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mercoledì 24 novembre 2021

Appunti sparsi. Noi. La vendemmia 2021. I prossimi tempi.

Mentre una fitta nebbia ci impedisce di continuare la raccolta delle olive - ce ne sono tante e belle - alcune riflessioni si rincorrono, sfuggenti, da qualche tempo.

I vini della vendemmia 2021 riposano nelle vasche e nelle botti. A parte qualche residuo zuccherino qua e là, sono buoni. Alcuni sono molto buoni. È stata una vendemmia piuttosto veloce nei tempi di raccolta e molto lenta nelle fermentazioni, come era prevedibile. Una vendemmia molto diversa dalla precedente che era stata disastrosa soprattutto per quanto riguardava il mio approccio. Se infatti ero uscito dalla 2020 con dubbi e insicurezze, con una sorta di incapacità di giudizio e di azione che mi pareva assurda dopo ventidue vendemmie, con questa vendemmia ho riscoperto il piacere della vinificazione. Intendiamoci: è sempre qualcosa di piuttosto masochista, con le notti insonni e tutto quanto... Ma in qualche modo mi pare di aver recuperato il senso più profondo del mio lavoro.

Il microscopio. 

In qualche modo il microscopio è stata la chiave. Non che il microscopio in sé possa risolvere i problemi. Però quel che è successo è che si sono come disciolte molte delle incrostazioni ideologiche sul "naturale" che in questi anni si erano progressivamente stratificate in me, in noi. Da un lato il microscopio mi ha letteralmente riportato proprio dentro alla Natura. Dall'altro mi ha sganciato finalmente dalla retorica del "Naturale". Sembra una contraddizione ma non lo è. Penso ad esempio al bellissimo libro di Christelle Pineau "Cornoletame e microscopio" in cui si fa una approfondita analisi antropologica del movimento del vino naturale.


Osservare l'estremamente piccolo, il microcosmo di lieviti e batteri, mi ha guidato verso riflessioni più macro, su questo nostro mondo incastrato nella pandemia, preda di rancori, paure, muri. È stato un viaggio in qualche modo catartico, e lo è ancora. 

Osservare la vita microscopica e le sue influenze sul nostro lavoro, sulle nostre vite; immaginare il virus come fosse un lievito. E poi pensare alle nostre società. Alle nostre aziende. Alle nostre istituzioni. Al nostro ambiente. Pensare a come tutto sia collegato e a come tutto sia estremamente fragile.

La realtà è che mi sto progressivamente allontanando dal "vino naturale". Da sempre ho criticato certi atteggiamenti e valutato i rischi di alcune operazioni. In tempi non sospetti: sia nei libri, che in vari contributi web (solo una selezione per chi fosse curioso: qui qui e qui). Nonostante questo ci ho creduto e continuo a pensare che quella rivoluzione sia stata foriera di un più ampio rinnovamento del mondo del vino tout court. 

Eppure oggi l'esplosione stile supernova del "naturale" e il suo enorme successo mi sembrano in gran parte una rappresentazione già vista, vecchia. Con tutte le sue narrazioni, i suoi selfie, le sue forzature, le sue bottiglie feticcio, i suoi influencer, il suo circo e i suoi circoli e le sue falsità belle e buone. Proprio nel momento in cui i nodi della catastrofe ecologica che ci circonda vengono definitivamente al pettine, proprio quel mondo, il nostro mondo, balbetta parole come "sostenibilità" e "biodinamica" ma in fondo in fondo è del tutto silente. E politicamente ininfluente.

Peggio. Una parte del movimento si dimostra, rispetto alla pandemia in atto, dubbiosa nei confronti della scienza quando non apertamente negazionista e cospirazionista. Il che fa il paio - devo dire in modo coerente (non me ne ero mai reso pienamente conto) - con una idea di agronomia e di enologia che si allontana sempre di più da una qualsivoglia ragionevole base scientifica. (Che poi il mondo scientifico sia pieno di problemi questo è un altro piano del discorso e qui nessuno si è mai tirato indietro rispetto ad una critica serrata alle sue distorsioni). 

Mi chiedo: cosa fare di fronte a tutto questo disagio? E la risposta è complicata, difficile.

Forse ritirarsi e decrescere. Ri-educarsi. Fare politica attiva. E piantare un sacco di alberi. 

Questo è ciò che abbiamo fatto ed è ciò che continueremo a fare. Che il vino, in fondo, è sempre stato solo una scusa. 

venerdì 8 gennaio 2021

Sulla moda degli Orange Wines

Ho iniziato a sperimentare le macerazioni di uve bianche nel 2003/2004. Ero ovviamente esaltato dai primi assaggi di vini che mi apparivano rivoluzionari. Gravner, Radikon, Damijan, Zidarich. E poi La Stoppa e Maule. Comprai anche un'anfora e insieme ad Alessandro Fenino (Pievalta) facemmo un esperimento di macerazione di tre mesi di uve Verdicchio di una vigna che seguivamo nei fine settimana. A ripensarci oggi mi viene da sorridere. Il vino alla fine non ci piacque granché.

Andai avanti con gli esperimenti fino alla nascita del Nur. Quando nacque, nel 2006, qui in zona la tipologia era una novità assoluta. Ma, si sa, io ero quello strano. Quando nel 2010 la guida de L'Espresso lo premiò con l'eccellenza fu una cosa piuttosto straordinaria perché fino ad allora qui venivano considerati solo i Verdicchio classici, quelli moderni, color paglierino chiarissimo e verdolino. Figuriamoci un vino a maggioranza Trebbiano che si presentava color ambra! 

Oggi gli Orange Wines sono esplosi come moda planetaria. Se ne fanno in tutto il mondo e con tutti i vitigni. Il bel libro di Simon Woolf "Amber revolution" ha contribuito a far uscire dalla "nicchia" una tipologia che partendo dalla sua patria di elezione, la Georgia, aveva stimolato un ritorno alle origini in luoghi come il Carso e il Collio sloveno e italiano dove macerare a lungo le uve bianche sulle bucce era stata una tradizione consolidata.


Oggi, esattamente come all'epoca della barrique o dei vini rossi super concentrati degli anni novanta, gli Orange Wines sono diventati "the next big thing", tanto che oramai anche grandi aziende cominciano ad ampliare la gamma inserendo vini banchi macerati. Molto spesso ciò accade prescindendo dalla qualità intrinseca (esattamente com'era successo per certe spremute di legno di un tempo non lontano): prevale cioè il segno, il significante, l'immaginario. Sono i nostri tempi. In cui quasi mai il "valore" corrisponde al reale bisogno, al prezzo o alla qualità. Lo spiega molto bene questa lucida analisi sul concetto di valore dal sottotitolo "Forme dell'attuale da Marx ad Appadurai": "L’iperrealismo, o l’ipercapitalismo, non rappresentano altro in Baudrillard che il momento del superamento dell’analisi marxiana del capitalismo storico, nella misura in cui – nell’ultimo ordine di simulacro – ciò di cui ne va è dell’aggancio a ogni valore referenziale: sia esso il bisogno naturale, il bene o il valore d’uso... Ed è qui che la moda, compimento dell’economia politica, rivela l’ultimo stadio di evoluzione della merce, nella sua passione suicidaria per un passato sempre da resuscitare. La moda: l’assenza del bisogno naturale e la pura seduzione della combinatoria dei segni linguistici e monetari."

L'esplosione della moda degli Orange è l'ennesima dimostrazione di questa dinamica: puntare sullo stile produttivo e sull'immaginario, più che sul territorio. Ciò che conta diventa solo il colore! L'arancio, l'ambra. (Il segno). Perché in effetti, a parte quello, nel calderone dei macerati bianchi oggi c'è la qualunque. E a pensarci bene non potrebbe essere diversamente: chiedere un Orange, come sempre più sento fare, è esattamente come chiedere "dammi un rosso" oppure "dammi un rosato". 

E quindi di colpo nei Castelli di Jesi ci sono un sacco di macerati di uve Verdicchio. Naturali e soprattutto non. E va bene così, se non fosse che la sensazione netta sia quella, come sempre, che in questa regione si insegua sempre il mercato, si arrivi sempre "dopo" e in modo distorto. Finendo semplicemente col fare dei vini di cui non si sentiva la mancanza.

Di fronte a tutto questo si potrà pensare: qual è il problema? In teoria nessuno. E infatti anche 'sticazzi! se avessimo una critica e un mercato capaci di districarsi tra l'apparenza e la realtà, tra la verità e la finzione... Ma così non è. E dunque quando si parla di vini "Orange" si fa strada una gran confusione.

Innanzitutto - siccome i primi bianchi macerati erano dei vini naturali - oggi chi ordina un orange lo fa immaginando per forza di cose che stia ordinando un vino naturale. Ma la moda ha portato aziende che naturali non sono a produrre dei bianchi macerati lavorati da vigne convenzionali e con vinificazioni convenzionali. E poi, mentre nella prima fase era piuttosto chiaro cosa aspettarsi da un "arancione", oggi anche a livello gustativo le cose si sono mischiate parecchio: i tecnici che prima rifiutavano l'idea stessa di una macerazione in bianco ora hanno iniziato a "gestirla", riportando nei canoni un'idea produttiva che era nata come libera e selvaggia.

La speranza è che lentamente torni un po' di chiarezza e che, una volta passata la moda, ci restino vini piacevoli da bere e coerenti col proprio territorio: vini accomunati solo dal colore ma che siano in grado di esprimere la complessità dei suoli, dei climi, dei vitigni, delle fermentazioni spontanee, delle vinificazioni naturali. Insomma: dei grandi vini.

mercoledì 20 febbraio 2019

Natura ibrida e vino meticcio

Il Meticcio è il nostro rosato.
Si tratta di un vino particolare, nato principalmente da una suggestione di Valeria: era l’estate del 2015 con l’emergenza degli sbarchi, con l’impennata dei richiedenti asilo, con la gigantesca fuga dalla guerra in Siria. Guardavamo al dibattito in corso, che anticipava quello diventato egemone attualmente, con un misto di paura e rassegnazione. E venne spontanea l’idea di lavorare sul concetto di meticciato, di mescolenza.
Il vino rosato non è assolutamente tradizionale nella regione Marche. Quella abitudine al rosa diffusa nelle Puglie e negli Abruzzi si ferma sul Tronto per qualche misteriosa ragione.
Se Valeria pensava al lato politico e antropologico di questo vino, io ne indagavo la possibilità di farne un paradigma della mia battaglia contro il feticcio-vitigno. Contro la tendenza imperante a ragionare sulla purezza della varietà e a basare su tale purezza un’identità enologica regionale: il Verdicchio, il Montepulciano, il Pecorino.
Meticciato contro identità. Confusione contro purezza. Ci interessava stressare questi concetti, provocare, arrivare all’estremo del lavoro iniziato con la mescolanza dei vitigni bianchi: vitigni bianchi e rossi pigiati assieme, pelli che si uniscono e macerano assieme.
Il terroir sparisce o al contrario si esalta?
L’incontro con Marcel Deiss in Alsazia, anni fa, era stato illuminante: raggiungere la purezza del terroir e dell’annata mescolando i vitigni anziché vinificarli singolarmente. Utilizzare i vitigni come mezzi, come pezzi di un puzzle, come differenti colori.
La storia del vino è la storia dei viaggi, degli spostamenti, delle transumanze. Si pensi alle colonie greche o agli approdi dei fenici. È una storia dapprima mediterranea e poi, sulla scia dell’espansione dei commerci mondiali, una storia capitalista. La selezione dei vitigni, la loro diffusione, la loro propagazione, il loro allevamento, le forme della vinificazione: la viticoltura è solo un altro esempio di organizzazione della natura sotto il segno dell’economia. Ecco che nella mia regione - che fino alla metà del novecento conosceva una grande variabilità di vitigni - l’avvento di una agricoltura industriale, delle denominazione di origine e infine della globalizzazione dei mercati ha portato al sostanziale trionfo del mono-vitigno. Ma è un esigenza commerciale, un costrutto economico: non ha nulla né di storico né di “ecologico”. Il Verdicchio arriva nel quindicesimo secolo insieme a migranti lombardo-veneti, e non è altro che Trebbiano di Soave. A fine settecento i francesi molto probabilmente portano il Pinot nero nel nord e la Grenache nel sud della regione: quest’ultimo viene oggi chiamato Bordò e  inizia a godere di un certo successo. Ma l’intera regione è meticcia, ne sono testimoni i cento dialetti e le molte cesure linguistiche: non potevano che risentirne i vigneti che erano totalmente promiscui e i vini che in larghissima parte venivano da uvaggi e blends...
Uva della Madonna, Empibotte, Greco, Pampanone, Dolcino, Moscatello, Balsamina, Passerina, Albanella, Vernaccia Cerretana, Prungentile, Bottirone, Chiapparone, Uva dei cani…
Solo nel 1871 iniziano a studiarsi i vitigni presenti nelle Marche grazie al lavoro della neonata commissione ampeleografica , ma sarà solo con la fine della mezzadria, quasi un secolo dopo, che la viticoltura marchigiana inizierà a specializzarsi, buttando via il bambino con l’acqua sporca: alla giusta attenzione per la selezione delle varietà e dei cloni migliori non è corrisposta una riflessione sull’importanza della biodiversità e sul legame dei vitigni con clima e suoli.
Oggi, nel pieno del cambiamento climatico, abbiamo bisogno come non mai di ampliare la ricchezza di vitigni a disposizione. Allo stesso tempo vini meticci, cioè radicati in un luogo eppure completamente privi di una singola identità, trovo che possano rappresentare davvero una innovazione estetica ed ecologica, una moderna visione del terroir: meno tradizionalista ma più calata nella contemporaneità di una natura sempre più ibrida.

martedì 18 dicembre 2018

Il biologico è la strada migliore per tutelare la Terra

Il Consorzio TerroirMarche interviene sugli attacchi rivolti in questi giorni all’agricoltura biologica. “I benefici del bio sono dimostrati a livello scientifico in termini di biodiversità, difesa dei suoli e contrasto al riscaldamento globale”

Nelle ultime settimane sulla stampa e sui social media sono apparsi attacchi verso il mondo dell’agricoltura biologica tesi a metterne in dubbio i suoi numerosi benefici in termini di tutela ambientale rispetto all’agricoltura convenzionale. A controbattere a questi interventi sulla base della ricerca scientifica è il Consorzio TerroirMarche, che riunisce i vignaioli biologici delle Marche impegnati da anni a promuovere un approccio alla campagna rispettosa dell’ambiente.

“Non conosciamo le ragioni profonde di questa improvvisa levata di scudi” affermano i soci di TerroirMarche. “Forse a qualcuno dà fastidio il crescente successo dei prodotti agroalimentari bio (in Italia le vendite hanno segnato un +15% nel 2017e un +153% rispetto al 2008, mentre l’export del bio made in Italy vale quasi 2 miliardi grazie a un +408% rispetto al 2008 – Dati Nomisma). Possiamo anche ipotizzare una reazione del mondo del “biotech” alla bocciatura da parte della Corte di Giustizia Europea di tecniche come il genoma editing e la cisgenesi. Quel che è certo è che questi contributi sono pericolosi, a maggior ragione se provengono da personalità del mondo politico e accademico nei giorni della conferenza mondiale sul clima Cop24 in corso in Polonia, dove si discute di riscaldamento globale e futuro del pianeta”.

Già da diversi anni la ricerca scientifica, sottolinea il Consorzio TerroirMarche, ha identificato il metodo biologico come il più indicato ad affrontare i problemi del cambiamento climatico, del risparmio idrico, della fertilità del suolo. Già nel 2002 il paper della FAO “Organic agriculture, environment and food security” ha chiarito che: le emissioni di CO2 per ettaro nei sistemi di agricoltura biologica sono inferiori dal 48% al 66% rispetto ai sistemi convenzionali; l'agricoltura bio consente agli ecosistemi di adattarsi meglio agli effetti del cambiamento climatico e offre un notevole potenziale per ridurre le emissioni dei gas serra agricoli; i suoli a gestione biologica hanno un alto potenziale per contrastare il degrado del suolo poiché sono più resistenti sia allo stress idrico che alla perdita di nutrienti. A ciò va aggiunto che sono in costante crescita le ricerche che mostrano il maggiore valore nutritivo dei prodotti da agricoltura biologica e la maggiore conservazione di biodiversità.

Molti degli attacchi rivolti in questi giorni al mondo della viticoltura bio si concentrano sull’uso del rame. “A questo proposito – precisano gli agricoltori di TerroirMarche – è bene fare chiarezza su alcuni punti. Prima di tutto il rame è utilizzato anche in agricoltura convenzionale, ma è solo in agricoltura biologica che viene assoggettato a limiti stringenti. La recente normativa europea ha ulteriormente ridotto i limiti di utilizzo del rame fino a 4 kg per ettaro all’anno. I vignaioli biodinamici già oggi hanno un limite di 3 Kg ed è innegabile che è nel settore della viticoltura naturale che si è sviluppata negli anni la maggior sensibilità verso una progressiva riduzione del rame”.

Microbiologi di fama internazionale come Claude e Lydia Bourguignon hanno recentemente dichiarato che anche alle dosi precedenti l’uso del rame in viticoltura non ha effetti tossici riscontrabili. In terreni ricchi di humus, come generalmente quelli dove si coltiva in modo biologico o biodinamico, la dotazione di sostanza organica permette infatti di immobilizzare il rame riducendone la tossicità. Il rame è così assorbito dalla pianta solo in piccole dosi e quindi anche il contenuto nella pianta è basso. “Inoltre, come il ferro, anche il rame è un componente importante dei sistemi enzimatici del metabolismo respiratorio e della fotosintesi. Agisce sulla sintesi della lignina e sulla germinazione del polline, favorisce l’accrescimento apicale, aumenta la traspirazione ed è indispensabile nella formazione della clorofilla e dei complessi proteici che agiscono durante la fotosintesi. Eppure viene assimilato ai pesticidi di sintesi!”.

“Rigettiamo pertanto con forza il tentativo di equiparare convenzionale e biologico dal punto di vista dell’uso dei pesticidi – affermano con forza i soci del Consorzio Terroir Marche – e di ridurre il movimento biologico a nicchia di mercato che basa il suo successo solo su narrazioni rassicuranti o, peggio, a tendenza giovanilistica e radical chic. La viticoltura e l’agricoltura biologica sono un settore rilevante e trainante dell’agricoltura italiana e uno dei capisaldi della lotta al cambiamento climatico”.

Per ulteriori approfondimenti

Il Paper della FAO:
http://www.fao.org/docrep/005/y4137e/y4137e02b.htm

Sulla sostenibilità del bio: https://www.researchgate.net/publication/279868579_Eco_e_bio_agricoltura_sostenibile_o_insostenibile

Sul maggior valore nutritivo del cibo bio:
https://www.cambridge.org/core/journals/british-journal-of-nutrition/article/higher-antioxidant-and-lower-cadmium-concentrations-and-lower-incidence-of-pesticide-residues-in-organically-grown-crops-a-systematic-literature-review-and-metaanalyses/33F09637EAE6C4ED119E0C4BFFE2D5B1

Sulle alternative al rame:
http://www.agribionotizie.it/le-alternative-alluso-del-rame-in-agricoltura/


giovedì 5 gennaio 2017

Buon 2017 "Natural Wine"!


Siamo solo al 5 gennaio e già si è scatenata la prima polemicona sul "vino naturale". Primo perché fa bene alla salute (la polemicona, ovviamente), secondo perché si tratta di un tema acchiappaclick sul web come ben pochi altri.
Nell'augurare un buon 2017 a tutti voi, vi svelo allora il mio proposito per l'anno in corso: non parlare più di vino naturale. L'ho fatto fin troppo, ci ho pure scritto un libro, e dopo anni sono giunto alla conclusione che sia del tutto inutile insistere a voler partecipare a battibecchi sterili. 
Tutti hanno alcune ragioni ed alcuni torti nella vicenda. 
Lo "scandalo" sta nell'utilizzo di un aggettivo di uso comune su decine e decine di prodotti ma che - abbinato al vino - scatena l'ira funesta di tutti i conformisti del mondovino. L'aspetto a mio avviso più importante, quello del cambio radicale di prospettiva estetica seguito all'avvento dei moderni "vins nature" (si pensi al fondamentale libro di Nicola Perullo "Epistenologia"), viene spesso travisato o trascurato.
Puzza? Non Puzza? Questa la ridicola dicotomia, il recinto in cui si vuol chiudere il vino naturale.
Ma la cosa meravigliosa è che - proprio come un boomerang - questa strategia di attacco mediatico da tempo si ritorce contro i suoi ideatori/propugnatori, tanto che il boom dei vini puzzolenti (=naturali) sembra inarrestabile.
Non so se sia una buona notizia. Probabilmente no. Ma il fatto che fiere come RAW siano state sperimentate con successo in posti nuovi (e non certo secondari) e che ovunque nel mondo nascano nuovi produttori, nuovi distributori, nuove occasioni di confronto sui vini puzzolenti (=naturali) forse dimostra il fallimento dell'ortodossia ad ogni costo.
E allora a chi continua a far finta di niente, a qualche anno dalla schifosa lettera di inizio 2013, così come ai tanti "opinionisti star" che invadono il web, mi piacerebbe ricordare che quel giornalettino vinoso che si chiama Decanter sta contattando noi produttori di vini puzzolenti (=naturali) per una degustazione di Natural Wines (senza virgolette, questi spudorati!) in cui, non solo non si mette in discussione l'esistenza del vino naturale, ma lo si descrive anche: e guarda un po' (!!!), attraverso una "carta della qualità" che non fa altro che riprendere le molte autocertificazioni prodotte negli anni dalle associazioni di vino naturale francesi ed italiane. Sono proprio pazzi questi inglesi!
Ma allora il vino naturale esiste o no?
E Puzza?
Ma quanto puzza?
Buon 2017 a tutti

Natural Wine ‘Charter of Quality’

All wines must adhere to this charter if they wish to enter into the ‘Top 25 Natural Wines’ tasting:
Vineyards farmed organically or bio-dynamically (Certification strongly preferred, but will accept uncertified)
 HandHarvestedonly
 Fermentation with indigenous (wild) yeasts
 Noenzymes
 No additives added (e.g. acid, tannin, colouring) other
than SO2
 SO2 levels no higher than 70mg/L total
 Un-fined and no or light filtration
 No other heavy manipulation – e.g. spinning cone,
reverse osmosis, cryoextraction, rapid-finishing, Ultraviolet C irradiation

martedì 26 gennaio 2016

Ancora sui lieviti!

Nel 2012 riportai questa notizia sullo "svernamento" dei lieviti grazie a vespe e calabroni. Fatto molto importante ai fini della definizione di una idea di lievito "autoctono", "indigeno", "locale", chiamiamolo come ci pare.
Lo scorso anno ulteriori ricerche hanno confermato questa dinamica, aggiungendovi il fatto che l'intestino delle vespe sarebbe la perfetta alcova in cui i lieviti non solo sopravvivono ma si riproducono anche, garantendo il continuo mutamento, meticciamento si potrebbe dire, dei ceppi di saccaromyces. Qui trovate il paper in lingua inglese: 


Inutile dire che questo fatto, unito a tutto ciò che succede negli ambienti di cantina - specie nelle cantine storiche - è in grado di influire su quella grandiosa attività microbiologica chiamata fermentazione. Quando ho cominciato a fare vino si era giunti al limite estremo dell'enologia-tecnica per cui anche il solo pensare a una fermentazione spontanea risultava segno di arretratezza e anti-scientismo. Oggi, dopo più di un quindicennio, piano piano ma inesorabilmente, l'interesse sulla varietà del mondo microbiologico di un ecosistema vigna e di un ecosistema cantina stanno dimostrando che la "complessità" del gusto non è un totem adorato da quattro mistici del vino ma una realtà strettamente correlata a variabili "naturali".
L'idea stessa che possa esistere una "neutralità" dei lieviti viene affossata poiché risulta chiarissimo a questo punto ciò che già si sapeva: cioè che qualunque lievito selezionato - anche se "aromaticamente" neutro - è in realtà prelevato, selezionato appunto, da un preciso areale per le sue precise caratteristiche tecnico-industriali. L'utilizzo continuativo di un lievito esogeno è dunque una scelta destinata alla "sicurezza" ed alla perfetta "replicabilità" delle fermentazioni, una scelta che interrompe il dialogo fra microbiologia della terra e microbiologia del vino. Una scelta che, come paventano anche le analisi sulla fermentazioni spontanea a La Distesa, non può avere un impatto "neutro" sul gusto (oltre che sulla biodiversità della flora di cantina).

"Finally, the direct link between social insects and the yeast species biodiversity is relevant to human industry, as the genetic diversity generated in the wasp’s gut could favor adaptation to the ever-changing fermentative environment, as demonstrated by the evidence that several of the most successful industrial strains are interspecific hybrids (30). Thus, preserving the treasure potentially hidden in the gut of vineyard wasps could be relevant from both the ecological and biotechnological standpoints". 

sabato 1 agosto 2015

Parola di Scienza

Da dove cominciare?
Forse da Milano. E da una domanda che faccio agli studenti di agraria presenti ad un incontro del 2014, poi finito nell'extra "Desistenza a Milano" del DVD di Resistenza Naturale di Nossiter.
Di fronte al continuo e re-iterato attacco alla biodinamica, al "naturale", al buonsenso agricolo da parte dei collaboratori di Attilio Scienza (Brancadoro e Failla) in nome della Scienza Agronomica, chiedo agli studenti presenti di sapere se abbiano frequentato o se sia previsto un esame di filosofia della scienza. 
Silenzio di tomba e nessun commento. 
Stessa cosa è successa recentemente alla facoltà di agraria di Ancona (sebbene l'incontro sia stato molto più stimolante e proficuo).
Ne ho dedotto ciò che in realtà è oramai evidente a tutti: la scienza non si discute. La scienza è la nuova Verità del mondo post-ideologico. La scienza - il suo metodo, i suoi risultati, le sue conseguenze, i suoi rappresentanti - devono essere al di fuori del giudizio, sia esso politico, etico o estetico. E tutto quello che si muove su un piano dialettico viene immediatamente bollato come esoterico, magico, religioso, metafisico e così via, poiché in questo modo si cancella la credibilità di qualsivoglia alternativa.

Sia ben chiaro: in giro è pieno di buffoni che nei campi più disparati, dalla medicina all'economia, dalle scienze naturali a quelle fisiche, si pongono saldamente al di fuori della scienza, chi davvero assecondando falsi miti, chi semplicemente cavalcando la moda del momento, chi per banali ragioni di tornaconto economico. 
Ovviamente non mi riferisco a costoro.
Mi riferisco, invece, a chi crede fermamente nella Scienza, nei suoi progressi, e nelle sue verità - con la "v" minuscola che contraddistingue le verità scientifiche, che sono appunto "relative".
Mi riferisco a chi reputa che il positivismo sia finito da un pezzo e che sia la scienza stessa ad aver sperimentato i suoi limiti. 
E mi riferisco, in particolare, al fatto che la filosofia della scienza, sebbene ignorata da chi fa ricerca (in ambito agrario in questo caso, ma temo che la situazione sia la medesima in altri ambiti scientifici), nel novecento ha chiaramente indicato alcune questioni ed alcune teorie che forse andrebbero più diffusamente conosciute, diffuse e dibattute, proprio per non cadere nel tranello del "Lo dice la Scienza" (che poi diventa più prosaicamente "sostiene Scienza, Attilio" - e tutti zitti).
Ecco, uno degli insegnamenti più chiari e netti ci racconta che la scienza - ed in particolare la tecno-scienza, cioè il dispositivo economico e sociale che ne applica i dettami, non è mai neutrale. Il novecento ce lo ha indicato perfettamente con la storia della ricerca sull'atomo, ma gli esempi sono infiniti.  
E allora bisogna dirlo chiaro e forte: quando Attilio Scienza afferma “Per i produttori di vino la produzione biologica e biodinamica è una via senza uscita” ponendo la questione, subito dopo, di vitigni resistenti ottenuti da modificazioni genomiche, sta parlando come scienziato-ricercatore ma non sta facendo un discorso "neutrale". Sta parlando come rappresentante di un ben evidente paradigma scientifico, quello dell'agricoltura produttivista, e dunque indirizza la ricerca, i suoi finanziamenti, e tutto il corollario che ruota intorno al mondo universitario ed accademico, verso una prospettiva che è quella "dominante", frutto cioé di relazioni economiche e di potere. Ma che di "oggettivamente scientifico" ha ben poco. 

Uso il termine paradigma nel senso descritto da Thomas Samuel Kuhn nel classico del 1962 "La struttura delle rivoluzioni scientifiche", testo assolutamente emblematico di ciò che la scienza sia divenuta nell'epoca del Capitalismo Industriale (perché qui nessuno vuole ri-processare Galileo). Ma non piacesse l'approccio epistemologico di Kuhn, anche da un punto di vista popperiano, cioé del principio di falsificabilità, l'uscita di Scienza fa acqua da tutte le parti: se l'intenzione più pura e profonda della ricerca accademica fosse infatti davvero quella di ridurre i trattamenti chimici non è possibile - proprio a livello scientifico - trascurare l'importanza delle esperienze biologiche e biodinamiche laddove hanno dimostrato la possibilità, con questi vitigni e anche in condizioni di annate drammatiche come la 2014, di fare una agricoltura pulita.
Il bio-distretto di Panzano in Chianti nato con la consulenza di Ruggero Mazzilli è un esempio emblematico con il 90% del territorio gestito come minimo in regime biologico; così come le esperienze di ricerca accademica in biodinamica, come quelle di Adriano Zago o Fabio Primavera.
Si tratta di falsificazioni importanti della teoria per cui i nostri vitigni sarebbero arrivati al capolinea.

Peraltro se il problema sono i trattamenti vicino alle abitazioni - come ad un certo punto si paventa - si fanno 2 autogol: primo, perché gli scienziati hanno sempre sostenuto che i trattamenti "non fanno male alla salute umana" (e invece ad esempio nella zona del Prosecco si è notato un aumento dell'incidenza dei tumori); secondo, perché se c'è un vigneto già impiantato a ridosso delle abitazioni forse il compito della scienza dovrebbe essere quello di agire subito per salvaguardare la salute, convertendo al bio quel vigneto, anziché attendere anni di sperimentazioni per poi arrivare all'espianto ed al re-impianto con vitigni resistenti: nel frattempo quanto veleno hanno respirato i bambini di quelle abitazioni? Sarebbe interessante una risposta della scienza. O anche di Scienza. 

Che poi si possa andare oltre, magari tornando alla riproduzione da seme, e dunque alla creazione di nuove varietà e a una selezione di varietà più idonee, per esempio ai cambiamenti climatici, questo credo che nessuno lo voglia impedire. Anzi. Chi ha letto il classico "Fra cielo e terra" di Joly sa che verso la fine del libro proprio il viticoltore biodinamico per eccellenza prefigura "un ritorno al seme".
Ma con i tempi della natura (centinaia di anni), che non sono i tempi della scienza. O di Scienza, Attilio.  Anche perché, comunque la si pensi sugli OGM, la realtà più vera e profonda delle ricerche genetiche in agricoltura è solo una: brevettare nuove varietà consente di fare un sacco di soldi, e se davvero il Mercato vuole vini più puliti, allora le entrate che che mancheranno all'agrobusiness alla voce pesticidi, erbicidi, ecc. dovranno arrivare da qualche altra parte. No? 

Poi, se non siete ancora convinti, fate come me, fate una cosa che mai avreste pensato di fare: leggete l'ultima enciclica del Papa.

PS "Parola di scienza" è un libro edito da DeriveApprodi. L'autore è Antonello Ciccozzi, ovvero l'antropologo che scrisse la perizia sulla cui base vennero condannati in primo grado - ed assolti nel secondo - gli scienziati del Comitato Grandi Rischi rei di aver fornito false rassicurazioni agli abitanti de L'Aquila prima del fatale terremoto. Un bel libro. Che fa piazza pulita delle tante fesserie lette, all'epoca della condanna, sul "processo alla scienza". C'entra niente con Scienza, Attilio. Ma forse anche un po' sì.    
     

mercoledì 27 agosto 2014

Lieviti, lieviti e ancora lieviti

Ho seguito un po' l'ennesimo dibattito girato in rete sui lieviti selezionati, questa volta proveniente dal giro Slowine: qui l'articolo di Gariglio e qui l'articolo del bravo Fabio Pracchia.
Si tratta di un dibattito ormai stantio dove difficilmente si riuscirà a trovare una quadra fra sostenitori della moderna enologia più spinta ed esaltati provocatori del vino naturale. Sulla questione lieviti ho sempre avuto una visione laica che mi trova d'accordo con alcuni spunti sia di Gariglio che di Pracchia (per chi non avesse voglia di approfondire tutte le loro argomentazioni e i vari thread che si sono da lì dipanati valga questa sintesi brutale: molto peggio del lievito selezionato sono altre cose nell'omologare il vino).
Non riesco, però, a liberarmi dalla sensazione per cui, dato che lo scontro diretto e frontale con il "movimento del vino naturale" non ha pagato e anzi non ha fatto altro che sviluppare maggiormente l'interesse per il movimento stesso, allora si provano metodi più sottili di comunicazione. Diversivi, diciamo.

Nessun problema, se non fosse che poi escono un po' delle forzature.
Tipo che il 98% dei vini bianchi si fa coi lieviti selezionati. Sarebbe il caso di dire il 98% dei vini. Punto. Eppure in Borgogna la quasi totalità dei grandi bianchi è fatta con lieviti indigeni. Vogliamo dire anche questo?
Tipo che non esiste il concetto di lievito autoctono.
Tipo che i soli lieviti dell'uva sono pochi e non farebbero terminare una fermentazione o la farebbero andare in malora (che è una variante dell'ormai famigerato e falso "il vino in natura non esiste perché l'uva diventa naturalmente aceto).
Eccetera.

Ma è quando si scende nel tecnico che poi casca l'asino.
Nel pezzo di Maurizio Gily citato ad esempio (http://www.gily.it/articoli/Vino%20e%20lieviti.pdf) si fa una lunga e gustosa comparazione fra "protocolli" dicendo ciò che già si sa, cioé che non è tanto un problema di lievito selezionato ma piuttosto di "substrati" (es. condizioni di azoto - e dunque bisogna aggiungere composti azotati in fermentazione?) e di "enzimi" (e quindi bisogna aggiungere enzimi esogeni per far esprimere al lievito determinati aromi?) e di "condizioni" (es. le basse temperature di fermentazione oppure l'assenza totale di ossigeno lungo tutte le fasi della vinificazione?).
E allora - scusate! - ma è un po' un girare la frittata, dialetticamente parlando: si dice che non è colpa del lievito selezionato ma poi si scopre che è "tutto il pacchetto" (dell'enologo, si intende).

Quindi certo quel che senti quando senti la banana (o il passion fruit...), per riprendere Gariglio, non sarà forse IL lievito selezionato, ma IL lievito selezionato fatto lavorare in certe condizioni (con i giusti substrati, i giusti enzimi, le giuste temperature, dal giusto enologo).
Cosa cambia?
Di cosa stiamo a parlare?
La domanda provocatoria di Fabio Pracchia "Omologa di più il lievito selezionato o il consulente enologo?" è insomma domanda tautologica, sebbene molto puntuta e intelligente, perché il consulente enologo oltre a fare tutto ciò che Pracchia enumera in vigna e in cantina, generalmente usa anche sempre un certo lievito fatto lavorare dentro a a certi substrati all'interno di certi parametri. E questo non omologa né più né meno di una marca di barriques o di un sesto d'impianto: ne è semplicemente il completamento, la finale pietra di volta.

Sono d'accordo: la questione lieviti non è il solo problema ed è questione tutt'altro che semplice (dissento anche io dai banalizzatori di certo vin naturel) ma ciò non toglie che la questione della fermentazione spontanea (più o meno controllata) sia la fondamentale discriminante (per me!) fra artigianato e industria, fra terroir e varietà, tra vigna e cantina.
Serve coraggio, è vero. Come in tutte le scelte vere della vita.

venerdì 28 marzo 2014

Di nuovo al Vinitaly

Fra poco prenderò la strada di Verona per partecipare al ViViT. Non lo faccio con grande piacere, certamente. Le alternative non mancavano. E dunque mi piace spendere qualche parole sulle ragioni di questa scelta.
Avevo partecipato alla grande kermesse veronese in uno stand della Regione Marche nel 2002, proprio all'inizio della mia esperienza di vignaiolo. Poi dal 2004 il luogo veronese per me è stato, per molti anni, il centro sociale La Chimica dentro quel laboratorio che fu Critical Wine. Il centro sociale è stato sgomberato dal Sindaco Sceriffo Tosi, così nel 2010 e 2011 ho esposto a Cerea in quel di ViniVeri. Posto splendido e compagnia davvero bella. Poi un anno sabbatico ed un anno lontano da Verona, l'anno scorso, a tentare di riflettere su cosa sia diventato questo nostro variegato movimento dei vignaioli naturali... 
Nel frattempo è nato terroirMarche e con i compagni del Consorzio, con i quali abbiamo partecipato a Millésime BIO a Montpellier e a Vignaioli Naturali a Roma, si è fatta strada l'idea di aderire come Consorzio marchigiano al salone ViViT. E' con loro che sono nate una serie di considerazioni sullo stato dell'arte. Da un lato c'era e c'è l'idea della grande potenzialità di Cerea come spazio per una grande fiera unitaria e alternativa di tutto il naturale. Dall'altro il dato di realtà è che quella potenzialità, a causa di divisioni, protagonismi, contraddizioni ma anche legittime scelte da parte di soggetti e associazioni, resta tuttora secondo noi in grande parte inespressa.

A questo si aggiunge un dato incontrovertibile, soprattutto dopo l'entrata di FederBio a gamba tesa con l'organizzazione del VinitalyBIO: oramai a Verona fra vini senza solfiti, proposte più o meno sostenibili e vini più o meno "liberi", comincia ad aver senso il fatto di presidiare una zona dove poter presentare certi percorsi davvero autentici. Perché alla fine a Villa Favorita ed a Cerea va veramente solo chi già conosce ed apprezza certi vini, mentre a Vinitaly volenti o nolenti vanno proprio tutti.

Ecco quindi che oggigiorno, con la comunicazione distorta che sta passando sul "vino naturale", l'impressione è che - senza ViViT - un generico operatore del mondovino camminando dentro Vinitaly possa pensare che Cotarella, Farinetti o l'azienda che resta nei soli limiti del disciplinare Bio presente negli spazi FederBIO facciano "vini naturali".
Insomma, ci stanno fregando.
E non a caso la mia contrarietà al ViViT non era mai stata nei confronti dell'operazione in sé ma verso i modi con i quali si era concretizzata: cioé senza nessuno percorso "politico". Quanto fosse necessario lo misuriamo oggi, quando non passa giorno senza che avvengano ipocrite sussunzioni del "vero", del "naturale", del "buono, pulito e giusto".

Dunque quest'anno va così. Poi vedremo. Il ritorno di Renaissance a Cerea dimostra che la coerenza non è di questo mondo. E forse per chi è "movimento" è anche giusto sia così.

lunedì 27 maggio 2013

terroirMarche


Comunicato Stampa

È nato il primo Maggio tra colline pettinate dalle vigne in fiore, si chiama terroirMarche e ha le idee molto chiare su cosa farà da grande. È un Consorzio, costituito da vignaioli marchigiani, che si propone di valorizzare e promuovere la viticoltura biologica delle Marche, la difesa del territorio e dei beni comuni, la diffusione di culture e pratiche per un’economia sostenibile e solidale.
Hanno dato vita a terroirMarche le aziende: Aurora di Offida, Fiorano di Cossignano, La Distesa e La Marca di San Michele di Cupramontana, Pievalta di Maiolati Spontini. Un gruppo di vignaioli che unisce simbolicamente le vigne del Piceno e quelle di Jesi, impegnati da anni nella produzione di vini che abbiano un legame assoluto con il proprio territorio di origine.
Ma prima di tutto il Consorzio terroirMarche è un gruppo di uomini e donne che, oltre alla pratica rigorosa di una viticoltura biologica, hanno in comune un approccio etico all’attività agricola, che pone al centro l’uomo e la natura, elementi sostanziali del concetto di terroir.
Condividono l’idea che la costruzione di un mondo migliore passa necessariamente per un’agricoltura migliore, fondata sulla conservazione dell’integrità del suolo nella convinzione che sia un dovere restituire ai figli una terra in condizioni migliori di quelle in cui la si è trovata.
Al suo interno il rapporto fra i soci è regolato da uno spirito collaborativo e solidale, nella certezza che la ricchezza delle relazioni umane sia presupposto necessario per dare valore a un territorio. Allo stesso modo il rapporto con i consumatori sarà basato su una comunicazione trasparente delle pratiche agricole adottate.
La scelta di festeggiare il primo Maggio con la costituzione di terroirMarche non è casuale, è anzi un richiamo all’importanza del lavoro della terra, per anni considerato un lavoro umiliante.
Il contadino è il primo responsabile della nostra alimentazione e un pilastro della salvaguardia del paesaggio ambientale, vero patrimonio negletto dell’Italia.
Il Consorzio è totalmente autofinanziato. Il presidente eletto nella prima assemblea che si è tenuta tra le colline di Offida è Federico Pignati. La famiglia di terroirMarche è aperta a ogni vignaiolo marchigiano che produca vino in regime di agricoltura biologica e che si riconosca con i principi etici che ispirano il lavoro dei soci fondatori.


Per contatti e informazioni:
info@terroirmarche.com

mercoledì 8 maggio 2013

Undici annate de Gli Eremi



Dopo qualche mese di decantazione, eccomi a parlare di una bellissima giornata di ottobre, passata a degustare tutte le annate prodotte del mio vino simbolo: la riserva Gli Eremi. Erano presenti molti giornalisti e blogger del settore, da Vittorio Manganelli a Carlo Macchi, da Alessandro Morichetti a Francesca Ciancio, da Riccardo Vendrame a Maurizio Silvestri e Gianni Fabrizio.
Per me è stato molto emozionante ripercorrere le stagioni che hanno contraddistinto vendemmie differenti ed un lungo percorso evolutivo professionale. Ma la cosa migliore è ricordare la degustazione attraverso le parole di un ottimo giornalista straniero che di vino italiano è grande conoscitore: Walter Speller.

"Corrado Dottori is one of the main protagonists in the cru debate surrounding fine Verdicchio. He gave up a job in Milan to return to Cupramontana to take over the 3 ha of vines his grandfather left him, one, more than 30 years old, in San Michele and two in San Paolo. Not entirely a bianchista, Dottori also produces a red wine made from Montepulciano, Sangiovese and Cabernet Sauvignon. But it is clear that Verdicchio is his baby, and the one that gets the most attention is the Gli Eremi single-vineyard bottling. 

The Dottori famliy is very much part of the historic fabric of Cupramontana. Right in the middle of this hill town on the main street is the family's home, an impressive, charmingly chaotic patrician house which, from the outside, hides the fact that the wines were once made in cellars hewn out of the tufo rock underneath the house. Dottori is active in the local government of Cupramontana and as part of this role is one of the instigators of vineyard research, which focuses on soil, exposition and altitude, and which resulted in the first map of Cupramontana. It should eventually open the way to a vineyard classification. 

Dottori's own 'cru', the Gli Eremi, is made without any concession to commerce and divides opinions. Dottori tends his vineyards strictly organically while applying biodynamic elements, notably the famous cow-horn preparation. To Dottori, organic viticulture is just a tool which allows the vineyard to produce grapes without any distortion - to express itself as directly as possible. Dottori also wants the resulting wine to express the vintage without any fine-tuning. For the Gli Eremi, this means a brief maceration on the skins for about 10% of the grapes for four days, and fermentation triggered by indigenous yeast, which are given a head start by a pied de cuve he adds to the tanks. After fermentation, the wine stays for 6 months on the lees in oak, followed by 6 months in stainless steel for a natural stabilisation, and 6 months in bottle before release. The Gli Eremi is rock-solid Verdicchio, and a formidable cru, but with an embarrassingly modest price tag. 

La Distesa, Gli Eremi 2010 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 17 Drink 2013-2018 

The savouriness and minerality of Verdicchio, but much more brooding and certainly not sweet. Fantastic tactile impact on the palate with acidity built like bricks. Very linear and direct and not polished at all. Very young. (WS) 13.5%

La Distesa, Gli Eremi 2009 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 16.5 Drink 2011-2016
More closed than 2010 and a touch sweeter. More generous and direct on the palate. Crisp acidity and great concentration of ripe fruit. Bitter almond finish. Great length and tension and quite straightforward. (WS) 

La Distesa, Gli Eremi 2008 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 17.5 Drink 2012-2020
Hazelnut and real depth, and with the first signs of age. Savoury, the fruit is still hiding. Almost salty minerality. Bitter grapefruit. Lots of substance, and structure. well built and will last for quite a while. Very long. Begs for food. (WS) 

La Distesa, Gli Eremi 2007 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 15.5 Drink 2009-2015 

Very hot and very difficult year and with little acidity. According to Dottori, the elevated levels of volatile acidity saved the wine, as it gives an impression of freshness. Quite sweet and honeyed. Baking spice, sweet brioche and fruit cake. Very round and sweet and extracted and with spiking acidity. A little uneven and hot on the finish. RS is 7 g/l. (WS) 

La Distesa, Gli Eremi 2006 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 16.5 Drink 2009-2017
A very cool year with plenty of rain, but an explosion of heat at the beginning of September, which led to a rash accumulation of sugars. Dottori had to break off his holiday to start harvesting in order to prevent overripe grapes. Very spicy, with brooding sweet fruit. Rich, sweet and ripe and a little rustic but with great grip. The alcohol seems a little biting. (WS) 14.5%

La Distesa, Gli Eremi 2005 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 16.5 Drink 2008-2018
 
The vintage was a very cold one with lots of rain, which caused a little bit of botrytis on the ripest grapes. Complex and elegant, but with a peppery prickle. Quite understated on the nose. Fine, ripe mandarin impression on the palate followed by a bitter almond finish. Restrained generosity. (WS) 

La Distesa, Gli Eremi 2004 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 17.5 Drink 2008-2020
2004 is considered a classic year in the Marche. Harvest, in mid October, was quite late and the grapes showed high acidity. There was also the occurrence of a little botrytis, as a result of what Dottori calls a classic Cupramontana climate with rains and cool periods. 2004 is the first vintage he used indigenous yeast. Intense sunflower yellow, almost like a sweet wine. Dark, sweet nose with hazelnut and wax. An energetic charge of fierce acidity. Very lively and tactile. Hints of browning apple and waxy notes but it is a complex whole. Electrifying finish. Tongue-grabbing action. (WS)
14%

La Distesa, Gli Eremi 2003 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 15.5 Drink 2006-2015
 
The only wine Dottori acidified with tartaric acid due to the hot year. Compact and savoury nose not giving much away. Merest hint of camomile. Creamy notes and high acidity on the palate, which dies away quickly. Finish is a bit numb and much less complex than I have come to expect. But certainly not a run-of-the-mill Verdicchio. (WS) 14%

La Distesa, Gli Eremi 2002 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 16 Drink 2004-2016
 
A vintage with lots of rain, botrytis and high acidity. The deep colour indicates the high level of botrytis, according to Dottori. Very deep yellow. Quite developed on the nose with hints of butterscotch ansd acacia honey, but not exuberant. Very honeyed on the palate and at the same time lots of austere acidity. A little phenolic too. Very long and with lots of freshness on the finish. (WS) 14%

La Distesa, Gli Eremi 2001 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 18 Drink 2006-2022
 
Considered a classic year characterised by heat spikes. The wine was fermented in stainless steel. Quite composed on the nose with a little camomile and orange peel. Squeezed sweet lemon and orange palate. Really vibrant and tactile. Impressive stuff. (WS) 14%

La Distesa, Gli Eremi 2000 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 16 Drink 2004-2016
 
Dottori’s first vintage and a very hot year. Savoury and a little earthy with hints of sage and minerals. Crushed lemon and orange palate. Great acidic impact and tension. The fruit doesn't last that long, but the tactile, lemony sensation does. Almost no signs of decay. Ends a little alcoholic. (WS) 

La Distesa, Spumante Metodo Classico 2004 Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico 16.5 Drink 2012-2018
 
Never released onto the market. The base wine was aged for one year in barrique. Disgorged in 2011(!). Deep, straw yellow. Mandarin, hazelnut and a hint of mushroom and baking spice. Very full on palate with lots of substance and literally bags of lemon and mandarin fruit underlined with brioche notes. Pretty lively mousse. Impressive for a first effort. (WS)" 



mercoledì 16 gennaio 2013

Vin de Kav

Alla faccia delle polemiche, dei blog furbetti, dei commenti isterici e di quelli in mala fede, io mi sono stappato un Chiroumbles 2010 di Karim Vionnet (vin de Kav, appunto), uno dei discepoli di Chauvet, Lapierre e Thevenet in quel di Morgon, Beaujoulais. Etichetta stile pop art, no solforosa, solo uve gamay e niente altro per un vino che, come recita l'etichetta, è meglio conservare a temperatura inferiore ai 14° (Danny Baldin ringrazia).
Che dire? Che è esattamente come doveva essere. Come Joe Strummer che canta I fought the law insieme ai Clash, come James Dean che guida all'impazzata nella notte, come il maggio francese, come  il Grande Lebowsky e il suo spino nella vasca da bagno. Un pugno in faccia all'immutabile perbenismo piccoloborghese.
Bellissimo, anzi buonissimo. E sì, sa anche un pò di buccia di salame...


lunedì 14 gennaio 2013

In risposta a Michel Bettane

Grande clamore ha suscitato l'attacco ai vini naturali da parte del Gambero Rosso la scorsa settimana. Molto di quanto scritto in quelle pagine è già stato dal sottoscritto ampiamente trattato in "Non è il vino dell'enologo - Lessico di un vignaiolo che dissente". Mi piace però allegare qui la risposta del vignaiolo francese Denny Baldin, un misto di ironia, buonsenso ed intelligenza che mi rendono fiero del nostro movimento e dei miei colleghi vignaioli. Che la vigna sia con voi...


sabato 20 ottobre 2012

Vespe, calabroni e lieviti indigeni

E' stata pubblicata una importante ricerca scientifica che fa ulteriore chiarezza sul ciclo ecologico dei lieviti responsabili della fermentazione del vino. Qui di seguito potete trovare informazioni sulla ricerca: http://www.infowine.com/default.asp?scheda=11433.
Secondo questa ricerca i "lieviti “trascorrono” un periodo del loro ciclo vitale all’interno dell’intestino di vespe sociali e calabroni, al di fuori dell’ambiente di fermentazione... quando i frutti maturano, questi insetti sono attratti dal loro odore, li rompono grazie ai loro potenti apparati mandibolari e inoculano questi micro-organismi al loro interno. Questa indagine si lega ad una ricerca iniziata nel 1998 e chiude, di fatto, il ciclo ecologico dei lieviti che era ancora avvolto dal mistero. Per arrivare a questo risultato è stato anche sequenziato il genoma di questi lieviti trasportati dai calabroni ed è stato possibile individuare i ceppi dei lieviti in periodi dell’anno in cui non erano mai stati isolati ovvero da dicembre a febbraio".
L'importanza della ricerca si lega al fatto che finalmente si apre una prospettiva definitiva per la dimostrazione dell'esistenza di lieviti "autoctoni" o "indigeni", lieviti cioé legati in modo indissolubile al territorio o, perlomeno, ad una ben definita area di produzione. 
Per chi fosse interessato alla materia lo stesso importante concetto di "lievito indigeno" viene indigato in una tesi di dottorato sulle fermentazioni spontanee che è possibile leggere qui: http://www.fedoa.unina.it/1664/1/Di_Maro_Scienze_Tecnologie.pdf
Sono ricerche che dimostrano quanta confusione ancora si faccia rispetto alla questione lieviti selezionati/lieviti indigeni e quanto sia fallace l'idea che i sostenitori delle fermentazioni spontanee - o naturali - siano degli alieni dalle assurde credenze mistiche.
"E’ emerso, dunque, che questi insetti – calabroni e vespe sociali – sono protagonisti della tipicità dei prodotti. Il calabrone infatti porta con sé le caratteristiche di un certo areale rispetto ad un altro e questo garantisce il mantenimento di una ricchezza indispensabile, ovvero la biodiversità dei micro-organisimi che sono fondamentali per la tipicità dei prodotti delle fermentazioni quali il vino e la birra. “Questa scoperta – conclude Roberto Viola, direttore del Centro Ricerca e Innovazione della Fondazione Edmund Mach di San Michele - apre la strada ad altre ricerche che intendano capire come questo microcosmo di micro-organismi possa essere associato alla tipicità dei prodotti, e di come sia importante conoscerlo, per proteggerlo, conservarlo e renderlo disponibile alle attività umane”.

giovedì 24 maggio 2012

C'era una volta "Terra e Libertà" - Seconda parte

Terra Libertà/Critical Wine aveva posto tre grandi problemi: l’autocertficazione, il prezzo sorgente, le Denominazioni Comunali. Erano tre giganteschi spunti di riflessione su cui costruire una agenda politica per i prossimi decenni nel mondo del vino italiano: la scomparsa di Gino e l’agonia dei movimenti hanno certamente pesato sulla chiusura del dibattito.
Le divisioni fra produttori e la deriva “commerciale” hanno fatto il resto. Col risultato che le commissioni assaggio DOC bocciano i nostri vini e la nostra reazione “tipo” è: chissenefrega declasso tutto, tanto il vino lo vendo lo stesso. Regalando le denominazioni, che sono beni comuni, agli industriali.

Nel frattempo nelle associazioni “naturali” è all’ordine del giorno il tema delle espulsioni e delle analisi per controllare chi fa il furbo… Tutto bene. Tutto comprensibile.
Però mi chiedo: non eravamo libertari? Non ne avevamo piene le scatole dei controllori e burocrazia? Non c’è il rischio di gossip e delazioni, soprattutto considerando che si tratta di associazioni private e non di enti terzi “super partes”? E’ questo che vogliamo? Una polizia Contadina? 
Non volevamo invece costruire co-produttori, consumatori in grado di discernere l’autentico? E cosa pensiamo di chi magari ha zero residui in un vino ma sfrutta manodopera in nero? E’ naturale? E di chi ha zero residui in un vino prodotto ma spiana una collina per piantarci un vigneto? E’ naturale? E’ controllabile dalla polizia contadina?

Tutto ciò suona folle. Come suona folle la volontà di una ricerca scientifica “privata”. Sono i miliardari, generalmente, a finanziare privatamente la ricerca. E non lo fanno mai a scopo di beneficenza. La ricerca e la scienza devono essere pubbliche e pubblicamente confutabili. Sinceramente apprezzo maggiormente chi fa riferimento ai saperi tradizionali o chi se ne frega della scienza ufficiale e crede nelle forze dello spirito, di chi crede che si possa scoprire chissà quale Santo Graal della fermentazione spontanea.
L’autocertificazione ha fatto una brutta fine ma il prezzo sorgente è finito peggio. E’ talmente sparito il problema dei prezzi dal dibattito che oggi è quasi impossibile trovare vini naturali a prezzi umani. E spesso si trovano più cari nei mercati che sul Mercato. Certo, l’idea così come era nata non era forse granché… Ma da qui a far sparire il problema, ce ne corre.

Le Denominazioni Comunali, in compenso, sono state depotenziate e regalate a un paio di siti e a qualche Comune che ne fa “Testimonianza”. L’idea di Gino era quella di rivoluzionare il sistema delle denominaizioni di origine (sic): non poca la distanza fra la teoria e la prassi, a testimoniare il Vuoto che si apre innanzi a noi proprio nel momento del massimo successo dei vini naturali.

C’è voglia di ricominciare una riflessione su tutto ciò? L’alternativa è semplice: abbiamo dei prodotti richiesti, degli ottimi vini naturali apprezzati da un mercato in crescita. Possiamo fermarci a questo, che è già tanto, tantissimo, in un momento di crisi. Nessuno lo nega.
Ma ci basta? E, soprattutto, basta in prospettiva? Oppure è solo come rinviare una guerra (e intanto l’avversario affina le armi)?

In questo quadro penso che ritrovare una qualche unità sia impresa ardua se non impossibile. L’unica strada, a mio avviso, sarebbe quella di separare definitivamente l’aspetto commerciale (fiere e mercati) dall’aspetto più strettamente politico-culturale. 

Io credo che la tanto vituperata “nicchia” costituisca un ottimo punto di partenza se osservata dal punto di vista di una comunità che si è incontrata sulla strada in questi anni.
Ecco, allora, una prima idea che mi viene per uscire dall’impasse: gli “Stati generali” del vino critico. Un grande momento di aggregazione e socializzazione di esperienze, vissuti, discussioni, ricerche dove mettere assieme tutti i soggetti che a diverso titolo si sono occupati di vino naturale o agricoltura contadina in questo decennio. Non una fiera, ma un grande happening aperto, un momento di riflessione “politica” sul tema. Un grande Critical Wine Forum Europeo, un festival del vino "alternativo", con seminari, discussioni, concerti, assemblee, degustazioni, proiezioni, letture. Un appuntamento annuale in grado di produrre un linguaggio comune, una cultura condivisa, una trasmissione di saperi. Con la prospettiva di aprire una rete nazionale che sia in grado poi di strutturarsi nelle singole regioni attraverso momenti locali di aggregazione.

Il vino non più come “fine” ma come “mezzo”: strumento potente di convivialità ed approfondimento culturale Per parlare di agricoltura e modelli di sviluppo.

Su questa strada – io credo - potremo incontrare soggetti che il vino, per ora, lo hanno solo sfiorato (reti di economia solidale, gruppi di acquisto, circoli culturali, associazioni agricole indipendenti) e pratiche ancora poco usate nel vino come la “garanzia partecipata”, unica risposta davvero alternativa alle certificazioni di qualità.

Rimettersi in discussione, quindi. Ripartire da zero, in un certo senso.

Superare l’idea commerciale di “fiera”, lasciando il commercio alle singole scelte aziendali e muovendosi, invece, a livello aggregato verso una riflessione culturale, filosofica, politica.
In una parola: superare il marketing del “naturale”.
Andare oltre il “vino naturale”.

martedì 22 maggio 2012

C’era una volta “Terra e Libertà” - Parte Prima


Ho passato l’ultimo anno senza partecipare a fiere e mercati con l’intenzione di riflettere un pò sulla questione “vini naturali” o “viticoltura artigiana” o “agricoltura critica”, chiamatela come vi pare. Ovviamente ho le idee più confuse di prima.
Nel frattempo Porthos ha chiuso i battenti, i biodinamici sono tornati al Vinitaly, si moltiplicano le fiere che fanno riferimento all’idea di “naturale o “biologico” o “biodinamico”. Spesso celando interessi o personaggi ben poco chiari.
Da tempo avevo l’impressione che quella grande rivoluzione che all’inizio dello scorso decennio ha innovato fortemente il mondo del vino stesse un pò franando sotto i colpi della reazione industriale. E’ tipico del capitalismo divorare ogni sussulto “alternativo” creando immediatamente gli anticorpi: ci abbiamo fatto l’abitudine. Ciò che stupisce, in qualche modo, è la velocità della reazione. Alcune aziende che solo nel 2002 erano uscite da Vinitaly tentando una qualche forma di alternativa solo dieci anni dopo vi rientrano, e con tutti gli onori della cronaca.
Sia ben chiaro: non ho nulla contro la partecipazione al Vinitaly di una azienda commerciale. L’ho fatto anche io e magari lo farò ancora.
Quello che stupisce sono le modalità: il grande ritorno non avviene singolarmente ma in gruppo, attraverso l’immagine di un movimento, o perlomeno di una sua parte. Questo è avvenuto senza alcun tipo di dibattito, di elaborazione, di partecipazione.
Sono il primo a congratularmi del successo commerciale di ViViT. Ma certo d’ora innanzi, a mio avviso, niente sarà più come prima. I due grandi filoni del nostro movimento, infatti, Vini Veri e Critical Wine condividevano almeno una cosa: che Vinitaly non era il luogo adatto per parlare di agricoltura contadina. Poi vennero Vinnatur, la TriplaA e compagnia bella. Ma l’intuizione iniziale restava piuttosto chiara: la rivoluzione del vino passava attraverso una critica culturale all’egemonia dei grandi gruppi industriali. Quelli che fanno le leggi, quelli che fanno i disciplinari, quelli che indirizzano il mercato.
In questo decennio le contaminazioni da noi portate, attraverso le fiere, i mercati, le assemblee ma anche attraverso i pezzi di movimento che ci sono stati a fianco, hanno seminato idee e pratiche nuove ma, ciò che è più importante, hanno educato un’intera fascia di cittadini co-produttori ad un nuovo modo di avvicinare il vino.
Senza tutto questo il famigerato claim “vino naturale” non avrebbe avuto il successo che giustamente ha. Di fatto abbiamo “creato” un mercato. Quello stesso “mercato” che ora distributori, agenti, rappresentanti, giornalisti, ecc. reclamano come fosse un proprio orticello: dieci anni fa era relegato ai margini. Ci sono voluti gli sforzi e le scelte spesso difficili di molti di noi, le intuizioni di un Gino Veronelli o di un Sandro Sangiorgi, l’impegno dei tanti che si sono sbattuti quando eravamo una minuscola nicchia di gente “strana”.
Ecco perché io credo che quando si fanno delle scelte che chiamano in causa un intero  movimento si debba pensare a questo “capitale sociale”, a questa credibilità collettiva, a questa “comunità” che si erano andati costruendo nel tempo.
Conosco perfettamente i ragionamenti fatti in questi mesi: l’uscire dalla nicchia, il parlare ad una platea più ampia, la voglia di crescere economicamente. Sono pure d’accordo, in linea di principio. Senza reddito l’agricoltura contadina è destinata a scomparire. Senza reddito, non ci può essere il ritorno alla terra che auspichiamo.
Il punto è: non eravamo già usciti dalla nicchia? Se vado in America, nelle liste di vino dei migliori ristoranti vedo un sacco di vini del “nostro giro”; in Giappone è boom di vini naturali; non c’è azienda che non abbia importatori in giro per il mondo; sui blog come sulle riviste mainstream non si parla d’altro che di biodinamica o di naturalità.
Non è che adesso vogliamo andare oltre? Che si vuole crescere e crescere e crescere e produrre di più e vendere di più, alla faccia di Latouche e della artigianalità?
Se, infatti, penso oggi ai “vini naturali” penso innanzitutto ad una grandissima operazione di marketing che ha creato un potentissimo strumento di attrazione commerciale. Un claim che mette assieme modernità e tradizione ma il cui potenziale è divenuto solo ed esclusivamente commerciale.
Il vino si deve anche vendere, si dice. La mia impressione è che ormai siamo arrivati (o tornati) al punto in cui “il vino si deve solo vendere”.
E allora qual è la differenza fra noi e gli altri? Non può essere semplicemente la sostenibilità o l’attenzione alla salute dei consumatori. Qui, nel giro di vent’anni, arriveranno tutti, volenti o nolenti. Il punto, semmai, è “come”.
La nuova legge sul biologico ci racconta il “come” ci si arriverà.
Aver abbassato la guardia sui contenuti culturali e politici ci rende vulnerabili e incapaci di trovare risposte. A breve saremo invasi da vini biologici con 150 mg/lt. di solforosa, enzimi e tannini enologici. E però… Tutti contenti al Vinitaly a spiegare che noi siamo diversi

A breve la seconda parte del ragionamento.

giovedì 29 marzo 2012

Colpito ed affondato

Di ritorno da Verona. Tre giorni fra Cerea e Vinitaly, più che altro per salutare gli amici, incontrare qualche faccia vista finora solo sui nuovi social-media, respirare l'aria del ViViT.
Alla fine quello che mi è rimasto maggiormente impresso, quello che mi ha davvero colpito ed affondato, è l'editoriale del nuovo numero di Pietre Colorate affidato a Francesco De Franco.

"In natura non esiste il tempo, né tantomeno il tempo lineare, concetto immaginato dagli uomini come una freccia lanciata verso l'infinito, un procedere frazionato e ordinato di azioni utile a pianificare e dominare l'agire degli uomini e funzionale all'idea della crescita illimitata.
Nella nostra contemporaneità l'uomo ha creduto e crede che con l'ausilio della tecnica sia possibile realizzare tutto, dovunque. Penso sia necessario fare un passo indietro e provare a riascoltare la primavera. Vivere intensamente il presente, entrare nel flusso ciclico della natura e cercare di risuonare con essa per riacquisire la sensibilità che la cultura contadina aveva sviluppato in secoli di umile osservazione. Dimenticare il nostro tempo e riconoscere alla natura un ordine superiore alla vanità umana del fare senza limite". 

Ecco, queste parole sole valgono più delle mille discussioni su Cerea o Vinnatur o Vinitaly, sui vini naturali o veri o biologici, sulla biodinamica o sulla certificazione. Siamo di fronte ad una contraddizione così radicale che riguarda l'intera dimensione ontologica dell'uomo. Pochi se ne rendono conto, ma la questione della Terra, e dunque solo in ultima istanza del vino naturale, è sempre più al centro di ogni riflessione sullo "sviluppo" o sul "progresso". Ed è una questione così radicale che risulta irriducibile ad ogni pretesa di riduzionismo economico o, peggio, markettaro.
A me fa piacere aver potuto incontrare in questi anni, lunghe le strade che ci hanno portato nelle varie "riserve indiane" del vino contadino - io preferisco chiamarle "comunità" - persone come Francesco. Con le quali è possibile condividere scelte e percorsi, inserendo le nostre identità particolari dentro uno scenario più vasto e generale, filosofico prima che economico.
Forse è possibile ripartire da qui. Da un concetto di comunità organizzata in grado di parlare una lingua differente. Il primo compito, allora, sarebbe quello di trovare un linguaggio.

martedì 6 marzo 2012

Nausea

Mi rendo conto sempre più che l'anno sabbatico da fiere e mercati che mi sono concesso era assolutamente necessario. Per respirare. Per disintossicarmi. Per riflettere.
Sento sempre più netta una sensazione di fastidio rispetto al "carrozzone" fatto di degustazioni, chiacchiere, discussioni, punteggi, presentazioni, guide. Tutto quel contesto di professionisti, giornalisti, bloggers, nani e ballerine che pare oramai essere più importante del vino stesso.
Non ci accorgiamo, presi oramai dalla frenetica e sempre più onanistica esaltazione da degustazione - anche di vini naturali - che la gente beve sempre meno vino. Che si è perso il gesto, naturale sulle tavole italiane fino a poco tempo fa, di versare del vino per accompagnare un pasto, semplice o elaborato non importa.
Mi era venuta un pò la nausea di tutto quel chiacchiericchio pseudo-tecnico intorno ad un calice assaggiato in mezzo alla ressa, al casino, alla bolgia delirante di decine di fiere, piccole o grandi che fossero. Che il vino a me è sempre piaciuto berlo a larghe sorsate, a tavola, in compagnia, mangiando e conversando d'altro, e magari solo incidentalmente di vino. Quasi che il vino sia il mezzo e non il fine.
Come se il Verdicchio ci possa far parlare di Luigi Bartolini, anziché di acidità fissa e profumi primari... Che idea stravagante, eh?!
Così, se ti allontani un attimo, ti accorgi di ciò che stavi diventando... Della mutazione stessa del tuo linguaggio. Tipo ripetere cento volte "minerale"? Perché? Che senso ha? E macerazioni, solfiti, tannini, pratiche biodinamiche... Tutto bello, ma il punto è che si finisce inesorabilmente col perdere la verità del vino, dei gesti, delle persone.
E quel che è certo è che non sono tornato a vivere in campagna per ripetere la litania del "minerale" con qualche fighetto esaltato dalla moda dei vini naturali.
Una via ci dovrà pure essere per restare "naturali" fra di noi. Per restare umani. Per aprire una boccia di vino a tavola senza ottocentomila sovrastrutture mentali.
Insomma, buon Vinitaly a tutti.