspri come il ribes o l’uva spina. Nuovamente emergono elegantissimi sentori verdi di spezie, di rosmarino, ginepro e, più in generale, di quella garrigue (macchia mediterranea) che risulta la quintessenza della grenache dello Chateauneuf du pape. In bocca è molto concentrato, austero, mai morbido. I tannini sono maturi, sebbene nella chiusura conducano sempre verso sensazioni verdi, mai vegetali ma balsamiche e sapide. E’ un grande vino con più di dieci anni davanti.

lunedì 14 aprile 2008

La maratona

Ieri ho corso la mia seconda maratona, a Torino. Nonostante l'allenamento scarso e il non perfetto stato di forma è andata bene, ho chiuso sotto il mio personale in 3 ore e 56 minuti, secondo più, secondo meno. Rispetto alla prima esperienza, a Roma due anni fa, ho distribuito meglio lo sforzo. Non che non sia stata dura, anzi. L'esperienza mistica, psichedelica, degli ultimi chilometri di una maratona credo sia sempre la stessa, nonostante l'esperienza, nonostante l'allenamento, nonostante l'età. Perché la sofferenza è parte del gioco.
In molti mi hanno chiesto e mi chiedono quale sia la ragione per questa sofferenza. La risposta è complessa. La maratona è greca, come la storia dell'uomo occidentale. La maratona è una sfida ai propri limiti, è un viaggio alla conoscenza di se stessi e della propria forza interiore. Riassume in sé molte delle caratteristiche che accomunano le grandi avventure, dall'alpinismo alle traversate dell'oceano. La costanza nell'allenamento, la volontà nel superare i momenti difficili, la paura di non farcela, tutto è parte di un lungo viaggio verso il limite: c'entra Ulisse, c'entra la volontà di potenza, c'entrano la tragedia greca e la catarsi, c'entra la competizione e c'entra la soliderietà coi tuoi simili, sofferenti come te. La maratona è una grande, stupenda esperienza spirituale prima che fisica. Chi l'ha corsa sa cosa intendo. Sa cosa si prova negli ultimi chilometri e a quali energie si deve fare affidamento. Sa cosa si prova dopo che tagli il traguardo, le contraddizioni che ti si scatenano dentro. Che giuri di smettere di correre e già pensi alla prossima.
Dopodiché, proprio perché parte della storia occidentale, la maratona è anche sponsor, affari, starlettes, deejays, gara, e tutto ciò che fa spettacolo. Ed anche questo è parte del gioco, con buona pace di Filippide.

mercoledì 19 marzo 2008

Prowein 2008

Aereo per Dusseldorf. Un grosso industriale del vino spiega la sua filosofia ad un suo simile.
"In momenti come questi è bene non avere troppi vigneti. Sono costi fissi... Invece vai in Puglia o in Abruzzo compri tutto quelle che ti serve... Sangiovese, tac! Al limite sistemi con due chips quello che non funziona, e sei a posto. Abbatti i costi". L'altro annuisce. Con buona pace dei consumatori, delle etichette e dei Consorzi di Tutela.
Sono appena rientrato dalla ProWein. Il bilancio è positivo. I vini sono piaciuti. Gli ordini arrivano. C'è grande attenzione, mi pare, per vini con una spiccata identità. E poi il Reno è meraviglioso, la birreria Urege è un pezzo di storia e la compagnia di Alessandro (Cantina Malacari) e degli altri Piccoli Produttori (Grandi Vini) è sempre molto divertente. Ovviamente ci sarebbero parecchie cose da raccontare, in particolare una memorabile serata enologica, alcuni Riesling tedeschi, un ristorante da evitare con cura. Ne parlerò con calma... La domanda stasera è un'altra. Retorica, ovviamente. Perché alla ProWein non si fanno code, si parcheggia in 30 secondi, tutto è perfettamente organizzato, i bagni sono puliti, il biglietto della fiera vale per tutti i mezzi pubblici dell'intera renania, ferrovia compresa? Forse per la stessa ragione per cui le autostrade in Germania non si pagano e sono in condizioni ottime, i giardini pubblici sono belli e curatissimi e dall'alto di un aereo non si fa altro che vedere pannelli solari sui tetti e grandi mulini a vento sparsi per la campagna? Forse per la stessa ragione per cui la gente è civile, gentile e rispettosa del "bene comune"? Considerando che fra poco invece ci toccherà ritornare a Vinitaly, che è esattamente l'opposto di tutto ciò, c'è ben poco da stare allegri. Ovviamente è solo una opinione personale perché tanto noi continuiamo a ripeterci che siamo italiani, brava gente, pizza e mandolino, creativi, e anche campioni del mondo. Dunque va bene così.

mercoledì 6 febbraio 2008

Austria, Italia e altre cosette.

Appena tornato da una breve vacanza in Austria, sul lago di Ossiach. Nonostante il cattivo tempo abbiamo apprezzato la Carinzia, i suoi paesaggi boschivi, i suoi laghi, le sue montagne. Nulla in confronto alle nostre bellezze italiche. Ma i sentieri nei boschi sono segnalati in modo incredibile, vi sono piste ciclabili ovunque, alberghi e attrattive turistiche sono a misura di bambino, pulizia e ordine regnano sovrane, il servizio è ovunque gentile, il rispetto per l'ambiente pare sacro. Insomma il turista, a differenza che da noi, ritrova un territorio integro e ben organizzato. Che non è poco. Un unico appunto: si fuma ovunque nei locali pubblici, ed è l'unico esempio di superiore civiltà italiana. Addirittura, nonostante fosse consentito, alcuni italiani sono usciti dall'albergo per fumare. Mi sono sentito orgoglioso.
Degustato un ottimo Gruner Veltliner Holzgasse 2006 dell'azienda Buchegger: al naso, su fondo nettamente minerale, spiccate note di lievito e crosta di pane e finissime sensazioni agrumate (cedro, lime) e di fiori bianchi; in bocca molto sapido, freschissimo, con esaltante acidità di mela verde e chiusura tostata di nocciola, di lunga persistenza.
Nel frattempo, fra saune, corse nei boschi e cambi di pannolini, ho letto un libro stupendo. Senior Service di Carlo Feltrinelli è la biografia del padre Giangiacomo, l'editore. E' una biografia approfondita, basata su ricerche d'archivio e ricostruzioni storiche, poiché Carlo aveva solo dieci anni quando il padre morì, nel 1972, ucciso dalla sua folle lotta per un mondo più giusto. Il fatto è che Giangiacomo Feltrinelli ha vissuto una vita tale e in un periodo tale della storia d'Italia che il libro risulta avvicente, profondo, carico di suggestioni. Specie nella parte che va dal primo dopoguerra ai primi anni sessanta emerge il ritratto di un paese dalla incredibile vivacità intellettuale e culturale. Di una politica fatta di grandi scontri ideologici ma anche di splendide storie quotidiane. Che stride fortemente con la realtà attuale, lasciando quello stesso amaro in bocca, per ciò che siamo stati e che non siamo più, che mi aveva lasciato un altro bellissimo libro, in qualche modo parallelo a questo, ovvero La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda.
Consoliamoci con l'Italia del pallone. Adoravo Donadoni da giocatore. Ma devo ammettere che non pensavo sarebbe riuscito a creare una Nazionale così bella da vedere, che gioca a memoria e non ha paura di attaccare. Piena finalmente di giovani che hanno una voglia pazza di spaccare le zolle del campo e non di vecchie glorie stanche pronte alla pensione. Mi aspetto un ottimo europeo in Svizzera e... Austria.

lunedì 14 gennaio 2008

Chablis, mon amour...

Aveva ragione Mario Soldati, quando paragonava i migliori Verdicchio ai vini di Chablis. Che eresia, sembrerebbe. E invece... Invece arriviamo in questo splendido paesino dove ogni cosa è al posto giusto, come in equilibrio con la propria storia, e dopo pochi assaggi capiamo che è proprio così. Che c'è una sorta di corrispondenza strana, nascosta, elettiva, un'affinità con certe sensazioni a me, a noi, famigliari. Una affinità fatta di acidità corrosive, troppo spesso dimenticate nei Verdicchio di nuova concezione; fatta di sale e minerale, di evoluzioni terrose, complesse, esaltanti.
Si parte con una cantina sociale che sarebbe un sogno dalle nostre parti, La chablisienne. Con vini puliti, dritti, fini, segnati da una tostatura che non è mai legno ma lievito, crosta di pane, mandorla e nocciola. Come il Prelude 2002 o La Sereine 2005. E poi il buonissimo Vielles Vignes 2002, finissimo, balsamico, quasi mentolato, dove la tostatura ha le note della nocciola (100% acciaio) e l'acidità conduce la bocca verso lidi di freschezza nordica. E ancora il premier cru Beauroy 2005, dove prevale la noce, dove la finezza prende le forme del fieno, e in bocca si allarga una cremosità non stancante. Poi, a salire, il premier cru L'homme mort 2005, decisamente una grande annata, da botte grande, fine, minerale, con accenni di agrume, nuovamente eleganti note balsamiche, sentori di mela cotogna. Etereo in bocca, leggero, equilibrato nella sua verticalità. Buonissimo. Note più dolenti per quanto concerne i vini più importanti, forse semplicemente ancora chiusi, scontrosi, adolescenti. Non ci è piaciuto il Grand crus Blanchot 2004 e nemmeno ci ha entusiasmato il Grand crus Grenouilles 2005, mentre il Grand crus Preuses 2001 si è aperto per noi su note di miele, mandorla, cedro, con una notevole tostatura, stavolta di legno, ma mai banale, e una acidità corrosiva e viva.
Assaggiamo e più assaggiamo più rafforziamo la nostra idea che Chablis sia un luogo dove lo Chardonnay è solo uno strumento al servizio del terroir, perché quasi mai sentiamo banane o ananassi o cocchi o vaniglie. Pochissimo si usa la barrique, a differenza della Cote d'or. Persino in aziende dall'impostazione "internazionale" come Albert Bichot, maison di media grandezza, con diverse cantine a coprire più denominazioni. Qui i vini base hanno un buonissimo rapporto qualità prezzo e una pulizia di esecuzione splendida e finissimi sentori floreali, di frutta fresca, di pera (il Petit chablis). Poi si fa sul serio, anche in fatto di prezzi. Col premier cru Vaucopin 2005 (10% di legno) ricco di sensazioni di erbe, fiori bianchi e pietra, con un ingresso in bocca morbido che si distende su una ottima e malica acidità per chiudersi su note di mandorla. Di nuovo lo spettro del Verdicchio. E si continua col Grand cru Le clos 2002: finezza allo stato liquido, fatta di cedro, fiori bianchi, pietra focaia. Gelsomino. Finissimo al naso, secco, asciutto, in bocca col classico finale tostato e una generale sensazione di ricchezza e cremosità e morbidezza dopo la deglutizione. Un grande. Infine il Grand cru Preuses 2002, dove predominano sentori più terziari, una evoluzione stupenda di terra umida, champignon, zolfo, muschio e cespugli aromatici. In bocca equilibratissimo, lungo, interminabile, con una tostatura da pane abbrustolito a prevalere sulla freschezza. Poco dopo ci attende il Domaine Oudin, vera sorpresa delle nostre degustazioni. Vignaiolo di razza, Oudin ha una cantina piccola ma pulitissima e che non manca di nulla. Vinifica solo in acciaio e ha i tratti del terroirista. Il suo Chablis 2006 sorprende immediatamente per note di idrocarburo, pesca bianca, mela acerba. Una acidità portentosa è bilanciata da una cremosità mirabile che ne fanno un esempio di stile e finezza. Al prezzo di 8 euro. Lo Chablis Le serres 2005, che è una cuveé rimasta sui lieviti un anno in più, appare all'inizio ridotto ma si apre immediatamente su note eleganti di cedro, limone, mela cotogna. E' minerale, lascia una bocca pulitissima. E' fragrante, lunghissimo nella ormai consueta chiusura tostata di mandorla e noce. Un bianco semplicemente superbo. Infine il premier cru Vaugirot 2004: un vino difficile, davvero chiuso, complesso. Sapidissimo, dritto, senza cedimenti morbidi, presenta note di funghi, tartufo, formaggio salato. Poi l'agrume, ma più scorze che frutto, e soprattutto limone.
Ed alla fine, che dire? Poche pippe, qui non si macera, non si copre di legni, non si fanno tagli strani. E ce ne andiamo di sera, in mezzo a un tramonto freddissimo, con la netta sensazione che Chablis sia davvero una delle Università del vino bianco.

giovedì 6 dicembre 2007

Francia

Mancano ancora più di sei mesi agli Europei di calcio quando ci troveremo ancora di fronte i cugini francesi. Fino ad allora è possibile gridare "Vive la France!" bevendo i loro vini stupendi. D'altronde che siamo campioni del mondo non si discute. A pallone. Ma per quanto concerne i vini continuo a pensare che abbiamo ancora un pò di strada da fare, noi vignaioli italiani. Questione di terre ma anche di teste. Perché sui vitigni, non c'è storia; anche lì siamo campioni del mondo.
Sono tornato ancora una volta in quel di Beaune e Mersault, insieme alla solita compagnia di amici, ma orfani di Izio, sempre magico vice-segretario (in pochi sappiamo il significato recondito di questa carica onoraria).
In realtà stavolta la Cote d'or è stata solo un buon trampolino per conoscere realtà come lo Jura e Chablis, trovandosi più o meno a metà strada fra queste due regioni. Rimando ai prossimi giorni i commenti più precisi a vini e produttori. Oggi mi interessa soprattutto sottolineare come abbiamo assaggiato, con pochissime eccezioni, vini davvero superbi, anche in relazione al prezzo (certo scordiamoci i vini da 3 euro!). Vini con una identità spiccata e un eccezionale rapporto col territorio, sia che si fosse nella grande "tasting room" di una azienda da milioni di bottiglie, sia nello Chateau fico da centinaia di migliaia di bottiglie, sia nella grotta piena di muffe e ragnatele del piccolo vigneron. La sensazione, cioé, è che indipendentemente dalle dimensioni aziendali, queste regioni stiano resistendo in modo vigoroso e tangibile alla standardizzazione del gusto imposta negli ultimi anni, proseguendo sulla strada della tradizione.
In particolare Chablis, di cui conoscevo i vini ma non il territorio, è stata una rivelazione. Un luogo magico cui tornare in futuro. Un terroir fondamentale soprattutto per chi non si rassegna al dominio del "vino rosso" nell'immaginario collettivo. Abbiamo assaggiato vini davvero stupendi, dalla freschezza incredibile, dalla mineralità decisa, dalla vita lunghissima. Una qualità media impressionante, a fronte di prezzi molto elevati sui grand crus, ma decisamente alla portata per le denominazioni inferiori, specie nel confronto con certi bianchi di grido italiani.

lunedì 19 novembre 2007

Lungo il Grande Fiume - Parte terza

Dopo la Maison Chapoutier restiamo nella parte Nord della Valle del Rodano per incontrare una serie di produttori più piccoli ma egualmente molto interessanti.
GEORGE VERNAY – Condrieu.
Forse perché arrivati in ritardo all’appuntamento, ma qui l’accoglienza è decisamente più fredda. L’azienda Vernay, diretta da Paul Amsellem, è nota per i suoi Condrieu. Purtroppo i vini più interessanti sono esauriti, dunque la panoramica non può considerarsi esaustiva. In generale, però, si può affermare che lo stile aziendale è certamente orientato verso una impostazione internazionale, specialmente per quanto concerne la Sirah.LES TERRASSES DE L’EMPIRE – CONDRIEU 2005
Un classico giallo paglierino introduce a sentori di banana un po’ banali. Al naso è comunque molto pulito e fine. In bocca è morbido, corretto, senza una grande persistenza. Il viogner si offre qui nella sua mielata rotondità un po’ noiosa.
LES CHALEES DE L’ENFER – CONDRIEU 2005
Si presenta in un giallo paglierino carico. L’olfatto è subito elegantissimo e fine con una pulitissima nota di pera, di buccia di arancia caramellata, di marmellata di agrumi. In bocca ha un ottimo equilibrio fra morbidezza e acidità. La chiusura è lunga e minerale, e lascia presagire un grande futuro. Davvero un grande bianco.
LES DAMES BRUNES – SAINT JOSEPH 2004.
Un vino internazionale, una sirah che potrebbe essere australiana, sebbene a sua difesa vale la considerazione di un imbottigliamento ancora troppo ravvicinato. La tostatura del rovere è in grande evidenza. Comunque molto pulito al naso e di buona concentrazione.
MAISON ROUGE – COTE ROTIE 2004.
Un colore rosso cupo dai riflessi violacei introduce un naso pulito dove spiccano le note di spezie dolci, di pepe nero, di piccoli frutti rossi. Emerge più la sirah che la Cote Rotie, ma forse è anche la gioventù. I tannini sono comunque finissimi e precisi. Presente ancora la nota vanigliata sebbene più integrata nel frutto rispetto al vino precedente. Un esercizio di stile che risulta in fondo un po’ fine a se stesso.
VINCENT GASSE – Ampuis.
Vincent Gasse è un vignaiolo come tanti ce ne sono in Francia e in Italia. Ex insegnante in un Istituto per periti agrari, si è dato alla viticoltura biologica perché ha conosciuto e insegnato direttamente l’agricoltura chimica della “rivoluzione verde”. Un modello che considera ormai superato e dannoso. A parlarci, non sembra un integralista. Non lavora in biodinamica perché “si fa troppa fatica”, e in cantina è naturale solo perché così ha sempre fatto ed il vino che ne risulta lo soddisfa. Poi, però, ci porta nelle sue vigne, che sono piccolissime parcelle di diversi vigneti, e d’improvviso si illumina e veniamo travolti dalla sua passione per la terra.
Le parcelle, specie le prime due che ci mostra, sono proprio sopra al paese di Ampuis. Hanno pendenze incredibili. Il Rodano, enorme e fascinoso, compie una curva in modo tale che la costa vignata sia rivolta a sud, protetta dai venti più freddi (Mistral). Sembra di essere sulla Mosella più ancora che in Valtellina, con salti nel vuoto davvero affascinanti. La vendemmia qui è arte alpinistica ed i trattamenti principali vengono fatti, collettivamente e con prodotti biologici su tutte le parcelle, in elicottero. Poi, chi fa agricoltura convenzionale, se lo vuole, tratta ulteriormente le proprie vigne. Quando ha iniziato, Gasse era il primo a fare agricoltura biologica ad Ampuis e, ancora oggi, è fra i pochissimi. I suoi vini sono vini veri ma anche vini tecnicamente ineccepibili.
In cantina, un classica cantina da vigneron francese, dapprima ci fa assaggiare alcune prove di botte che subito si distinguono per autenticità e dirittura. Poi ci apre alcune delle poche bottiglie rimaste di annate precedenti.
COTE ROTIE 2001
Il colore è un rosso rubino classico. L’olfatto è invaso da note di pepe verde, rosmarino affumicato e di polvere di cacao. Poi sotto alla speziatura sembra emergere una interessante vena minerale, di grafite e asfalto. In bocca è stupendo per la freschezza quasi balsamica che lascia in bocca, risultante di tannini forse ancora un pò spigolosi e di una acidità ben presente e sapida. Un vino che può davvero invecchiare a lungo.
CONDRIEU 2003
E’ un viogner classico dal naso esplosivo di miele di acacia, confettura di pesca ed albicocca che in bocca delude per l’eccessiva morbidezza. Il vino, sebbene secco, risulta quasi dolce, stanco, senza alcuna presenza di sali minerali. Qui forse c’è di mezzo anche l’annata.
DOMAINE LIONNET – Cornas.
Lionnet è un altro vigneron classico, proveniente da una famiglia di viticoltori a Cornas dal 1575. La sua azienda produce un unico vino in 10.000 esemplari all’anno, circa. Siamo di fronte a quella realtà contadina francese viva, pulsante, fiera della propria storia. Una storia mai rinnegata per un salto verso l’industria o il mito cittadino. Sono le migliaia di piccole aziende come questa a costituire l’ossatura di un sistema-vino che, al contrario del modello degli chateaux bordolesi, regge la competizione globale attraverso una qualità distintiva, la fede nel terroir e la capacità di rivolgersi ad una clientela privata che raramente li tradisce, anche nelle annate meno fortunate.
Gli assaggi da barrique del Cornas 2005 ci fanno scoprire l’essenza del crus di Cornas, il vino più “sudista” del nord del Rodano. E’ un rosso cupo, concentrato, con spiccate doti di invecchiamento (anche 20 anni) in cui la sirah emerge come vitigno in perfetto equilibrio tra finezza e potenza, meno minerale che in Cote Rotie, bensì più grasso e morbido.
CORNAS 2004
Un vino che appare un po’ chiuso. Ci spiega Lionnet che i Cornas vanno bevuti molto giovani oppure almeno dopo 5 anni, poiché attraversano una fase “intimista” nel passaggio fra il fruttato giovanile e i sentori terziari della evoluzione. Si apre comunque su fini note di pepe nero, curry dolce, resina. Poi, delicatamente, si fanno strada frutti di bosco appena accennati. In bocca è molto buono, già in equilibrio perfetto fra alcool, tannini e acidità. Comunque la chiusura è verticale ed elegante. E’ il vino di un vignaiolo di razza.

sabato 3 novembre 2007

Lungo il Grande Fiume - Parte seconda

Ecco la seconda parte del reportage sulla Cote du Rhone 2006, in attesa di partire a fine novembre con destinazione Jura e Chablis. Le degustazioni sono state effettuate dal sottoscritto in compagnia di Alessandro Fenino, Andrea Bianchin, Fabrizio D’Auria. Questa seconda parte è incentrata sulla Maison Chapoutier a Tain l’Hermitage.

Alle ore 10.00 entriamo nei locali della Maison M. Chapoutier, uno dei mostri sacri della viticoltura della Cotes du Rhone. Alcuni di noi ancora ricordano una memorabile degustazione di qualche anno fa, dunque le aspettative sono molto elevate. Abbiamo fissato un appuntamento dall’Italia per cercare di capire a pieno i segreti di questo colosso della agricoltura biodinamica.
Il sommelier Sebastien Dreville, uno dei responsabili dell’accoglienza, ci guida dapprima nei leggendari vigneti della collina dell’Hermitage. Inizia a parlare delle ere geologiche che l’hanno creata e della fondamentale divisione in due grandi parti, divise da una frattura geologica. A ovest predomina il granito, ultimo bastione del Massiccio Centrale, in molte delle sue differenti articolazioni. A Est è il calcare proveniente dalle Alpi a farla da padrone. I vigneti sono impressionanti, per la pendenza, le densità di impianto, la scarsità di sostanza organica. In certe parti le radici affondano dentro una vera e propria “sabbia di granito”.
“Il terroir è la combinazione del suolo, del clima - che segna il millesimo - e della conoscenza che deriva dalle tradizioni. Senza l’uomo non c’è il terroir. L’uomo fa il terroir. O lo distrugge”. In questa frase di Michel Chapoutier, riportata su ogni pubblicazione della maison, sta lo stile della azienda. In una sorta di umanesimo che vede l’agricoltura come un fatto culturale, dove è fondamentale l’interpretazione umana del dato naturale, risiede la sua caratteristica più profonda. Per cui la biodinamica diviene un mezzo per produrre grandi vini di territorio, e non il fine ultimo su cui basare tutta la propria azione. Così accade che non in tutte le vigne dell’azienda si faccia biodinamica. E che in cantina non si disdegni l’uso di lieviti selezionati, se l’uso dei lieviti indigeni per qualche ragione (annata, stato delle uve, tipo di vigneto) risultasse distorcere l’espressione del terroir. Stessa cosa per l’uso della solforosa, evidente anche in degustazione, specie sui bianchi, e legato al mantenimento di una incredibile longevità dei vini della azienda.
Sono considerazioni che fanno storcere il naso ai puristi dei vini naturali/biodinamici ma che nel contesto di una azienda che produce nel complesso milioni di bottiglie meritano, a nostro avviso, una certa considerazione. E’ un approccio interessante soprattutto in confronto a una realtà italiana sempre più dominata da una netta contrapposizione fra grandi aziende dove regna la chimica più sfrenata e piccoli viticoltori in cui l’idea forte di vino naturale può condurre a volte ad una eguale standardizzazione provocata dalle estreme ossidazioni, da macerazioni eccessive, da forti riduzioni. Con relativa perdita delle caratteristiche del terroir.
I vigneti della maison vengono tutti separati in parcelle a seconda del tipo di suolo/esposizione e le uve ottenute vengono vinificate separatamente. I grandi vini sono ottenuti da parcelle di vigneto (alcune dei quali con viti pre-fillossera) sulle quali non si opera alcun taglio. In generale i bianchi vengono da suoli più calcarei, e tale regola è stata riscontrata anche per altri produttori e in altre zone della denominazione Cotes du Rhone.
La visita alla cantina (una delle quattro della maison, la più a nord e la più piccola) conferma l’idea di una impostazione tradizionalista (uso di grandi tini di legno aperti per la macerazione dei rossi) senza alcuna predominio della tecnologia, ma di una grandissima attenzione ai particolari e alla tecnica enologica. In generale, i vini rossi compiono una breve macerazione pellicolare prima dell’avvio della fermentazione alcolica tumultuosa, con una diraspatura solo parziale delle uve a seconda del grado di maturazione dei raspi (entrambe queste caratteristiche vengono confermate anche in altre realtà). Nei bianchi viene privilegiata la pressatura soffice di uve intere senza alcuna macerazione.
La degustazione dei vini aziendali viene suddivisa in due giornate. Il primo giorno ci vengono sottoposti alcuni dei più importanti vini della azienda. Il secondo giorno assaggiamo i vini più semplici. E’ possibile affermare che si tratta di prodotti dallo stile inconfondibile. Dove, accanto alla incredibile pulizia e perfezione tecnica, è possibile ritrovare l’espressione distinta dei vitigni, dei suoli e delle stagioni in un continuo susseguirsi di complessità e diversità di caratteri. Questo ci ha stupito in particolar modo nei prodotti più accessibili (sia in fatto di gusto che di portafoglio) dove è stato davvero possibile elevare in modo emblematico a pietra di paragone, la sirah del Saint Joseph Deschants 2005, la grenache del Rasteau 2004, il viogner del Saint Peray Les Tanneurs 2005. Oppure il Crozes Hermitage Petite Buche blanc 2005 nella sua inconfondibile sapidità calcarea e il Tavel Beaurevoir rosé 2005 con un naso finissimo di mora e fragola.
Ancora, tale azienda pare confermarsi emblema della zona per il generale minore impatto destato in noi dai vini bianchi. Cosa strana in Francia, ma che contraddistingue una regione in cui Viogner, Marsanne e Roussanne, accanto a sensazioni olfattive sempre fini ed eleganti, tendono però a mancare sempre di quella vena acida che conduce al minerale.
INVITARE – CONDRIEU 2005
100% Viogner.
Al naso subito pulitissimo e fresco, si distingue per una nota spiccata di pera. Poi di frutta secca e albicocca con un ritorno balsamico molto intrigante. L’attacco in bocca è molto pulito, sapido con una discreta acidità e la totale assenza di note vegetali o amare. Il vino è secco, dritto, si apre solo alla fine su note agrumate. Manca, forse, di una mineralità spinta al palato, compensata però da una materia perfettamente integra.
CHANTE ALOUETTE - ERMITAGE 2004
100% Marsanne.
E’ un vino più morbido del precedente. Emerge una nota di solforosa appena accennata a coprire sentori di miele e pasticceria secca. In bocca il vino è morbido ma lunghissimo. Il frutto (fico e albicocca accanto a note mielate) è ancora un po’ coperto dal legno e da sentori sulfurei. E’ un vino che ha una vita lunghissima davanti e che mostra solo parte della sua potenzialità.
DE L’OREE – ERMITAGE 2001
100% Marsanne.
Vino proveniente da vigne che hanno fra gli 80 ed i 100 anni con una resa per ettaro di 15 hl. Al naso si presenta immediatamente con una piacevole nota sulfurea di terra, quasi tartufata. Poi si apre su note di pasticceria secca, su sentori affumicati, di miele di acacia che evolve verso il caramello. In bocca è concentrato, con una persistenza infinita. Vi è una morbidezza forse eccessiva, condotta anche da note di tostatura di legno. Ma poi i continui ritorni di agrume dolce, di albicocca secca e di miele tendono a dominare sul rovere, sebbene l’incredibile lunghezza non sembri essere supportata da una struttura acida/sapida adeguata.
LES BECASSES – COTE ROTIE 2004
100% Sirah.
Il vino si presenta di un rosso rubino acceso, fiammante. Al naso è dapprima un po’ chiuso. Quando si apre lo fa su sentori animali, poi di pepe e di ciliegia. Quando si apre completamente prendono il sopravvento sentori elegantissimi di ribes e uva spina. E’ un vino dalla straordinaria finezza che in bocca appare concentrato ma setoso, i cui tannini - pur ancora giovanissimi - sono già dolci e dove l’amaro è completamente assente. La chiusura in bocca è secca e senza alcun cedimento. Al naso prorompono note di pepe verde, di origano e di chiodo di garofano, quasi balsamiche, che lasciano poi il palato fresco e pulito. E ‘un vino con almeno dieci anni di vita davanti.
LA SIZERANNE – ERMITAGE 2004
100% Sirah.
E’ uno dei vini simbolo dell’azienda. Un Hermitage che proviene da parcelle poste nella parte bassa della collina e che vede una dominanza di sedimenti limosi e argillosi alluvionali del Rodano. In alcune parcelle vi è predominanza di granito, in altre di calcare; un terroir meno estremo rispetto alle altre parcelle in Hermitage e che, quindi, necessita di un invecchiamento inferiore per esprimersi.
Al naso emerge subito in modo più netto rispetto al vino precedente. Viola, petali di rosa appassita, prugna lasciano presagire un vino che si presenta già maturo. In bocca è pieno, concentrato. I tannini sono impetuosi ma assolutamente morbidi. Una nota sapida conduce a un finale un po’ amaro, forse sulfureo. Nel ritorno al naso l’amarena lascia il posto ai tipici sentori speziati della sirah dove spiccano il curry ed il pepe nero.
LA MORDOREE – COTE ROTIE 2000
100% Sirah.
Il colore è di un rosso rubino scuro. All’olfatto è subito pulitissimo. I ripidi terrazzamenti della Cote Rotie offrono sentori intriganti: inchiostro, sangue, viola. Poi è la sirah a regalare note finissime di pepe e zenzero assieme a sentori di ginepro, di cannella, di liquirizia. Poi dopo qualche momento evolve ancora verso sentori di pasta di olive, di cuoio e di polvere di cacao. In bocca ha tannini memorabili, nel pieno della loro potenza ma già vellutati. E’ un vino terroso, caldo, ma di una finezza assoluta. Verticale nonostante la struttura tannica e l’alcool, non concede alcuno spazio ad una facile morbidezza ma è anzi un inno alla complessità. Un vino che ha davanti a sé quindici anni di gloria.
LE MEAL – ERMITAGE 2000
100% Sirah.
Hermitage proveniente da parcelle poste circa a metà della collina, dunque con terreni meno sciolti, ricchi di scheletro, roccia madre, cristalli di quarzo. Uno scontro di ere geologiche dominato dalla lotta fra il granito ed il calcare scavati dal Rodano.
Il colore del vino è un rosso cupo, quasi impenetrabile. E’ subito liquoroso, con sentori terziari di frutta sotto spirito. La speziatura è qui chiusa, quasi affumicata. Il naso è complesso ma ancora intimo, introverso. Elegante. Lasciato nel bicchiere esprime note finissime di cioccolato fondente e tabacco, di pepe e di mirtillo. In bocca è pieno, potente e caldo. La maestosa concentrazione è comunque fine, non stanca, invita anzi alla beva in virtù di una mineralità sotterranea che rende il vino armonico. Un grande vino che è solo all’inizio di una lunga vita.