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martedì 19 aprile 2022

Netflix Party

Nel prossimo mese di maggio uscirà nelle librerie, per l'editore peQuod di Ancona, Netflix Party, il mio nuovo libro. 

Si tratta di una raccolta di dodici racconti, short stories direbbero gli americani. Tra i protagonisti ci sono viaggiatori dispersi in un futuro arido, pubblicitari in fuga da se stessi, adolescenti senza scampo, musicisti jazz, homeless, scalatori, alieni atterrati sul pianeta Terra. E poi ancora: bottiglie di vino che raccontano una vita ormai giunta alla fine e cinici manager alle prese con l’ennesimo Negroni sbagliato.

Sono dodici storie solo apparentemente sganciate l'una dall'altra: messe assieme provano a ricostruire uno sguardo sul nostro mondo, su quello che ci sta accadendo, sulla variegata umanità di inizio millennio alle prese con fatti epocali come la pandemia, il cambiamento climatico, un'economia sempre più diseguale. 


L'illustrazione in copertina è di Francesco Dottori


Il titolo che dà il nome all'intera raccolta è il titolo di uno dei racconti, l'ultimo. In realtà mi pare sintetizzare bene il respiro profondo di questi testi. Netflix Party perché volenti o nolenti viviamo vite sempre più virtuali; perché a prescindere dalla pandemia viviamo vite confinate, dove gli spazi di socialità e di libertà autentica sembrano continuamente restringersi; perché viviamo vite le cui relazioni ed emozioni sono sempre più decise da altri, e spesso da algoritmi di cui nemmeno conosciamo l'esistenza.

Per cercare di fare emergere le contraddizioni in cui siamo immersi ho scritto di personaggi o situazioni estremi. Ho stressato i contesti e portato le vicende sempre sul bordo di un precipizio immaginario. Così le dodici storie raccontano l’ansia, l’adrenalina, il senso di perdita, la follia, lo smarrimento che si provano una volta giunti al limite: quando le scelte valgono doppio, gli errori sono imperdonabili e la catastrofe sembra imminente. 

E pure, nonostante tutto, c’è un senso di profonda umanità racchiuso nelle scelte di molti dei personaggi. Quasi una sorta di resistenza a un mondo che ci vuole confinati.

giovedì 10 ottobre 2019

Di catastrofi e civiltà decadute

Dall'introduzione di "Come vignaioli alla fine dell'estate" di Corrado Dottori
Ed. DeriveApprodi. Collana Habitus.

"...Siamo in mezzo alle rovine di Micene, in mezzo a grandi blocchi di pietra che testimoniano di una grande civiltà in frantumi. Ecco, proprio lì, in mezzo ad alcune pietre di una antica dimora devastata, cresce una vite. Una vite selvatica. Che prova a farsi strada e a sopravvivere là dove non c’è più nulla.
La vite. Pianta resiliente, testarda e ribelle. Unica forma di vita in mezzo al vuoto.
È un’immagine che mi fa riflettere sul movimento dei vignaioli naturali. Su quanto sia al centro del grande cortocircuito fra natura e cultura e su quanto poco stia facendo per prendere davvero posizione di fronte alla catastrofe ecologica.
La crisi ambientale che stiamo vivendo è in gran parte una crisi della Politica.
Nel 1975 Wallace Broecker pubblicava su «Science» un articolo dal titolo emblematico: Climatic Change: Are we on the Brink of a Pronounced Global Warming? L’insostenibilità del nostro modello di sviluppo è cioè cosa nota da sessant’anni almeno, eppure non è mai stata davvero al centro delle campagne elettorali o dei programmi politici di nessun grande partito politico di massa.
  Nella riedizione di Tempi storici Tempi biologici, nel 2005, Enzo Tiezzi affermava «con un misto di imbarazzo e di orgoglio che le previsioni di vent’anni fa si sono dimostrate fondate e scientificamente corrette». Nulla si crea e nulla si distrugge, la legge della termodinamica non fa sconti a nessuno: il ciclo del Carbonio sta alla base dell’aumento fuori controllo delle temperature del pianeta. I politici lo sanno da tempo. Ma nessuno ha mai davvero agito..."


In vendita nelle librerie, on-line e presso la casa editrice.

mercoledì 16 gennaio 2019

Immagina un mondo

File: Lettere di famiglia 
Data: Nessuna data certa

Ciao Edo
sono Nina... Non so se leggerai mai queste righe... Le scrivo da un posto che non posso dirti. Né bello né brutto. Sospeso.
So che mi odi o – forse peggio – che mi hai semplicemente rimosso. Non posso biasimarti visto la madre che non sono stata. E tempo per recuperare non ce n’è, che non ho alcuna intenzione di pagare il prezzo che hanno pagato tuo padre e tanti altri compagni. Preferisco di gran lunga nascondermi e cercare di condurre una vita in qualche modo decente.
Ma alcune parole mi andava di scrivertele, non per giustificarmi, non per spiegarmi e tanto meno per ottenere un impossibile perdono. Ma semplicemente così, per riannodare un  filo sottile, fatto di ricordi... Che la storia, quella la scriveranno gli storici, e sarà comunque in gran parte la storia dei vincitori. Mi spiacerebbe che tu conoscessi solo quella e avessi un’idea di tua madre ancora peggiore di quella che ti sarai fatto... Insomma. Immagina un mondo. Un mondo in cui ogni anelito di libertà, viene soffocato nel sangue, da Lumumba a Che Guevara, da Bob Kennedy a Luther King, dall’Ungheria a Praga... Immagina anni in cui in ogni parte nel globo la gente, il popolo, si muove per chiedere un mondo migliore: in Africa, nei paesi arabi, negli Stati Uniti d’America, nell’est d’Europa, in sudamerica. E c’è una musica nuova, ci sono idee originali, ci sono giovani che non vogliono fare il lavoro dei padri, ci sono donne che vogliono essere diverse dalle loro madri. Immagina tutto questo, se puoi, e lo so che puoi.
E poi immagina una bomba e dei morti innocenti. Immagina un anarchico innocente che precipita dalla  finestra di un commissariato di polizia. Immagina una guerra atroce in un paese povero e disperato come il Viet Nam. Immagina l’Angola, il Mozambico, la Palestina, il Sudafrica... Immagina la Grecia quanto era vicina; Il Cile e l’Argentina e un paese come il nostro che come in un incubo chiude ogni varco, ogni porta, ogni spiraglio al cambiamento.
Dov’erano i nostri Robespierre? Dove i nostri Lenin? Dov’erano e cosa facevano quelli che fino a un attimo prima sembravano i rappresentanti della classe operaia?
Il potere.
Ecco la questione davvero irrisolta.
Perché è vero, abbiamo ottenuto il divorzio e l’aborto. Ma sarebbero arrivati comunque, era solo questione di tempo. E la libertà sessuale? Eccola... Anche senza di noi, con le tette nude delle televisioni. Così come l’emancipazione della donna, consumatrici formidabili da non lasciare indietro, lo sanno bene Versace e Madonna, no? E i neri? Comunque prima o poi qualche diritto sarebbe stato loro concesso, gli WASP facevano pochi figli e se vuoi vincere le elezioni hai bisogno dei voti di tutti, neri, messicani, omosessuali... Non passerà molto tempo prima di avere un presidente americano nero!
Tutto faceva parte del normale processo evolutivo del capitalismo borghese che tutto sussume, che tutto divora.
A me, a noi, tutto ciò interessava relativamente. Abbiamo mirato al cielo. Con mille errori, certo. Alcuni drammatici. Ma cosa credi? Che possa esistere una guerra senza morti e feriti? Una rivoluzione senza vittime né carnefici?
Non sono pentita. Non posso permettermi di esserlo, né di fronte alla storia né di fronte a mio figlio... Perché forse questa è l’unica eredità che posso lasciarti: sapere che il potere, qualsiasi potere, può essere combattuto. Credere che si possa ancora e sempre ribellarsi.

(Corrado Dottori, "La Musica Vuota". Edizioni Pequod, 2017)

sabato 28 aprile 2018

L'ebbrezza immaginifica di un vino paesaggio

Per una poetica oltre il feticcio "Natura".

Riporto qui il mio pezzo uscito per OperaViva Magazine: seguendo il link trovate l'intero focus sul libro di Simonetta Lorigliola edito da DeriveApprodi.


Se non è il vino dell’enologo, allora che cosa è? 
Un vino naturale? 
No, è un vino paesaggio! 


Nell’oceano sempre più vasto delle pubblicazioni – specialistiche e non – sul vino, il libro firmato da Simonetta Lorigliola spicca indubbiamente per importanza e profondità. C’è la storia dei Vignai da Duline, cioè di Lorenzo Mocchiutti e Federica Magrini. Ci sono la musica, i centri sociali, il vegetarianesimo come scelta politica, l’agricoltura come approdo di un percorso di biodiversità culturale. Ma anche – e soprattutto – c’è un arco narrativo in grado di mettere insieme il Dioniso crocifisso di Michel Le Gris, Terra e Libertà/Critical Wine (il libro manifesto) e, in modo tangenziale, Insurrezione culturale di Jonathan Nossiter. 

Nel pieno del dibattito estenuante e spesso stucchevole sul «vino naturale» e delle ipotesi su una legislazione in grado di «certificarne» l’essenza e rubarne lo spirito, Lorigliola scarta bruscamente di lato e torna in qualche modo all’origine. All’origine: cioè alla t/Terra. Ma anche all’origine, nel senso di inizio: il percorso con cui un vasto movimento, radicato nei centri sociali e promosso da un collettivo eterogeneo raccolto intorno alla figura di Gino Veronelli, riusciva a inserire il discorso sul vino (e dunque sull’agricoltura) all’interno di una più vasta riflessione politica e filosofica su origine, identità, globalismo, agro-ecologia, modelli di consumo e di sviluppo. 

E come dentro al percorso di Critical Wine raramente si faceva riferimento al vino «naturale», al vino «vero» e tantomeno al vino «biologico», essendo il problema tutt’altro, così dentro «è un vino paesaggio» questi stessi termini trovano ben poco spazio, e quando ne trovano è con una prospettiva piuttosto critica. D’altronde è la storia stessa dei Vignai da Duline a essere – essa stessa – «collaterale» a quella del movimento del vino naturale. 

Eppure, contemporaneamente, con una forza descrittiva ed una potenza evocativa non comuni, nel libro l’essenza di ciò che oramai è comunemente accettato come «vino naturale» in tutto il mondo emerge in modo affascinante, a partire dai nomi creativi dati alla pratica della non-cimatura (chioma integrale) e alla particolare forma di inerbimento/sovescio (mucca verde). Perché in definitiva Lorenzo Mocchiutti produce a tutti gli effetti del vino naturale! Allora dove sta la contraddizione? Dove l’incoerenza, se c’è? 

Essa è insita proprio nell’esigenza, classica di questi anni, di dover aggettivare (nominare, definire, esemplificare) ogni cosa, qualunque soggetto/oggetto. Ecco allora che il vino diventa «naturale», «vero», «biodinamico», «artigianale», «industriale», «convenzionale», ecc. Ma proprio queste definizioni complicano, anziché risolvere, il problema: perché in ultima istanza l’unica vera ragione di fondo non sta nell’identificazione di una pratica o di una coerente scelta produttiva, bensì nella creazione di una specifica nicchia all’interno di un altrettanto specifico mercato. 

Il capitalismo, ancora una volta! Per cui «l’agricoltura biologica, coi suoi prodotti, è divenuta una delle reginette più applaudite di una festa in declino che per decenni ha visto protagonisti la plastica e i derivati dal petrolio, oggi banditi dal consumo politicamente corretto» 1. Quella dinamica di sussunzione oramai nota per cui ogni alternativa, ogni salto in avanti, divengono slogan da televendita anni Ottanta o scatto super-cool sul profilo instagram: «Territorio e natura, insomma. Quasi un ossessivo richiamo al vino come elemento bucolico e baluardo di memorie perdute. Sono in crescita esponenziale coloro che dicono di produrre in questo modo. E soprattutto coloro che lo raccontano. Anche il vino ha le sue mode» 2. Fino all’assurdo – viene da aggiungere – di un Parco Divertimenti del Cibo Made in Italy come il farinettiano F.I.CO. di Bologna: il territorio e la natura si fanno Fabbrica Contadina. 

Dentro questa dinamica, volenti o nolenti, siamo inseriti tutti noi: chi produce, chi consuma e persino chi narra il vino (o l’agricoltura). Del vino naturale a breve si faranno un regolamento e un marchio, con tutto ciò che ne consegue in termini di valore (aggiunto). Ma possiamo immaginare la Rivoluzione francese senza la ghigliottina giacobina o la Rivoluzione d’ottobre senza il terrore rosso? E la realtà è che il solo uso dell’aggettivo «naturale» accostato alla parola vino, senza alcun dubbio, ha sancito un momento rivoluzionario. 

Come vignaioli non possiamo tirarci indietro. Dobbiamo accettare in pieno la responsabilità di aver usato il termine, di averne anzi abusato, di aver provato a scardinare un mondo del vino vecchio, putrido, insostenibile. Di averlo fatto attraverso teorie e pratiche agricole ma anche, e non se ne poteva fare a meno, attraverso lo spazio comunicativo che l’aggettivo «naturale» (insieme ai suoi tanti sinonimi) poteva e doveva aprire. Se oggi il vino naturale è divenuto solo marketing, solo nicchia di mercato, con tanto di lunga lista di vini mal fatti e di conseguenza poco piacevoli, non possiamo dimenticarne, però, l’effetto dirompente di decolonizzazione di un immaginario che in vent’anni aveva elevato l’enologo a nuovo Dio, la chimica a compagna di vita, un gusto piccolo borghese (di gomma e dopobarba firmato) a standard estetico. 

Era un passaggio ineliminabile, anche e soprattutto a livello concettuale, quello del vino naturale. Nell’epoca del dominio della tecno-scienza e nel momento della massima espansione/potenza planetaria dell’homo sapiens (in procinto di farsi homo deus 3), rimettere al centro del discorso sul vino la dialettica fra natura e cultura ha scatenato spazi giganteschi per una nuova ermeneutica. 

Ad esempio. Il vino non è un prodotto, è un testo. Ce lo suggerisce il filosofo Nicola Perullo: «il ruolo umano nella creazione del vino nella sua ultima fase – dalla vigna alla bottiglia, perché tutto ciò che vi è prima si perde in intrecci che non dipendono più direttamente da noi: progenie, elementi, antenati – è peculiare: è una maieutica. Chi fa vino è un maieuta…» 4

Molti studi antropologici ci hanno insegnato come il coltivare, l’allevare, il custodire appartengano alla storia evoluzionistica di homo sapiens; l’uso del fuoco per cucinare, del sale per dare gusto a certi alimenti 5, oltre che la costruzione stessa di utensili, hanno preceduto il vero sviluppo cognitivo e celebrale di homo erectus, smentendo il luogo comune per cui la tecnica sarebbe frutto di una intelligenza superiore. In questo senso «gli esseri umani sono una realtà bio-sociale molto più complessa della somma di due strati, uno naturale e uno culturale, e gran parte della nostra struttura fisica è in realtà il prodotto di un rapporto mai interrotto tra natura e cultura» 6

Il vino naturale (le sue pratiche agricole, il suo laissez-faire enologico, la sua ridondante aneddotica) è esploso a un certo punto come una supernova a ricordarci come «natura» e «cultura» siano in realtà il frutto di una classificazione tutt’altro che universale: sono astrazioni, e il concetto stesso di natura è sempre più costruzione culturale, non certo sinonimo di un’impossibile e oramai perduta wilderness. 

Vins nature, vins vivants: il fatto stesso della loro esistenza, della loro possibile grandezza – ancora oggi negata da molti – ha generato conflitto immediatamente, e lo genera di continuo: fra estremisti della tecno-scienza e bio-nazi, tra enologi di grido per cui tutto si risolve in molecole volatili e vecchi contadini resistenti, fra sommeliers dal gusto internazionale e giovani hipsters alla ricerca di odori e sensazioni forti. Ma come «superare il marketing del naturale. Andare oltre il vino naturale» 7

Nel saltare a piè pari il nodo del movimento «vinoverista», Simonetta Lorigliola – insieme ai protagonisti di questo libro – sembra indicarci il passo decisivo verso una possibile via di uscita. Il problema è la merce, ovviamente. Il vino viene aggettivato in quanto prodotto, merce, bene di consumo. Il vino naturale diventa subito feticcio, la biodinamica diventa brand, il biologico catena di supermercati. Tutto si risolve in comunicazione superficiale, facile, commerciale. 

Eppure chiunque abiti un vigneto, un ecosistema complesso, un paesaggio, sa che non funziona così. Alcuni dei capitoli più belli di È un vino paesaggio recitano: «Un territorio creativo», «Cervelli operai», «Cura e restauro», «Geografie immaginarie», «Sedimenti culturali». Una lingua del tutto diversa che spiega un lavoro completamente differente dalla catena della produzione/valore cui ci ha piegati il capitalismo lavorata. 

Si tratta, invece, del lavoro di un artigianista, come direbbe Jonathan Nossiter 8. E non è un caso che sia Federica, con lo sguardo delle scienze umane, a chiarire il punto: «Il vino è un contenitore in cui far confluire linguaggi diversi. Un territorio di sconfinamento. Un terreno di sperimentazione espressiva (…) Non mi interessa la banale accoppiata arte-vino, che non significa nulla. Per me è una esigenza psichica» 9

Dunque l’etica, certo (agro-ecologia, sostenibilità, biodiversità….). Ma anche, e direi soprattutto, l’estetica. Il piacere libero e gioioso. La creatività del tatto. L’ebbrezza immaginifica. Una critica del gusto che è anche critica dell’assaggio. Dopo Natura/Cultura la seconda diade, quindi: Etica/Estetica. A complessare ulteriormente il quadro. 

Serve davvero un nuovo linguaggio, un nuovo perimetro espressivo. Non bastano i passi già importanti compiuti dentro al movimento «naturalista», in qualche modo ancora inchiodati da una idea normativa – coercitiva – del prodotto finale. Qualcosa che spieghi, tutto quanto insieme, la mucca verde e il territorio, la geologia e la tecnica, il clima che cambia e le botti di quercia, la fermentazione spontanea e la selezione massale, il vignaiolo e il suo abitare un ambiente pulsante. Non un aggettivo. Un altro sostantivo, invece.  

Un vino paesaggio. Un vino che è geografia umana e storia naturale insieme. Un vino che è un’origine ben segnalata sulle mappe, ma che parla un linguaggio planetario. Un vino che è sì tecnica ma, in una elegia dell’ossimoro, si fa «tecnica naturale», processo infinito di dialogo fra processi biologici (la fotosintesi, la fermentazione) e gesti artigiani (la potatura, l’imbottigliamento). 

Un vino che è paesaggio, appunto: «Se è vero che in ogni atto di creazione è impossibile determinare quando cominci la tecnica e quando finisca la vita, quando il concerto trascorra nel viaggio, in quella creazione sempre rinnovata che si chiama paesaggio ciò è ancora più vero» 10. Non il paesaggio rurale toscano o provenzale a uso e consumo degli uffici turistici. No. Un paesaggio dell’anima che è politica ed estetica – insieme – nel suo stratificare secoli, millenni, milioni di anni di interazione tra animali (fra cui l’uomo) e ambiente. 

In questo senso, quindi, la storia ventennale dei Vignai da Duline, simbolo e paradigma di un intero movimento di vignaioli, insieme alle parole di Simonetta Lorigliola, sembra farsi primo Manifesto di questi vini paesaggio. Vini in grado di spezzare, in nome di una nuova libertà del gusto, il circolo vizioso dell’edonismo servile oggi dominante, per cui «Agli antipodi di qualunque forma di libertà, l’universo dell’edonismo moderno in realtà finisce con l’assomigliare al migliore dei mondi huxleyano, con i suoi piaceri ridotti al rango di sonniferi che irraggiano tutti i pori della società e mantengono i suoi membri all’interno di una servitù indolore» 11

Perché, come diceva una famosa battuta del film di Jonathan Nossiter Mondovino, «ci vuole un poeta per fare un buon vino». 

 NOTE
1. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, DeriveApprodi, Roma 2017, p. 75.
2. ↩ Ivi, p. 117.
3. ↩ Cfr. Y. Noah Harari, Homo Deus, Bombiani, Milano 2017.
4. ↩ N. Perullo, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, mimesis, 2018 Milano, p. 34.
5. ↩ Cfr. R. Cavalieri, Gusto. L’intelligenza del palato, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 84-93.
6. ↩ M. Aime, Cultura, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 35.
7. ↩ C. Dottori, Non è il vino dell’enologo, DeriveApprodi, Roma 2012, p. 100.
8. ↩ Si veda J. Nossiter, Insurrezione Culturale, DeriveApprodi, Roma 2017.
9. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, cit., p. 145.
10. ↩ M. Spanò, in Postfazione a È un vino paesaggio, cit., p. 186.
11. ↩ M. Le Gris, Dioniso Crocifisso, DeriveApprodi, Roma 2011, p. 167.

mercoledì 28 febbraio 2018

Dichiarazione di voto

Straziato da una campagna elettorale devastante nella sua mediocrità (detto da uno che non guarda neppure la televisione da sei anni), avevo deciso di non votare. Non che fosse una novità, mi è successo spesso, di non votare.
Stavolta l'avrei fatto con ancora più convinzione del solito, visto l'orrore in campo.
Quello che, però, sta accadendo nel ventre più profondo delle società italiane ed europee (verrebbe da dire: mondiali) necessita di una presa di posizione.
Serve a niente. Ma voterò antifascista. Come segnale, come inutile atto di resistenza (peraltro la mia intera esperienza politica è stata sotto questo segno, dunque ci sono piuttosto abituato. Con l'età nemmeno ci soffro più).
Voterò, però, con in mente due figure fondamentali - ed ovviamente sempre più dimenticate - dell'Italia e dell'Europa del passato recente: Alex Langer e Lucio Magri.
A loro voglio dedicare il mio "voto situazionista", il mio gesto inutile dentro una democrazia svuotata. A loro che molto avevano capito. A loro che sono morti entrambi suicidi perché gli era insopportabile vivere in un mondo che andava in una direzione opposta e contraria a quella del loro impegno politico e civile.
Ad Alex Langer, pacifista, verde, cattolico illuminato, che aveva visto chiaramente nel risorgere dell'odio etnico in Jugoslavia (e più in generale in Europa) e nella critica di un sistema economico inumano ed insostenibile i semi di una nuova crisi europea.
E a Lucio Magri, comunista libertario, che aveva perfettamente intuito la parabola finale di quel Partito Comunista Italiano, dal quale era stato prima espulso, poi riaccolto e infine disconosciuto nella corsa a perdifiato di PDS, DS, PD verso l'omologazione ed il centrismo interclassista.
In particolare mi piace ricordare, ai tanti di sinistra che ancora insistono nell'affermazione tatcheriana che "non c'era alternativa" (al mondo ad una dimensione, al pensiero unico, alla globalizzazione, al Mercato, alle "riforme", a "questa" Europa), che qualcuno, con grande lucidità e con un linguaggio ed un pensiero che dovrebbero appartenere sempre alla parola "politica", qualcuno aveva intravisto il percorso e l'approdo.
Per cui abbiate pazienza ancora un po' e leggete qui di seguito l'intervento di Lucio Magri contro la ratifica del Trattato di Maastricht nella seduta della Camera del 29 ottobre 1992.
Perché quel voto fu uno dei nodi di svolta della nostra storia recente. E piaccia o non piaccia, molti dei protagonisti di quella svolta siedono ancora in Parlamento (o ci vogliono rientrare), spesso raccontando le stesse balle a gli stessi illusi elettori di sinistra.
Le parole di Magri - ventisei anni dopo - sembrano scritte oggi e prevedevano con una lucidità disarmante  il diluvio che stava per arrivare.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Magri. Ne ha facoltà.

Lucio MAGRI. Signor Presidente, i deputati del gruppo di rifondazione comunista voteranno contro il disegno di legge di ratifica del trattato di Maastricht. In questa scelta siamo, qui ed ora, molto isolati, una esigua minoranza a fronte di uno schieramento quasi unanime.

Ancora qualche mese fa la nostra sarebbe apparsa una scelta di pura testimonianza, rilevante solo per chi la compie. Ma ora non è più così, anche se nel Parlamento, che su questo tema è avaro non solo di presenze ma anche di pensiero e di analisi non retoriche, si stenta a prenderne atto. Maastricht è infatti diventato all’improvviso un problema aperto. La Danimarca ha detto «no» al trattato; in Francia metà del paese ha fatto altrettanto; in Inghilterra la maggioranza degli elettori, se potesse esprimere il proprio parere, direbbe di no ed anche il parlamento, in questi giorni, traballa; in Germania l’opposizione è estesa, così come in Spagna.

D’altro canto, proprio nel momento in cui si decide di accelerare l’unità europea partendo dalla moneta unica e dalle banche centrali, esplode la crisi dello SME: le banche centrali vanno ognuna per la propria strada e le loro scelte vengono aspramente contestate. Solo l’arroganza del potere, che si coniuga al luogo comune e determina la stupidità come prezzo necessario, e solo l’opportunismo che ciò genera negli oppositori benpensanti possono dunque spiegare il fatto che le nuove evidenze degli accadimenti non abbiano prodotto, qui e nel paese, quanto meno una riflessione nuova, un’articolazione reale di atteggiamenti. A noi, al contrario, questi fatti impongono e permettono di chiarire meglio le ragioni razionali del nostro «no» e di considerarlo l’inizio di una battaglia che diventerà rapidamente incisiva e che può conquistare forze nuove.

Quali sono dunque, in sintesi, le ragioni del nostro «no»? Innanzi tutto, il rifiuto di una Europa che nasca con un segno marcatamente autoritario. L’unità nazionale è nata in connessione con i primi passi della democrazia moderna; non vogliamo che l’unità continentale corrisponda al suo declino.

Ma è questo che sta accadendo, già nel modo in cui il trattato è stato discusso e definito — un accordo cioè tra Governi rispetto al quale i parlamenti nazionali possono solo dire «sì» o «no» —, ma ancora di più nella struttura di potere reale che l’accordo produce. I veri centri promotori e regolatori del processo di unificazione sono e saranno il consiglio delle banche centrali e l’integrazione delle strutture militari. E, se mai, del tutto parzialmente, resta in campo una sede politica che può avere influenza su di loro, tale sede è quella del concerto dei Governi.

A questo punto, dunque, si ratifica e si conclude un processo che durava da anni, che è un processo di trasferimento di potere non solo dallo Stato nazionale al livello sovranazionale, ma, attraverso questo, dalle istituzioni direttamente legittimate dalla sovranità popolare ad istituzioni politiche auto nome o a puri poteri di fatto. Il ruolo di comparsa in cui è sempre più relegato il Parlamento europeo, proprio in quello che dovrebbe essere il passaggio dalla Comunità economica all’unione politica, simboleggia questa realtà rovesciata. E mi pare incomprensibile, anzi patetico, il discorso di chi vota il trattato augurandosi che si possa presto completarlo con istituzioni politiche democratiche: Maastricht va esattamente nella direzione contraria.

La seconda ragione del nostro voto non è meno importante, ma anzi lo è ancora più ed è soprattutto più trascurata. Il trattato non fissa solo delle regole e dei soggetti abilitati ad applicarle; fissa anche, direttamente e indirettamente, un indirizzo. L’indirizzo è definito in estrema sintesi così: il funzionamento pieno di una economia di mercato, ma non nel senso — badate — ovvio e banale del riconoscimento del mercato, bensì nel senso di una radicale e sistematica riduzione di ciò che sussiste di non mercantile, cioè di tutti quegli strumenti attraverso i quali le democrazie europee nell’epoca keynesiana, cioè dopo gli anni trenta e soprattutto dopo il 1945, avevano appreso a governare gli eccessi del gioco cieco del mercato.

Così è esplicitamente e rigorosamente stabilito che le banche centrali non possono finanziare il debito pubblico; che è vietato stabilire prezzi e tariffe privilegiate per imprese o amministrazioni pubbliche; infine, che si istituisce una moneta unica emessa da una banca centrale indipendente dalle istanze democratiche, così come lo erano prima della grande depressione o come lo è oggi la banca tedesca, di cui pure si critica l’ottusità deflazionistica. Ciò che si crea non è dunque solo un potere concentrato, ma un potere usabile in molte direzioni: è, nel contempo, una certa struttura ed una sua direzione di marcia.

Un discorso analogo, anche se meno pregnante, si potrebbe fare sull’unificazione militare. Anche qui, non c’è alcuna unificazione di progetti politico-economici, di politica estera, ma solo la creazione di un apparato che, per sua natura e composizione materiale, è rivolto a garantire possibilità di intervento per arginare crisi che nascono alla periferia dell’Europa e che non si sa come prevenire.

Non meno conta, però, l’indirizzo che si definisce in modo indiretto. Ad esempio, con la perdita dell’autonomia monetaria restano allo Stato nazionale gli strumenti della politica di bilancio, ma solo in parte ed apparentemente, perché le politiche fiscali non unificate sono vincolate, anzi, dalla circolazione libera dei capitali a farsi concorrenza nel senso di essere più permissive per attirare risorse. Vincoli monetari e vincoli fiscali si sommano così nell’imporre la via obbligata del contenimento strutturale e non congiunturale della spesa pubblica, degli investimenti sociali o comunque a lungo termine.

Tutto ciò ovviamente non è del tutto nuovo. Ieri il Presidente Amato ha riconosciuto con insolita franchezza che l’Italia vive ormai in un regime di sovranità limitata, e non solo l’Italia, se è vero, com’è evidente, che anche paesi come l’Inghilterra, che non hanno un grande disavanzo pubblico, o come la Svezia ormai sentono il peso di un potere esterno cui non riescono ad opporsi. Ma di questa sovranità limitata Maastricht è una sorta di ratifica, di legittimazione definitiva, e il prossimo prestito che l’Italia otterrà dalla Comunità comincerà a definire già il primo protocollo delle sue clausole. Non è allora esagerato dire che disoccupazione e taglio dello Stato sociale sono inerenti al contenuto del trattato; il prezzo scontato della linea di politica economica in esso implicita ma molto rigorosa.

Vengo così alla terza ed ultima ragione del nostro «no». Nella logica di questo tipo di unificazione europea (ecco il punto che si dimentica) è non solo prevedibile, ma fatale, la prospettiva dell’aggregazione selettiva delle aree forti e dell’emarginazione ed esclusione delle periferie e semiperiferie. Non è vero, e soprattutto non è vero in questa fase, che il gioco di mercato, la supremazia dei parametri finanziari, la priorità del cambio tendano a promuovere un allargamento della base produttiva. Anzi, è evidente proprio il contrario: in assenza di politiche attive di sviluppo, le aree più deboli, financo all’interno dello stesso paese, regrediscono.

E così, mentre si solidifica un centro forte che tende ad attrarre ed integrare regioni limitrofe anche fuori dalla Comunità, si emarginano interi paesi più deboli.

La linea di confine — lo sottolineo — tra i due processi attraversa nel profondo la realtà italiana, il nord e il sud. Cosicché, se da un lato è probabile che l’Italia nel suo insieme non sia in grado di rispettare gli esorbitanti vincoli posti da Maastricht per il 1997, e sarà dunque costretta ad una rincorsa insieme affannosa e perdente, dall’altro lato in questa prospettiva dell’Europa a due velocità troviamo una chiave di lettura ed un moltiplicatore travolgente delle spinte secessioniste nell’Italia, nel prossimo futuro.

Maastricht non promette allora l’unità dell’Europa, ma in compenso promuove la divisione dell’Italia e, più in generale, una moltiplicazione, che già si registra ovunque, di spinte, passioni, interessi localistici e di subculture nazionali. Non è un passo imperfetto e parziale verso l’unità europea, ma il rischio della sua crisi.

C’era e c’è un’altra strada? C’era, a mio parere, e c’è. È quella coraggiosa di una costituente politica europea che produca insieme istituzione e soggetti politici unitari e democratici. È quella, dall’altra parte, dell’unificazione delle politiche economiche effettive come strumento di sviluppo orientate sulla priorità dell’occupazione, del risanamento ambientale, dell’allargamento della base produttiva regionale. Ma per percorrerla occorrerebbe costruire una sinistra politica e sindacale, riconquistare un’autonomia culturale rispetto alla genericità retorica dell’europeismo degli ultimi anni.

Su questo terreno il ritardo è però grandissimo.

C’è, e opera, un soggetto politico culturale forte, organizzato nel capitale internazionale. Esso ha i suoi strumenti nella circolazione dei capitali, addirittura una lingua propria: l’inglese impoverito dei managers.

La sinistra invece, e in generale le forze politiche democratiche, come soggetto europeo quasi non esiste. L’Internazionale socialista è ormai un involucro in gran parte vuoto. L’Internazionale comunista non c’è più, quella verde non è decollata, un’Internazionale cattolica non è mai esistita. Ecco, a maggior ragione, occorre per questo trovare un punto di partenza da cui invertire una tendenza, da cui risalire una china che porta ad una unità dimidiata e ad un’unità dai contenuti che ho descritto.

Il problema, per noi, è allora proprio questo. Il «no» a Maastricht e la lotta contro le sue conseguenze nei prossimi anni saranno una battaglia che permetterà di cominciare a costruire un’Europa diversa, un Europa democratica nelle sue istituzioni, socialmente definita nei suoi traguardi e nei suoi obiettivi.

Le ragioni del nostro «no» sono dunque contestuali ad un «sì» per un’Europa diversa. E constatiamo con grande stupore come tanta parte della sinistra italiana, su questo terreno, non abbia saputo trovare quanto meno gli accenti di una diversità, di un’alternativa. Come si fa a volere un alternativa in Italia, con questa ammucchiata senza forma sui grandi temi delle prospettive dell’Europa?

martedì 21 novembre 2017

La Musica Vuota, dal 7 dicembre in libreria

Edoardo Alessi, consulente finanziario di successo in crisi di identità, ritrova sette scatoloni pieni di diari, fotografie e lettere, conservati nella casa di montagna dei nonni paterni. I suoi scritti di gioventù si mescolano con le memorie del padre adolescente e rivoluzionario a formare una strana commistione di storie mai raccontate, sensi di colpa e recriminazioni. Il racconto di una storia familiare complessa. L’assenza dei genitori, militanti di estrema sinistra negli anni di piombo, tormenta Edoardo spingendolo a ricostruire il proprio passato e quello di un padre poco conosciuto, a cui lo lega una passione sfrenata per la musica rock. Un album in particolare, Exile On Main Street dei Rolling Stones, ritorna in maniera circolare a scandire i momenti salienti del romanzo, potentissimo catalizzatore in grado di innescare una continuità culturale e politica tra due mondi. Perché Edoardo, dopo un’adolescenza da militante nei movimenti studenteschi, spesa tra contestazione nei centri sociali, feste e concerti rock, è diventato ciò che non avrebbe mai voluto essere, un private banker? Tra viaggi in California, Marocco e Messico, tra affetti del presente (il vecchio amore mai dimenticato Maria e l’attuale bellissima compagna Raffaella, l’amico di infanzia Ceska) e di un passato che a volte incombe (il padre morto, la madre latitante, i nonni che lo hanno cresciuto e infine Joe, suo zio), La Musica Vuota è una sorta di memoir di un’intera generazione a cavallo e in bilico tra due secoli.

Guarda qui il booktrailer:


giovedì 20 giugno 2013

sabato 16 marzo 2013

Non è il libro dell'enologo

Sono passati quasi cinque mesi oramai dall'uscita di "Non è il vino dell'enologo - Lessico di un vignaiolo che dissente". Sono stato parecchio in giro a raccontarlo, spesso nei luoghi della contro-cultura politica, enologica, culinaria. Altre presentazioni seguiranno, anche se il calendario subirà un fisiologico rallentamento dovuto al lavoro.
Sono stato colpito dalle reazioni che il libro ha suscitato. Non tanto dalla critica, sempre molto benevola, fin troppo; né tanto dalla grande visibilità o dal piccolo successo di vendita che il testo in questi pochi mesi ha riscontrato. Quello che davvero non mi aspettavo è stata la reazione dei lettori. 
In questi mesi ho ricevuto mails, telefonate, lettere scritte a mano, inviti un pò da ogni regione d'Italia. E in ognuna di questi contatti umani c'era una emozione vera, una sensibilità profonda, quasi una commozione sincera verso le pagine di questo libro. Come se davvero avessi toccato nervi scoperti e destini tempestosi. Come se veramente sia stata percepita l'irrevocabile urgenza nascosta in quei lemmi scritti un pò per caso e un pò per necessità.
Insomma, è stato bello. E vi abbraccio idealmente tutti.  

domenica 6 gennaio 2013

T come Terroir



Il mio terroir è una piccola striscia di terra rivolta a mezzogiono.
Là dove milioni di anni fa c’era il mare, oggi c’è una distesa di colline che si inseguono sinuose. Alle spalle c’è Cupramontana, di fronte Staffolo, in lontananza Cingoli, mentre netta si staglia la figura del monte San Vicino a segnalare la vicinanza degli Appennini.
La terra è un’argilla multiforme: zone di vera e propria creta bianca, dove domina il calcare, si alternano a lingue di arenaria giallastra e di marne azzurre, specie più in profondità. Su questo suolo, compatto e povero di sostanza organica, nascono vini potenti, strutturati e salati.  
Qui si è sempre fatto vino. La storia della viticoltura potrebbe essere una narrazione affascinante e parallela alla storia ufficiale del nostro paese. Dai romani al medioevo, passando attraverso la storia del monachesimo e dell’agricoltura di sussistenza, fino alla rivoluzione industriale ed al nostro tempo contemporaneo, ogni stagione ha avuto il suo vino, la sua organizzazione aziendale, i suoi metodi.
Il terroir non è un ideale ma un dato storico mutevole. E’ suolo e microclima; è vitigno e tecnica colturale; è fatto economico e culturale che segna l’identità locale in modo profondo. Il rischio è che diventi localismo becero e chiuso, quando la sua potenza sta invece nella ricchezza delle diversità, sorta di straordinario meticciato culturale.
Non ho mai capito perché in primavera solo in questa striscia di terra, che appartiene alla mia famiglia da circa ottanta anni, fiorisca un prato di tulipani rossi selvatici. Nelle vigne vicine no. A sinistra qualche fiore bianco, in mezzo alla terra lavorata in modo convenzionale. A destra principalmente fiori gialli, su un terreno a conduzione biologica come il mio. Non so se è da considerarsi fenomeno del terroir. Forse sì.
Certamente da sempre questo è stato considerato a Cupramontana un cru naturale. Si ritrova nei documenti storici e nelle narrazioni orali. Zona “da sole”, priva di ristagni di umidità. Con un’ottima ventilazione ed una buona altezza sul livello del mare a garantire escursioni notevoli fra il giorno e la notte.
Si vendemmia prima che altrove, in contrada San Michele. Ed i vini sanno di erbe aromatiche e scorze d’arancio.

Non è il vino dell'enologo - Lessico di un vignaiolo che dissente, Ed. DeriveApprodi    



martedì 27 novembre 2012

G come Gusto


C’è una matrice comune ad ogni forma estetica dell’oggi, a volerla cercare. E’ l’assoluta preponderanza dell’aspetto tecnologico. Il dominio della tecnica. Così come vengono “costruiti” i cantanti di successo dentro a vere fabbriche della canzone pop che si basano sul digitale e sulla computerizzazione della musica, così si fabbricano i vini attraverso protocolli enologici rigidi ed omologanti incentrati sulla chimica e sulle tecnologie dell’industria alimentare. E’ il vino al tempo della sua riproducibilità tecnica, per dirla con Michel Le Gris. Un vino figlio del suo tempo che si basa su di un gusto omologato. E se per caso il gusto cambia, perché qualche innovatore sposta l’attenzione verso qualcosa di nuovo, che problema c’é? Ci si adegua. Perché qualunque ricetta oggi può essere adeguatamente replicata.
Ma non basta. E’ anche la possibilità di una distribuzione immediata su larga scala, a creare le condizioni per cui tutto deve essere facilmente “consumabile” e comprensibile. E’ la cultura pop, bellezza.
Così un gusto “medio”, paradigmatico, borghese ed innocuo si fa pietra di paragone del bello e del buono. E devianza è ciò che a questo gusto non rassomiglia. Oppure difetto. Al massimo “alternativo”, se si vuol creare una nicchia da spremere.
Ed allora capita che dopo ottomila anni di vinificazioni l’uomo moderno salga in cattedra a dire che cosa sia il vino e di cosa debba sapere. E gli enologi ed i sommeliers prima di tutto cercano il difetto, nel bicchiere, non la fatica dei contadini.

"Non è il vino dell'enologo - Lessico di un vignaiolo che dissente" - ed. DeriveApprodi

lunedì 23 luglio 2012

Festa mesta

La domanda è: come è possibile che Einaudi abbia pubblicato un libro insulso, brutto e inutile come Che la festa cominci di Niccolò Ammaniti?
Io capisco che un buon scrittore, come è l'autore di Ti prendo e ti porto via, possa fare un passo falso. Essere in crisi. Non riuscire a scrivere una nuova storia credibile e affascinante. Quello che è inconcepibile è che una casa editrice che rappresenta la storia della letteratura e della cultura italiane si sia prestata ad una pubblicazione del genere. Pare la fotografia di questa Italia che non riesce a risollevarsi: ma se cede anche la cultura, allora siamo davvero finiti. Einaudi non può pubblicare roba simile. Ve ne regalo una briciola. Per capire di cosa sto parlando:

- Sono uscita da una storia difficile con un tipo che si voleva male. In altre parole, uno stronzo. E io dietro a lui ho rischiato di morire. Mi hanno salvato la comunità di don Toniolo e la fede.
Mentre Larita parlava, Fabrizio si ricordò di aver letto da qualche parte che lei era stata fidanzata con un cantante tossico e che per poco non erano morti di overdose.
- E poi una volta tornata alla vita non ho avuto il coraggio di farmi altre storie. Ho paura di incontrare un altro stronzo. Anche se stare soli, alle volte, è un pò triste.
Fabrizio la tirò a sé e le cinse la vita. - Noi due potremmo stare bene insieme. Me lo sento.

Agghiacciante. Cesare Pavese si rivolta nella tomba. Ma dico, non c'era un editor, un direttore editoriale, un correttore di bozze che si sia posto la questione della qualità di questo romanzo? Perché io capisco il pulp, capisco la farsa, capisco il grottesco... Ma penso ancora che tutto ciò che pubblica un editore come Einaudi dovrebbe avere in sé un potenziale di bellezza fuori dal comune. Altrimenti meglio lasciar perdere.

 

venerdì 13 gennaio 2012

Keef

Il libro definitivo. L'autobiografia di Keith Richards, Life. Una vita di rock'n'roll. Una vita oltre. Un libro fantastico, che racconta un'epopea, una cultura. Un mondo che non c'è più, di cui lui è stato l'autentico simbolo. Riff incredibili, avventure da cineteca, storie di donne e stupefacenti e ribellioni, il blues di un'anima scatenata. E poi le accordature aperte, le canzoni scritte con Jagger, le fughe in Marocco ed in Francia. Poi non resta che metter su Exile on main street e cantare a squarciagola.



...Ma che fine ha fatto l'auto? Noi l'abbiamo lasciata in quel garage, piena di droga. Mi piacerebbe sapere che fine ha fatto la roba. Forse nessuno ha mai rimosso i pannelli. Forse qualcuno la guida ancora, imbottita di stupefacenti...

...Il mondo non suscitava in noi altri interessi all'infuori degli stratagemmi per non perdere la fornitura dell'energia e sgraffignare qualcosa da mangiare al supermercato. Le donne erano solo al terzo posto della lista. Luce, cibo e poi, ehi, sei stato fortunato...

...La scrissi nel sonno Satisfaction. Non avevo la minima idea di averla scritta, ma grazie al cielo avevo un piccolo registratore a cassette Philips. Quella mattina lo guardai, per miracolo, ricordando di aver inserito una cassetta nuova di zecca la sera prima, e vidi che era alla fine. Premetti il tasto di riavvolgimento e trovai Satisfaction. Solo un'idea sommaria... Poi, quaranta minuti di me che russavo...

...Un'epopea di quel periodo fu il viaggio in auto a base di acidi che feci con John Lennon - un episodio di tale sregolatezza che riesco a malapena a evocarne un frammento... Io e Johnny eravamo talmente fusi che perfino anni dopo a New York alle volte lui mi chiedeva: "Cosa è successo in quel viaggio?"... Con noi c'era una ragazza molto dolce... Di recente l'ho consultata per questo libro, e la sua rievocazione differisce non poco dalla mia...

...La levitazione è probabilmente ciò che più s'avvicina, per analogia, a quel che provo - che si tratti di Jumpin' Jack, di Satisfaction o di All down the line - quando mi accorgo di aver centrato il tempo giusto, e tutta la band è dietro di me. E' come decollare... La gente mi dice: "Perché non smetti?". Ma io non posso andare in pensione finché non tiro le cuoia. Non credo che la gente capisca cosa sento. Non lo faccio per i soldi, o per voi. Lo faccio per me...

...Di fronte a Mick non mostrai alcuna reazione riguarda ad Anita. Decisi di vedere come le cose si sarebbero concluse. Non era la prima volta che entravamo in competizione per una bambola... Ma, sai, mentre tu ti divertivi, bello, io mi scopavo Marianne. L'avevi lasciata sola, toccava a me consolarla. Anzi dovetti sgattaiolare via di fretta, quando l'amico tornò a casa... Udimmo la sua auto parcheggiare di sotto, ci fu un gran trambusto, io mi sporsi dalla finestra, recuperai le scarpe e me la svignai attraverso il cortile, accorgendomi di aver dimenticato le calze. Bé, Mick non era il tipo da mettersi a cercare le calze. Io e Marianne ci scambiamo ancora questa battuta. Lei mi manda dei messaggi: - Non ho ancora trovato le tue calze...In ogni caso Anita non si divertì con quel pisellino striminzito. So che Mick ha un paio di coglioni enormi, ma non compensa il resto, giusto?...

mercoledì 3 agosto 2011

Il piccolo aviatore


Era la sera dell'8 maggio 1982 quando il telegiornale diede la notizia della morte di Gilles. Per me, come per moltissimi altri, era una divinità, un eroe, una figura mitologica. Non era possibile, non era giusto. Avevo dieci anni, mi chiusi in camera, mi sdraiai sul letto e piansi disperatamente. Forse l'ultimo pianto da bambino. Fu la prima e definitiva presa di coscienza dell'esistenza e della irrevocabilità della morte; in qualche modo uno spartiacque.
Ho appena finito di leggere "Il piccolo aviatore" di Andrea Scanzi. Un bel libro che ripercorre la vita di Gilles, la sua follia, il suo romanticismo. Quel folle sogno, che fu di James Dean e di Jim Morrison, di superare il limite, di vivere sempre all'estremo, di varcare le porte della percezione. Controllare l'incontrollabile, sfidare la ragione: forse per questo dopo Gilles mi sono piaciuti piloti diversi. Non Senna, non Mansell, non Hamilton. Perché di Gilles non ce ne saranno mai più e allora tanto vale gustarsi la razionalità dei Prost, degli Alonso, dei Button.
"In quella gara la Ferrari aveva montato un motore sperimentale sulla sua macchina. C'era solo quell'unico esemplare, era importante rimanere in gara molti giri, per provarlo.
Forghieri chiese a Gilles di non curarsi del Gran Premio: dimenticati il piazzamento, pensa solo a collaudare il motore per 300 chilometri. Villeneuve disse sì. Ma superò quattro macchine alla partenza. Poi cercò di superare la quinta. La quinta era l'Alfa di Giacomelli. La centrò in pieno. Volò prima in aria, poi sulle gomme di protezione della curva Tarzan.
Non aveva percorso neanche un chilometro".
  

mercoledì 9 marzo 2011

Un vino, un libro, un disco

A smentire che in fatto di vino si debba ragionare secondo categorie preconcette l'assaggio di qualche giorno fa: The hess collection Napa Valley Cabernet Sauvignon 1997. Sì, avete capito bene, un gran vino della California. Bene: nessuna nota di legno, alcool limitato a 13 gradi alcolici, nessun sentore di sovramaturazione, nessun tannino sovra-estratto. Invece un naso rappresentativo del vitigno, con note speziate evidenti, solo leggermente virate verso le pirazine, delicato, fine, dove una nota balsamica intrigante fa da contrappunto ai frutti rossi, ciliegia matura sopra tutti. Ed è in bocca a sorprendere. Tannini setosi, facilità di beva, grande freschezza, il tutto a sostegno di un frutto scorrevole e pieno. Grande boccia, affascinante, e un grazie a Luciano che me l'ha regalata.
Ho letto, e consiglio vivamente, Stati Uniti d'Italia, antologia di scritti di Carlo Cattaneo a cura di Norberto Bobbio. Libro pensato nel 1946 per un'Italia appena uscita dalla guerra e che ripensava se stessa. Scritti sul federalismo democratico per capire cosa davvero si debba intendere per federalismo, al di là degli slogan facili e delle convenienze politiche.
Non riesco a togliere dal lettore Cd Sigh no more dei Mumford&Sons: folk rock esaltante, canzoni magnifiche, ritornelli portentosi, ritmi da ballare. Suonato e cantato benissimo, è un discone veramente straordinario di una band che mi piacerebbe proprio vedere dal vivo.    

lunedì 19 luglio 2010

Pietre colorate

E' da poco uscito il nuovo numero di Pietre Colorate . Si tratta di una nuova pubblicazione che parla di vino. Anzi: di terra, radici e mani. Io ve lo consiglio. Non perché mi sia stato chiesto di scrivere l'editoriale di questo numero. Ma perché è una bella rivista. Bella la carta, belle le foto, bella la grafica. C'è bisogno, con tutta la grettezza e la bruttezza che ci circonda, di tornare alle cose belle. Belle nel senso lato che c'è nella purezza, nell'idealismo, nella diversità. Nella competenza. Ecco, in questa rivista c'è l'approccio all'agricoltura che più mi piace, quello che fa rima con cultura, quello che lascia parlare i sentimenti più che i duecentosettansei descrittori organolettici di un vecchio Borgogna.  

venerdì 16 luglio 2010

Altai

Bello, bello, bello. L'ultimo libro del collettivo Wu Ming (quelli di Q, 54, Manituana).
I grandi bivi della Storia. Le scelte ed i sogni dei perdenti. Il nostro mondo che affiora in trasparenza dentro altri luoghi ed altri tempi. Libri, cultura, scienza e la loro influenza sulle civiltà umane. Ritmo, ritmo e ancora ritmo. Tutto ciò è Altai. Dal nome di una razza di falchi da caccia.

giovedì 13 maggio 2010

Elemento acqua

Mi accorgo di avere trascurato un pò questo spazio, ultimamente. Molti gli impegni che si sono accavallati. Imbottigliamenti, spedizioni, ripetuti tagli d'erba, sistemazioni d'agriturismo, sistemazioni di cantina, adempimenti burocratici, l'orto. Due figli sempre più attivi. E poi l'organizzazione della quarta edizione di Musica Distesa.
Le giornate sono dominate dall'elemento acqua. Organizzare i lavori di campagna diventa difficile. Sogno un paio di giorni solo per me, lontano. Leggero. Ho letto un libello interessante. Che fare? Trattatello di fantasia politica a uso degli europei di Daniel Cohn-Bendit, ore leader di Europe-Ecologie  e già leader dei Verdi tedeschi e del maggio francese. Una boccata d'aria nel marasma del dibattito nostrano.
Nel frattempo ho rilasciato interviste (qui ) e dichiarazioni spontanee (qui ).

giovedì 28 gennaio 2010

Giornate invernali

Stamattina -4° ed una gran gelata che ha irrigidito la poca neve scesa l'altro ieri. Freddo secco, come piace a me, tagliente. Tutto fermo in vigna. Poco male, siamo già a metà delle potature. Ne approfitto per qualche consegna, per sistemare la solita mole di burocrazia, per qualche manutenzione in cantina.
Prima che arrivassero i bimbi Valeria ed io passavamo queste giornate invernali chiusi in casa, ben coperti, che all'inizio i soldi non c'erano ed il riscaldamento era spesso spento, a leggere libri, bere camomilla bollente e dormire più del solito. Ora ci resta quel poco tempo fra la nanna dei bimbi e la nostra, unico momento di tranquillità in una casa altrimenti sospesa nel caos. E' allora che ne approfitto per leggere, più voracemente del solito. Gli articoli più interessanti di Internazionale, oppure gli amati libri.
La montagna ed io di Alexander Huber è un fantastico libro sull'arrampicata, sull'amore perverso e folle per uno sport che ho praticato e che vorrei ritrovare prima o poi lungo il mio cammino. Scritto dal più forte arrampicatore di questi tempi, ti inchioda, ti porta in luoghi strani e mitici, ti fa tremare e rabbrividire, ti fa anche un pò sognare.
Comunisti immaginari di Francesco Cundari è un irriverente e sarcastico racconto, molto ben documentato, della storia dei comunisti italiani, da Gramsci fino al PD. Lungo un percorso segnato da frasi e parole chiave, si ripercorre la storia dei compagni che venivano da lontano e volevano andare lontano. Solo che si sono persi e non sanno bene il perché.
Il mercante di utopie di Anna Sartorio è la biografia di Oscar Farinetti, l'ex proprietario dell'impero Uni-Euro, poi inventore di Eataly ed ora proprietario di diverse prestigiose aziende vinicole. Una storia bella, un libro molto ben scritto, lo spaccato di un'Italia che non c'è più. Un unico appunto: non riesco a scorgere l'utopia nella vicenda di un imprenditore di successo, anche se di sinistra. Ma questo credo sia un mio problema.
In viaggio contromano di Michael Zadoorian è un bel romanzo, triste, ma tremendamente originale e intenso. Un bel giorno due anziani coniugi, malati entrambi, decidono di lasciare la loro casa middle class fuori Detroit e lasciarsi tutto alle spalle: medici, figli troppo preoccupati, agi borghesi. Salgono sul loro vecchio camper e si immettono sulla route 66 per un viaggio lungo le strade d'america e fra i ricordi di una vita intera.

sabato 19 dicembre 2009

La prima neve

Proprio in questo momento ci sono quattro caprioli che corrono e saltano in mezzo alla neve a 50 metri dalle finestre di casa. Mio figlio è ovviamente impazzito. Per la terza mattina di seguito ci siamo svegliati con la neve, neve dicembrina che si scioglie piuttosto rapidamente. Il lavoro rallenta ed anche Giulia pare finalmente allungare i propri sonni mattutini.
Negli ultimi tempi ho letto: A perdifiato di Mauro Covacich, gran bel romanzo su maratona, innamoramenti repentini e crisi; L'ombra di quel che eravamo di Sepulveda, nostalgico, disincantato, emozionante racconto del Cile che fu; Le vin au naturel di François Morel, centratissimo percorso attraverso i concetti ed i protagonisti del vino naturale.
Ascolto: The Black Keys, Sufjan Stevens, The Mars Volta. Roba proprio strana e proprio bella. 

mercoledì 2 settembre 2009

Gli economisti, brutta razza.


In agosto ho letto un paio di buoni libri. Qualunque cosa succeda è il libro del figlio di Giorgio Ambrosoli, quel Betò conosciuto al Liceo Manzoni, a Milano, con cui ricordo di aver condiviso gite di classe e un pò di politica liceale. Il libro è scritto molto bene, alterna un preciso e puntuale discorso storico sulla vicenda Sindona/Ambrosoli ad un piano più personale ed intimo, toccante ma sempre ben calato nella vicenda, senza alcun cedimento retorico o banalizzante. Sullo sfondo emerge l'Italia di quegli anni. Così simile, e così diversa, nei suoi difetti e nei suoi problemi, all'Italia di oggi. A cominciare da un intreccio fra politica ed economia troppo spesso malavitoso.
Estate 2009 davvero difficile per gli economisti, che pagano la crisi e le errate previsioni degli anni passati. Le critiche vengono da lontano e rivolte da più parti, ma negli ultimi mesi si sono intensificate con la "condanna" al processo istruito al Festival dell'economia di Trento, con diversi articoli su blog e giornali, con gli strali del Ministro dell'economia Tremonti che ha recentemente intimato il silenzio all'intera categoria. 
Processo agli economisti è un libro che racconta la disfatta della categoria, facendo chiarezza su alcuni lati oscuri, mettendo in luce le gravi incongruenze di una scienza che scienza del tutto non è. Spesso con una vena ironica che rende il libro anche assai piacevole. Specie quando riporta i giudizi e le frasi dei vari "guru" del neoliberismo e del "mercatismo" degli ultimi anni.
Così, ad esempio, parlò Francesco Giavazzi, già mio professore di Politica Economica in Bocconi, stimato editorialista del Corriere, più volte candidato alla poltrona su cui siede Giulio Tremonti: "La crisi del mercato ipotecario americano è seria, ma difficilmente si trasformerà in una crisi finanziaria generalizzata. Nel mondo l'economia continua a crescere rapidamente. La crescita consente agli investitori di assorbire le perdite ed evita che il contagio si diffonda" (il 4 agosto 2007). Nemmeno Tremonti, però, può sorridere. Economista proprio non è, ma nemmeno lui, infatti, ne esce granché bene.
Quanto a me, io il mio processo agli economisti l'ho fatto una quindicina di anni fa. Quando, più o meno dopo gli esami di macroeconomia avanzata ed econometrica, mi sono trovato a chiedermi quale fosse il senso di tutte quelle complicatissime formule, equazioni ed integrali, e se davvero quella fosse la strada per capire come funzionasse il mondo. E magari per migliorarlo.
E mi risposi che no, tutta quella matematica e tutta quella astrazione erano semplicemente parte di un modello, di un paradigma scientifico, di un sistema di pensiero. E che quel modello era perfettamente funzionale a chi deteneva, e detiene, il potere politico e finanziario. E che chi si poneva in modo critico nei confronti di quell'approccio era considerato un deviante, fuori dal tempo, nostalgico di un mondo scomparso. 
Tutto ciò per dire cosa? Semplicemente che il problema non sono "gli economisti" (che sarebbe come dire "gli avvocati" o "i medici"). Il problema è il paradigma, il modello, il quadro di riferimento. Sarebbe ora di una bella rivoluzione scientifica in economia. Sarebbe ora che qualcuno dei devianti, magari di quelli che la crisi l'avevano prevista, salga davvero sul ponte di comando. 
Non avverrà. A nessun governo conviene un deviante come Ministro del Tesoro. Ecco perché l'economia non sarà mai una scienza.