Per questo motivo trovo insopportabile questa ipocrisia diffusa per cui intere masse di individui che hanno per decenni vissuto sopra le proprie possibilità - a danno degli altri abitanti del globo e delle risorse naturali del pianeta - negli ultimi mesi si siano fondamentalmente lamentati per la limitazioni di alcune del tutto prescindibili libertà borghesi.
Vino e territorio. Musica e cultura. Pensieri, sogni e visioni di un Homo Sapiens di campagna
domenica 27 giugno 2021
Socialismo o barbarie: i dubbi di un anarchico di fronte al futuro
Per questo motivo trovo insopportabile questa ipocrisia diffusa per cui intere masse di individui che hanno per decenni vissuto sopra le proprie possibilità - a danno degli altri abitanti del globo e delle risorse naturali del pianeta - negli ultimi mesi si siano fondamentalmente lamentati per la limitazioni di alcune del tutto prescindibili libertà borghesi.
venerdì 8 gennaio 2021
Sulla moda degli Orange Wines
Ho iniziato a sperimentare le macerazioni di uve bianche nel 2003/2004. Ero ovviamente esaltato dai primi assaggi di vini che mi apparivano rivoluzionari. Gravner, Radikon, Damijan, Zidarich. E poi La Stoppa e Maule. Comprai anche un'anfora e insieme ad Alessandro Fenino (Pievalta) facemmo un esperimento di macerazione di tre mesi di uve Verdicchio di una vigna che seguivamo nei fine settimana. A ripensarci oggi mi viene da sorridere. Il vino alla fine non ci piacque granché.
Andai avanti con gli esperimenti fino alla nascita del Nur. Quando nacque, nel 2006, qui in zona la tipologia era una novità assoluta. Ma, si sa, io ero quello strano. Quando nel 2010 la guida de L'Espresso lo premiò con l'eccellenza fu una cosa piuttosto straordinaria perché fino ad allora qui venivano considerati solo i Verdicchio classici, quelli moderni, color paglierino chiarissimo e verdolino. Figuriamoci un vino a maggioranza Trebbiano che si presentava color ambra!
Oggi gli Orange Wines sono esplosi come moda planetaria. Se ne fanno in tutto il mondo e con tutti i vitigni. Il bel libro di Simon Woolf "Amber revolution" ha contribuito a far uscire dalla "nicchia" una tipologia che partendo dalla sua patria di elezione, la Georgia, aveva stimolato un ritorno alle origini in luoghi come il Carso e il Collio sloveno e italiano dove macerare a lungo le uve bianche sulle bucce era stata una tradizione consolidata.
Oggi, esattamente come all'epoca della barrique o dei vini rossi super concentrati degli anni novanta, gli Orange Wines sono diventati "the next big thing", tanto che oramai anche grandi aziende cominciano ad ampliare la gamma inserendo vini banchi macerati. Molto spesso ciò accade prescindendo dalla qualità intrinseca (esattamente com'era successo per certe spremute di legno di un tempo non lontano): prevale cioè il segno, il significante, l'immaginario. Sono i nostri tempi. In cui quasi mai il "valore" corrisponde al reale bisogno, al prezzo o alla qualità. Lo spiega molto bene questa lucida analisi sul concetto di valore dal sottotitolo "Forme dell'attuale da Marx ad Appadurai": "L’iperrealismo, o l’ipercapitalismo, non rappresentano altro in Baudrillard che il momento del superamento dell’analisi marxiana del capitalismo storico, nella misura in cui – nell’ultimo ordine di simulacro – ciò di cui ne va è dell’aggancio a ogni valore referenziale: sia esso il bisogno naturale, il bene o il valore d’uso... Ed è qui che la moda, compimento dell’economia politica, rivela l’ultimo stadio di evoluzione della merce, nella sua passione suicidaria per un passato sempre da resuscitare. La moda: l’assenza del bisogno naturale e la pura seduzione della combinatoria dei segni linguistici e monetari."
L'esplosione della moda degli Orange è l'ennesima dimostrazione di questa dinamica: puntare sullo stile produttivo e sull'immaginario, più che sul territorio. Ciò che conta diventa solo il colore! L'arancio, l'ambra. (Il segno). Perché in effetti, a parte quello, nel calderone dei macerati bianchi oggi c'è la qualunque. E a pensarci bene non potrebbe essere diversamente: chiedere un Orange, come sempre più sento fare, è esattamente come chiedere "dammi un rosso" oppure "dammi un rosato".
E quindi di colpo nei Castelli di Jesi ci sono un sacco di macerati di uve Verdicchio. Naturali e soprattutto non. E va bene così, se non fosse che la sensazione netta sia quella, come sempre, che in questa regione si insegua sempre il mercato, si arrivi sempre "dopo" e in modo distorto. Finendo semplicemente col fare dei vini di cui non si sentiva la mancanza.
Di fronte a tutto questo si potrà pensare: qual è il problema? In teoria nessuno. E infatti anche 'sticazzi! se avessimo una critica e un mercato capaci di districarsi tra l'apparenza e la realtà, tra la verità e la finzione... Ma così non è. E dunque quando si parla di vini "Orange" si fa strada una gran confusione.
Innanzitutto - siccome i primi bianchi macerati erano dei vini naturali - oggi chi ordina un orange lo fa immaginando per forza di cose che stia ordinando un vino naturale. Ma la moda ha portato aziende che naturali non sono a produrre dei bianchi macerati lavorati da vigne convenzionali e con vinificazioni convenzionali. E poi, mentre nella prima fase era piuttosto chiaro cosa aspettarsi da un "arancione", oggi anche a livello gustativo le cose si sono mischiate parecchio: i tecnici che prima rifiutavano l'idea stessa di una macerazione in bianco ora hanno iniziato a "gestirla", riportando nei canoni un'idea produttiva che era nata come libera e selvaggia.
La speranza è che lentamente torni un po' di chiarezza e che, una volta passata la moda, ci restino vini piacevoli da bere e coerenti col proprio territorio: vini accomunati solo dal colore ma che siano in grado di esprimere la complessità dei suoli, dei climi, dei vitigni, delle fermentazioni spontanee, delle vinificazioni naturali. Insomma: dei grandi vini.
mercoledì 5 agosto 2020
Nuovi mondi e vecchie politiche
lunedì 6 aprile 2020
The past is finished, the future is unknown
Eppure non credo sia questo il punto.
Non riesco a odiare questo virus perché non è un "nemico" e perché non siamo in "guerra". Certo, lo dobbiamo isolare, ne dobbiamo mitigare gli effetti, lo dovremo mettere in un angolo e "sconfiggere" come l'umanità ha fatto con altri patogeni, alcuni ben più gravi, altri meno. Ma il fatto è che si tratta di una forma di vita terrestre e naturale che, in quanto tale, ci mette di fronte a quel che siamo come umanità, come specie, come abitanti della Terra. Non è una guerra. Si chiama evoluzione. Ogni forma di vita compete per trovare il suo posto in questo meraviglioso pianeta. Nel fare questo evolve, muta, trova soluzioni e antidoti. Quel che abbiamo chiamato Scienza non è un'arma in una guerra. È una risposta. Che la nostra intelligenza di specie ha elaborato per consentirci di adattarci e di evolvere come comunità sociale.
Avremmo potuto, ad esempio, lasciar perdere e far sì che la pandemia seguisse il suo corso.
Sappiamo che il virus per una vastissima parte della popolazione produce effetti "leggeri", alcuni di noi sono addirittura "asintomatici". Eppure abbiamo bloccato le nostre economie e cambiato i nostri stili di vita in tutto il mondo per affrontare il virus. Miliardi di persone sono in quarantena.
Perché?
Molto semplicemente perché la gran parte degli esseri umani, una netta maggioranza, ritiene che la nostra umanità consista proprio nel non abbandonare i più deboli: gli anziani, i malati, i disabili, gli immuno-depressi e così via. Si tratta, in definitiva, di una scelta morale. Che ci definisce in quanto uomini indipendentemente da qualsiasi appartenenza identitaria: etnica, nazionale o religiosa.
In questa scelta siamo cioè tutti meticci e a-polidi. Sarà forse per questo che i più titubanti, i più restii alla quarantena - va sottolineato e andrà ricordato ai posteri! - sono stati i rappresentanti di una certa destra populista reazionaria e anti-umanista (i Bolsonaro, i Johnson, i Trump...) oltre ai rappresentanti di certi potentati industriali.
Dunque non posso odiare un patogeno che per la prima volta da decenni ci costringe ad ammettere che siamo ancora "uomini" e che l'economia è solo un mezzo, uno strumento, e non il fine ultimo della nostra azione, del nostro senso in quanto abitanti del Pianeta Terra.
La realtà è che gli esseri umani erano abituati fino a poco tempo fa a convivere con emergenze come questa. Si moriva presto. Si viveva male. La grande maggioranza degli esseri umani viveva in luoghi malsani, con poche risorse e nessuna comodità. Quel che chiamiamo "benessere" è una conquista recentissima se pensiamo ai tempi della Storia e, peraltro, ancora oggi una conquista diffusa in modo largamente diseguale.
Quel che abbiamo raggiunto lo dobbiamo a un mix esplosivo di conoscenza scientifica, organizzazione sociale e potenza economica. La globalizzazione degli ultimi decenni ha portato al dominio incontrastato della nostra specie sul pianeta. In qualche modo è stato l'apice della nostra evoluzione. Ci siamo sentiti invincibili.
Nel giro di un solo mese è cambiato tutto. Un microscopico essere sta rivelando, invece, tutte le nostre fragilità. Gli scenari che la questione del "cambiamento climatico" ci stava prospettando come imminenti - ma spalmati su un orizzonte di qualche decennio - si sono manifestati all'istante con una potenza di fuoco deflagrante.
Sono muto e incapace di riflessioni coerenti da settimane.
Quando ho finito il tour di presentazione di "Come vignaioli alla fine dell'estate" proprio in quel momento esplodevano i primi casi in Lombardia e Veneto. In pratica quel libro, che parla di estinzione di massa, decrescita e natura ibrida, è stato di colpo attualizzato da una realtà che è esplosa a velocità folle.
Ecco, io non lo so se andrà tutto bene.
Leggo decine di articoli su come sarà il mondo dopo il Coronavirus. Su come sarà l'economia, su come cambierà la politica, su come muteranno le nostre abitudini. E vedo un sacco di interventi sul "nostro" mondo, quello dell'enogastronomia e dell'agricoltura. Ristoranti che non riapriranno, distributori e importatori che falliranno, aziende vinicole che faranno fatica a stare in piedi.
Leggo, ascolto, rifletto. Ma resto muto.
Il mondo di prima è finito, dicono. Ma come sarà quello futuro nessuno può saperlo con certezza. E forse è proprio in questo assurdo e dilatato presente che può celarsi una strada: nei momenti di svolta le nostre scelte valgono doppio. Quel mondo che avevamo in mente e che ci sembrava impossibile, divorato dal Pensiero Unico, diventa una possibilità concreta e non solo utopistica.
Qualche volta penso che La Distesa potrebbe anche non esistere più, perlomeno nella sua forma attuale. Poi, subito dopo, penso: e chissenefrega. Se siamo custodi di un pezzo di t/Terra questo prescinde dall'essere una "azienda". Le nostre scelte del passato non sono state fatte in chiave economica. Ci adatteremo. Resistenza Naturale significa innanzitutto adattamento. Cambiare per continuare a fare parte della rete della vita, dell'ecosistema.
Non sappiamo ancora come farlo ma potrebbe anche rivelarsi un nuovo inizio.
E quindi Peace Love, Soul. And resistance!
mercoledì 28 febbraio 2018
Dichiarazione di voto
Stavolta l'avrei fatto con ancora più convinzione del solito, visto l'orrore in campo.
Quello che, però, sta accadendo nel ventre più profondo delle società italiane ed europee (verrebbe da dire: mondiali) necessita di una presa di posizione.
Serve a niente. Ma voterò antifascista. Come segnale, come inutile atto di resistenza (peraltro la mia intera esperienza politica è stata sotto questo segno, dunque ci sono piuttosto abituato. Con l'età nemmeno ci soffro più).
Voterò, però, con in mente due figure fondamentali - ed ovviamente sempre più dimenticate - dell'Italia e dell'Europa del passato recente: Alex Langer e Lucio Magri.
A loro voglio dedicare il mio "voto situazionista", il mio gesto inutile dentro una democrazia svuotata. A loro che molto avevano capito. A loro che sono morti entrambi suicidi perché gli era insopportabile vivere in un mondo che andava in una direzione opposta e contraria a quella del loro impegno politico e civile.
Ad Alex Langer, pacifista, verde, cattolico illuminato, che aveva visto chiaramente nel risorgere dell'odio etnico in Jugoslavia (e più in generale in Europa) e nella critica di un sistema economico inumano ed insostenibile i semi di una nuova crisi europea.
E a Lucio Magri, comunista libertario, che aveva perfettamente intuito la parabola finale di quel Partito Comunista Italiano, dal quale era stato prima espulso, poi riaccolto e infine disconosciuto nella corsa a perdifiato di PDS, DS, PD verso l'omologazione ed il centrismo interclassista.
In particolare mi piace ricordare, ai tanti di sinistra che ancora insistono nell'affermazione tatcheriana che "non c'era alternativa" (al mondo ad una dimensione, al pensiero unico, alla globalizzazione, al Mercato, alle "riforme", a "questa" Europa), che qualcuno, con grande lucidità e con un linguaggio ed un pensiero che dovrebbero appartenere sempre alla parola "politica", qualcuno aveva intravisto il percorso e l'approdo.
Per cui abbiate pazienza ancora un po' e leggete qui di seguito l'intervento di Lucio Magri contro la ratifica del Trattato di Maastricht nella seduta della Camera del 29 ottobre 1992.
Perché quel voto fu uno dei nodi di svolta della nostra storia recente. E piaccia o non piaccia, molti dei protagonisti di quella svolta siedono ancora in Parlamento (o ci vogliono rientrare), spesso raccontando le stesse balle a gli stessi illusi elettori di sinistra.
Le parole di Magri - ventisei anni dopo - sembrano scritte oggi e prevedevano con una lucidità disarmante il diluvio che stava per arrivare.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Magri. Ne ha facoltà.
Lucio MAGRI. Signor Presidente, i deputati del gruppo di rifondazione comunista voteranno contro il disegno di legge di ratifica del trattato di Maastricht. In questa scelta siamo, qui ed ora, molto isolati, una esigua minoranza a fronte di uno schieramento quasi unanime.
Ancora qualche mese fa la nostra sarebbe apparsa una scelta di pura testimonianza, rilevante solo per chi la compie. Ma ora non è più così, anche se nel Parlamento, che su questo tema è avaro non solo di presenze ma anche di pensiero e di analisi non retoriche, si stenta a prenderne atto. Maastricht è infatti diventato all’improvviso un problema aperto. La Danimarca ha detto «no» al trattato; in Francia metà del paese ha fatto altrettanto; in Inghilterra la maggioranza degli elettori, se potesse esprimere il proprio parere, direbbe di no ed anche il parlamento, in questi giorni, traballa; in Germania l’opposizione è estesa, così come in Spagna.
D’altro canto, proprio nel momento in cui si decide di accelerare l’unità europea partendo dalla moneta unica e dalle banche centrali, esplode la crisi dello SME: le banche centrali vanno ognuna per la propria strada e le loro scelte vengono aspramente contestate. Solo l’arroganza del potere, che si coniuga al luogo comune e determina la stupidità come prezzo necessario, e solo l’opportunismo che ciò genera negli oppositori benpensanti possono dunque spiegare il fatto che le nuove evidenze degli accadimenti non abbiano prodotto, qui e nel paese, quanto meno una riflessione nuova, un’articolazione reale di atteggiamenti. A noi, al contrario, questi fatti impongono e permettono di chiarire meglio le ragioni razionali del nostro «no» e di considerarlo l’inizio di una battaglia che diventerà rapidamente incisiva e che può conquistare forze nuove.
Quali sono dunque, in sintesi, le ragioni del nostro «no»? Innanzi tutto, il rifiuto di una Europa che nasca con un segno marcatamente autoritario. L’unità nazionale è nata in connessione con i primi passi della democrazia moderna; non vogliamo che l’unità continentale corrisponda al suo declino.
Ma è questo che sta accadendo, già nel modo in cui il trattato è stato discusso e definito — un accordo cioè tra Governi rispetto al quale i parlamenti nazionali possono solo dire «sì» o «no» —, ma ancora di più nella struttura di potere reale che l’accordo produce. I veri centri promotori e regolatori del processo di unificazione sono e saranno il consiglio delle banche centrali e l’integrazione delle strutture militari. E, se mai, del tutto parzialmente, resta in campo una sede politica che può avere influenza su di loro, tale sede è quella del concerto dei Governi.
A questo punto, dunque, si ratifica e si conclude un processo che durava da anni, che è un processo di trasferimento di potere non solo dallo Stato nazionale al livello sovranazionale, ma, attraverso questo, dalle istituzioni direttamente legittimate dalla sovranità popolare ad istituzioni politiche auto nome o a puri poteri di fatto. Il ruolo di comparsa in cui è sempre più relegato il Parlamento europeo, proprio in quello che dovrebbe essere il passaggio dalla Comunità economica all’unione politica, simboleggia questa realtà rovesciata. E mi pare incomprensibile, anzi patetico, il discorso di chi vota il trattato augurandosi che si possa presto completarlo con istituzioni politiche democratiche: Maastricht va esattamente nella direzione contraria.
La seconda ragione del nostro voto non è meno importante, ma anzi lo è ancora più ed è soprattutto più trascurata. Il trattato non fissa solo delle regole e dei soggetti abilitati ad applicarle; fissa anche, direttamente e indirettamente, un indirizzo. L’indirizzo è definito in estrema sintesi così: il funzionamento pieno di una economia di mercato, ma non nel senso — badate — ovvio e banale del riconoscimento del mercato, bensì nel senso di una radicale e sistematica riduzione di ciò che sussiste di non mercantile, cioè di tutti quegli strumenti attraverso i quali le democrazie europee nell’epoca keynesiana, cioè dopo gli anni trenta e soprattutto dopo il 1945, avevano appreso a governare gli eccessi del gioco cieco del mercato.
Così è esplicitamente e rigorosamente stabilito che le banche centrali non possono finanziare il debito pubblico; che è vietato stabilire prezzi e tariffe privilegiate per imprese o amministrazioni pubbliche; infine, che si istituisce una moneta unica emessa da una banca centrale indipendente dalle istanze democratiche, così come lo erano prima della grande depressione o come lo è oggi la banca tedesca, di cui pure si critica l’ottusità deflazionistica. Ciò che si crea non è dunque solo un potere concentrato, ma un potere usabile in molte direzioni: è, nel contempo, una certa struttura ed una sua direzione di marcia.
Un discorso analogo, anche se meno pregnante, si potrebbe fare sull’unificazione militare. Anche qui, non c’è alcuna unificazione di progetti politico-economici, di politica estera, ma solo la creazione di un apparato che, per sua natura e composizione materiale, è rivolto a garantire possibilità di intervento per arginare crisi che nascono alla periferia dell’Europa e che non si sa come prevenire.
Non meno conta, però, l’indirizzo che si definisce in modo indiretto. Ad esempio, con la perdita dell’autonomia monetaria restano allo Stato nazionale gli strumenti della politica di bilancio, ma solo in parte ed apparentemente, perché le politiche fiscali non unificate sono vincolate, anzi, dalla circolazione libera dei capitali a farsi concorrenza nel senso di essere più permissive per attirare risorse. Vincoli monetari e vincoli fiscali si sommano così nell’imporre la via obbligata del contenimento strutturale e non congiunturale della spesa pubblica, degli investimenti sociali o comunque a lungo termine.
Tutto ciò ovviamente non è del tutto nuovo. Ieri il Presidente Amato ha riconosciuto con insolita franchezza che l’Italia vive ormai in un regime di sovranità limitata, e non solo l’Italia, se è vero, com’è evidente, che anche paesi come l’Inghilterra, che non hanno un grande disavanzo pubblico, o come la Svezia ormai sentono il peso di un potere esterno cui non riescono ad opporsi. Ma di questa sovranità limitata Maastricht è una sorta di ratifica, di legittimazione definitiva, e il prossimo prestito che l’Italia otterrà dalla Comunità comincerà a definire già il primo protocollo delle sue clausole. Non è allora esagerato dire che disoccupazione e taglio dello Stato sociale sono inerenti al contenuto del trattato; il prezzo scontato della linea di politica economica in esso implicita ma molto rigorosa.
Vengo così alla terza ed ultima ragione del nostro «no». Nella logica di questo tipo di unificazione europea (ecco il punto che si dimentica) è non solo prevedibile, ma fatale, la prospettiva dell’aggregazione selettiva delle aree forti e dell’emarginazione ed esclusione delle periferie e semiperiferie. Non è vero, e soprattutto non è vero in questa fase, che il gioco di mercato, la supremazia dei parametri finanziari, la priorità del cambio tendano a promuovere un allargamento della base produttiva. Anzi, è evidente proprio il contrario: in assenza di politiche attive di sviluppo, le aree più deboli, financo all’interno dello stesso paese, regrediscono.
E così, mentre si solidifica un centro forte che tende ad attrarre ed integrare regioni limitrofe anche fuori dalla Comunità, si emarginano interi paesi più deboli.
La linea di confine — lo sottolineo — tra i due processi attraversa nel profondo la realtà italiana, il nord e il sud. Cosicché, se da un lato è probabile che l’Italia nel suo insieme non sia in grado di rispettare gli esorbitanti vincoli posti da Maastricht per il 1997, e sarà dunque costretta ad una rincorsa insieme affannosa e perdente, dall’altro lato in questa prospettiva dell’Europa a due velocità troviamo una chiave di lettura ed un moltiplicatore travolgente delle spinte secessioniste nell’Italia, nel prossimo futuro.
Maastricht non promette allora l’unità dell’Europa, ma in compenso promuove la divisione dell’Italia e, più in generale, una moltiplicazione, che già si registra ovunque, di spinte, passioni, interessi localistici e di subculture nazionali. Non è un passo imperfetto e parziale verso l’unità europea, ma il rischio della sua crisi.
C’era e c’è un’altra strada? C’era, a mio parere, e c’è. È quella coraggiosa di una costituente politica europea che produca insieme istituzione e soggetti politici unitari e democratici. È quella, dall’altra parte, dell’unificazione delle politiche economiche effettive come strumento di sviluppo orientate sulla priorità dell’occupazione, del risanamento ambientale, dell’allargamento della base produttiva regionale. Ma per percorrerla occorrerebbe costruire una sinistra politica e sindacale, riconquistare un’autonomia culturale rispetto alla genericità retorica dell’europeismo degli ultimi anni.
Su questo terreno il ritardo è però grandissimo.
C’è, e opera, un soggetto politico culturale forte, organizzato nel capitale internazionale. Esso ha i suoi strumenti nella circolazione dei capitali, addirittura una lingua propria: l’inglese impoverito dei managers.
La sinistra invece, e in generale le forze politiche democratiche, come soggetto europeo quasi non esiste. L’Internazionale socialista è ormai un involucro in gran parte vuoto. L’Internazionale comunista non c’è più, quella verde non è decollata, un’Internazionale cattolica non è mai esistita. Ecco, a maggior ragione, occorre per questo trovare un punto di partenza da cui invertire una tendenza, da cui risalire una china che porta ad una unità dimidiata e ad un’unità dai contenuti che ho descritto.
Il problema, per noi, è allora proprio questo. Il «no» a Maastricht e la lotta contro le sue conseguenze nei prossimi anni saranno una battaglia che permetterà di cominciare a costruire un’Europa diversa, un Europa democratica nelle sue istituzioni, socialmente definita nei suoi traguardi e nei suoi obiettivi.
Le ragioni del nostro «no» sono dunque contestuali ad un «sì» per un’Europa diversa. E constatiamo con grande stupore come tanta parte della sinistra italiana, su questo terreno, non abbia saputo trovare quanto meno gli accenti di una diversità, di un’alternativa. Come si fa a volere un alternativa in Italia, con questa ammucchiata senza forma sui grandi temi delle prospettive dell’Europa?
martedì 26 settembre 2017
I nazisti dell'Illinois
In questi giorni quegli stessi giornali non fanno che parlare di fascismo, xenofobia, razzismo. Uniche categorie per poter spiegare - dal loro punto di vista - come sia possibile che anche nella ricca, europeista e competitiva Germania le "masse" siano incazzate e i socialisti vengano sconfitti. Il problema sono ovviamente l'immigrazione - soprattutto i rifugiati siriani in questo caso - e il populismo. Lo stesso mantra ripetuto fino alla noia per #brexit #trump #lepen. Lo stesso mantra che Renzi ripete per convincere gli italiani a non votare M5S o Salvini: o me o i populisti. Chiaramente, di questo passo, gli italiani voteranno proprio per i populisti.
E la ragione è di una semplicità disarmante, chiara perfino ai miei figli di 9 e 11 anni: se per trent'anni fai politiche di destra alla fine favorisci la destra. Strano no?
Ora, lo so che gli italiani hanno nel loro DNA il fascismo ed una certa allergia per gli stranieri; e so altrettanto bene che in Germania i nazisti esistono ancora; e sono anche assolutamente consapevole che ingenti flussi migratori possano generare dei problemi di coesistenza.
Ma non è questo il punto.
La dinamica per cui la sinistra istituzionale sta perdendo e scomparendo in tutta europa (ma anche in USA non sta benissimo dopo il tracollo di Clinton) è essenzialmente legata al tradimento nei confronti dei propri elettori storici, all'assoluto fraintendimento della situazione storica attuale, ad errori clamorosi nelle politiche economiche. Provocando - ma neanche tanto - si può dire che la Brexit è figlia di Tony Blair, Trump del brusco risveglio dal sogno di Obama, Salvini e i 5S di una sinistra italiana che per vent'anni ci diceva "o noi o Berlusconi", salvo alla prima occasione utile farci un governo assieme. E si potrebbe continuare.
La realtà è invece ben rappresentata da questi due grafici, che raccontano cosa è capitato nel mondo negli ultimi sessanta anni (i grafici ritraggono la situazione americana ma non sarebbero molto diversi in Europa).


Cosa c'entra questo con le elezioni tedesche? Se nelle vene delle classi dirigenti della sinistra scorresse ancora un briciolo di buon marxismo, capirebbe l'ovvio: le riforme strutturali tedesche, prese ad esempio in tutta l'Europa dell'austerità, Mario Monti in primis, hanno generato una macchina economica perfetta (il primo esportatore di merci al mondo) ma al prezzo di un aumento della precarietà, di lavori malpagati (i minijobs), di disuguaglianze mai sanate fra ovest ed est del paese. Una strisciante rabbia sociale cui i socialdemocratici hanno risposto con la grande coalizione, cioè con l'alleanza durata anni con la Merkel. Alleanza risultata ora fatale a Schulz.
Una workin' class che si sposta a destra è difficile da digerire ma questo è ciò che sta succedendo nel mondo occidentale: lo scrive bene Alberto Bagnai nel suo blog dove il grafico qui sotto vale più di mille peripezie verbali su quanto siano xenofobi i tedeschi: sono in grandissima parte le più povere aree della Germania Est ad avere votato l'estrema destra.
Ma questa "classe operaia allargata", questo neo-proletariato diffuso in tutti i paesi ad economie avanzate, non odia l'immigrato perché naturalmente portato a farlo: odia l'immigrato perché da trenta anni a questa parte gli è stato raccontato dai politici, dai media, dalle classi dominanti che il suo "nemico" non era più l'industriale (quello che a guardare il grafico sopra si prende la fetta più grande della torta) ma il suo omologo nei paesi emergenti, il suo pari grado in catena di montaggio o lo studente brillante arrivato da un altro posto a "rubargli il lavoro". Perché se non c'è "lotta di classe", cioè scontro fra capitale e lavoro, resta una cosa sola: la guerra fra poveri. Comprensibile che - per chi ha tradito - sia più facile dar la colpa ai barconi di migranti piuttosto che allo sfascio di un sistema economico che ha nell'Europa dell'Euro il suo basamento principale, ed aggrapparsi a Minniti invece che a Keynes.
Insomma, in questi anni che sembrano sempre più vicini agli anni trenta del secolo scorso, sembra davvero oramai troppo tardi per costruire una narrazione differente, che prescinda la contempo da questa Europa e da un nazionalismo fuori tempo massimo.
Ma intanto avere chiare le cause e gli effetti potrà servire, in qualche modo. Che quelli che arrivano non saranno i nazisti dell'Illinois. E li avrà generati l'Europa di cui ancora blaterano Scalfari e Prodi.
giovedì 5 gennaio 2017
Buon 2017 "Natural Wine"!
Puzza? Non Puzza? Questa la ridicola dicotomia, il recinto in cui si vuol chiudere il vino naturale.
Ma la cosa meravigliosa è che - proprio come un boomerang - questa strategia di attacco mediatico da tempo si ritorce contro i suoi ideatori/propugnatori, tanto che il boom dei vini puzzolenti (=naturali) sembra inarrestabile.
Non so se sia una buona notizia. Probabilmente no. Ma il fatto che fiere come RAW siano state sperimentate con successo in posti nuovi (e non certo secondari) e che ovunque nel mondo nascano nuovi produttori, nuovi distributori, nuove occasioni di confronto sui vini puzzolenti (=naturali) forse dimostra il fallimento dell'ortodossia ad ogni costo.
E allora a chi continua a far finta di niente, a qualche anno dalla schifosa lettera di inizio 2013, così come ai tanti "opinionisti star" che invadono il web, mi piacerebbe ricordare che quel giornalettino vinoso che si chiama Decanter sta contattando noi produttori di vini puzzolenti (=naturali) per una degustazione di Natural Wines (senza virgolette, questi spudorati!) in cui, non solo non si mette in discussione l'esistenza del vino naturale, ma lo si descrive anche: e guarda un po' (!!!), attraverso una "carta della qualità" che non fa altro che riprendere le molte autocertificazioni prodotte negli anni dalle associazioni di vino naturale francesi ed italiane. Sono proprio pazzi questi inglesi!
Ma allora il vino naturale esiste o no?
E Puzza?
Ma quanto puzza?
Buon 2017 a tutti
Natural Wine ‘Charter of Quality’
All wines must adhere to this charter if they wish to enter into the ‘Top 25 Natural Wines’ tasting:
Vineyards farmed organically or bio-dynamically (Certification strongly preferred, but will accept uncertified)
HandHarvestedonly
Fermentation with indigenous (wild) yeasts
Noenzymes
No additives added (e.g. acid, tannin, colouring) other
than SO2
SO2 levels no higher than 70mg/L total
Un-fined and no or light filtration
No other heavy manipulation – e.g. spinning cone,
reverse osmosis, cryoextraction, rapid-finishing, Ultraviolet C irradiation
venerdì 5 agosto 2016
La garanzia partecipata
Secondo l’IFOAM (International Federation of Organic Agriculture Movements) “I sistemi di garanzia partecipata sono sistemi di assicurazione della qualità che agiscono su base locale; la verifica dei produttori prevede la partecipazione attiva delle parti interessate ed è costruita basandosi sulla fiducia, le reti sociali e lo scambio di conoscenze”.
Negli ultimi anni il dibattito sull’agricoltura biologica ha portato ad una critica sempre più serrata della certificazione classica, di parte terza. Troppo onerosa per i piccoli produttori, spesso incentrata più sugli aspetti burocratici che produttivi, legata a disciplinari europei che spesso risultano essere ben poco “biologici” nello spirito e nei contenuti, il classico “bollino” del biologico è oramai un marchio distintivo degli “industriali” del bio e poco si adatta alle vere produzioni artigianali delle piccole aziende agricole europee.
Per questi motivi si è spesso parlato dell’autocertificazione come strumento di comunicazione ai consumatori delle pratiche agricole e di trasformazione effettuate dagli agricoltori. Soprattutto nel mondo del “vino naturale”, che spesso rifiuta in toto la disciplina del biologico, la pratica dell’autocertificazione, lanciata per la prima volta nell’ambito del progetto Critical Wine, è stata recepita come soluzione libertaria e trasparente al problema.
Oramai da qualche anno, però, insieme ed accanto ai Gruppi di Acquisto Solidali, sono nate e si sono sviluppate alcune esperienze che, partendo proprio dal concetto di autocertificazione, hanno portato una profonda innovazione all’idea stessa di “certificazione”: nei Sitemi di Garanzia Partecipata (PGS) la partecipazione diretta dei produttori, consumatori ed altri parti interessate nei processi di verifica non solo è incoraggiata ma viene richiesta. Questo coinvolgimento è realistico e praticabile dato che i PGS sono verosimilmente adatti a piccoli produttori e a mercati locali o vendita diretta. I costi della partecipazione sono bassi e principalmente prendono la forma di impegno volontario di tempo piuttosto che di spesa economica. Inoltre la documentazione cartacea è ridotta al minimo, rendendo il sistema più accessibile ai piccoli operatori.
Gli elementi chiave della garanzia partecipata sono:
Partecipazione. La credibilità del sistema è una conseguenza della partecipazione attiva di tutti gli attori.
Progetto condiviso. Cioè produttori e consumatori devono condividere consapevolmente i principi ispiratori del PGS.
Trasparenza. Tutti gli attori coinvolti devono avere un buon livello di consapevolezza delle modalità di funzionamento dl sistema.
Fiducia. Il sistema si basa sulla convinzione, diffusa tra tutti gli attori, che i produttori agiscono in buona fede e che la “garanzia resa” sia espressione di tale affidamento.
Apprendimento. La “garanzia” deve tradursi in un processo di apprendimento collettivo permanente, che irrobustisce tutta la rete coinvolta.
Orizzontalità. Tutti gli attori coinvolti nel PGS devono condividere il medesimi livello di responsabilità e competenza nel processo.
Esperienze attive sono ad esempio quelle di ASCI Toscana o di CAMPI APERTI. In questi casi consumatori e produttori visitano le aziende agricole, approfondiscono la conoscenza dei prodotti e dei metodi agricoli, controllano che tutto sia corrispondente a quanto dichiarato dall’agricoltore in modo da creare una sorta di “credibilità sociale” che vale molto di più rispetto al bollino dell’ente certificatore basato essenzialmente su controlli cartacei.
La domanda è: possono i PGS essere applicati al movimento del vino naturale? In che modo? Con quali finalità?
domenica 14 dicembre 2014
Un libro "di movimento"

giovedì 10 luglio 2014
Sulla riva del fiume
Alla fine, dopo tutto 'sto gran correre, questo gran parlare, questo viaggiare in giro e in tondo, questa continua, reiterata, ripetuta voglia di fare e inventare, di essere - senza volerlo assolutamente - in qualche modo al centro di una scena, sebbene piccola e un po' nascosta... Alla fine...
Alla fine uno si trova spossato. Vuoto. Con la consapevolezza, magari sbagliata o forse solo lì appesa ad una intuizione, che si stia dando più di quanto si riceva.
E allora, poi, viene la voglia di sedersi sulla riva del fiume.
Come ad aspettare.
Per riposarsi un po' e vedere quel che succede, se succede. Perché il più delle volte non succede un bel niente. Il mondo continua a girare, l'acqua a scorrere e il vino a versarsi nei bicchieri. I movimenti prima avanzano e poi si fermano e le stelle son lì ferme da millenni.
Tra poco una nuova vendemmia.
E speriamo che la smetta di piovere e grandinare.
sabato 1 febbraio 2014
Velenitaly, l'olio italiano e il futuro del giornalismo indipendente
venerdì 27 dicembre 2013
La grande bellezza
giovedì 24 maggio 2012
C'era una volta "Terra e Libertà" - Seconda parte
Le divisioni fra produttori e la deriva “commerciale” hanno fatto il resto. Col risultato che le commissioni assaggio DOC bocciano i nostri vini e la nostra reazione “tipo” è: chissenefrega declasso tutto, tanto il vino lo vendo lo stesso. Regalando le denominazioni, che sono beni comuni, agli industriali.
Nel frattempo nelle associazioni “naturali” è all’ordine del giorno il tema delle espulsioni e delle analisi per controllare chi fa il furbo… Tutto bene. Tutto comprensibile.
Però mi chiedo: non eravamo libertari? Non ne avevamo piene le scatole dei controllori e burocrazia? Non c’è il rischio di gossip e delazioni, soprattutto considerando che si tratta di associazioni private e non di enti terzi “super partes”? E’ questo che vogliamo? Una polizia Contadina?
Non volevamo invece costruire co-produttori, consumatori in grado di discernere l’autentico? E cosa pensiamo di chi magari ha zero residui in un vino ma sfrutta manodopera in nero? E’ naturale? E di chi ha zero residui in un vino prodotto ma spiana una collina per piantarci un vigneto? E’ naturale? E’ controllabile dalla polizia contadina?
Tutto ciò suona folle. Come suona folle la volontà di una ricerca scientifica “privata”. Sono i miliardari, generalmente, a finanziare privatamente la ricerca. E non lo fanno mai a scopo di beneficenza. La ricerca e la scienza devono essere pubbliche e pubblicamente confutabili. Sinceramente apprezzo maggiormente chi fa riferimento ai saperi tradizionali o chi se ne frega della scienza ufficiale e crede nelle forze dello spirito, di chi crede che si possa scoprire chissà quale Santo Graal della fermentazione spontanea.
L’autocertificazione ha fatto una brutta fine ma il prezzo sorgente è finito peggio. E’ talmente sparito il problema dei prezzi dal dibattito che oggi è quasi impossibile trovare vini naturali a prezzi umani. E spesso si trovano più cari nei mercati che sul Mercato. Certo, l’idea così come era nata non era forse granché… Ma da qui a far sparire il problema, ce ne corre.
Le Denominazioni Comunali, in compenso, sono state depotenziate e regalate a un paio di siti e a qualche Comune che ne fa “Testimonianza”. L’idea di Gino era quella di rivoluzionare il sistema delle denominaizioni di origine (sic): non poca la distanza fra la teoria e la prassi, a testimoniare il Vuoto che si apre innanzi a noi proprio nel momento del massimo successo dei vini naturali.
C’è voglia di ricominciare una riflessione su tutto ciò? L’alternativa è semplice: abbiamo dei prodotti richiesti, degli ottimi vini naturali apprezzati da un mercato in crescita. Possiamo fermarci a questo, che è già tanto, tantissimo, in un momento di crisi. Nessuno lo nega.
Ma ci basta? E, soprattutto, basta in prospettiva? Oppure è solo come rinviare una guerra (e intanto l’avversario affina le armi)?
In questo quadro penso che ritrovare una qualche unità sia impresa ardua se non impossibile. L’unica strada, a mio avviso, sarebbe quella di separare definitivamente l’aspetto commerciale (fiere e mercati) dall’aspetto più strettamente politico-culturale.
Io credo che la tanto vituperata “nicchia” costituisca un ottimo punto di partenza se osservata dal punto di vista di una comunità che si è incontrata sulla strada in questi anni.
Ecco, allora, una prima idea che mi viene per uscire dall’impasse: gli “Stati generali” del vino critico. Un grande momento di aggregazione e socializzazione di esperienze, vissuti, discussioni, ricerche dove mettere assieme tutti i soggetti che a diverso titolo si sono occupati di vino naturale o agricoltura contadina in questo decennio. Non una fiera, ma un grande happening aperto, un momento di riflessione “politica” sul tema. Un grande Critical Wine Forum Europeo, un festival del vino "alternativo", con seminari, discussioni, concerti, assemblee, degustazioni, proiezioni, letture. Un appuntamento annuale in grado di produrre un linguaggio comune, una cultura condivisa, una trasmissione di saperi. Con la prospettiva di aprire una rete nazionale che sia in grado poi di strutturarsi nelle singole regioni attraverso momenti locali di aggregazione.
Il vino non più come “fine” ma come “mezzo”: strumento potente di convivialità ed approfondimento culturale Per parlare di agricoltura e modelli di sviluppo.
Su questa strada – io credo - potremo incontrare soggetti che il vino, per ora, lo hanno solo sfiorato (reti di economia solidale, gruppi di acquisto, circoli culturali, associazioni agricole indipendenti) e pratiche ancora poco usate nel vino come la “garanzia partecipata”, unica risposta davvero alternativa alle certificazioni di qualità.
Rimettersi in discussione, quindi. Ripartire da zero, in un certo senso.
Superare l’idea commerciale di “fiera”, lasciando il commercio alle singole scelte aziendali e muovendosi, invece, a livello aggregato verso una riflessione culturale, filosofica, politica.
In una parola: superare il marketing del “naturale”.
Andare oltre il “vino naturale”.
mercoledì 11 aprile 2012
Facile profeta
In tempi non sospetti avevo scritto alcuni pezzi: la fine di un mondo, fuori dalla crisi? e ancora il default morale. Anche in questo post, Economisti, brutta razza, avevo inserito qualche riferimento alla realtà degli ultimi anni.
Ieri la borsa ha registrato l'ennesimo crollo ed il famigerato spread negli ultimi giorni è risalito. La disoccupazione è a livelli spaventosi, non passa giorno senza che qualche azienda chiuda, la situazione dei giovani è disperata. In questo contesto, tremendo in Italia ma non certo roseo in Spagna e Francia o Stati Uniti d'America, le politiche economiche nazionali in tutto il mondo vanno verso una direzione opposta a quella che sarebbe richiesta dalla ragione ovvero suggerita da un pizzico di verità storica.
L'esempio del tira e molla sul mercato del lavoro è emblematico: tutti i guru dell'economia a blaterare sulla necessità di una maggiore flessibilità. Nessuno che ricordi, anche solo per onestà intellettuale, che la rigidezza del contratto indeterminato era stata pensata esattamente in termini anti-ciclici, per impedire cioé che durante le crisi i licenziamenti "facili" aumentassero la disoccupazione deprimendo ulteriormente la domanda aggregata. Perché ogni lavoratore è anche un consumatore, no?
Ma Keynes è fuori moda dal 1971. Da quando, cioé, i potenti del mondo hanno iniziato la "grande rapina": le politiche neoliberiste che hanno prodotto i guasti della globalizzazione selvaggia della finanza. Quella per cui continuiamo a regalare soldi alle banche e a quel 1% della popolazione mondiale che detiene il monopolio di una oramai fragilissima pseudo-democrazia globale.
Mario Monti è un onesto professore. Credo che lui e la Fornero siano anche profondamente in buona fede. Hanno ereditato macerie da gente come Bossi, e non c'è da aggiungere altro. Il problema è che questo governo è un protettorato della finanza europea. Semplicemente non si può agire con strumenti che fanno riferimento ad un mondo che non c'è più. Pensando alle società del benessere degli anni passati, ad un "mondo occidentale" sviluppato che vive una crisi passeggera...
Cosa aspettano le sinistre globali a prendere posizione? E' davvero tutto finito? Non ci si accorge che è necessaria una gigantesca ristrutturazione dei debiti sovrani? Che dobbiamo cambiare il modo di pensare l'economia stessa?
giovedì 29 marzo 2012
Colpito ed affondato
Alla fine quello che mi è rimasto maggiormente impresso, quello che mi ha davvero colpito ed affondato, è l'editoriale del nuovo numero di Pietre Colorate affidato a Francesco De Franco.
"In natura non esiste il tempo, né tantomeno il tempo lineare, concetto immaginato dagli uomini come una freccia lanciata verso l'infinito, un procedere frazionato e ordinato di azioni utile a pianificare e dominare l'agire degli uomini e funzionale all'idea della crescita illimitata.
Nella nostra contemporaneità l'uomo ha creduto e crede che con l'ausilio della tecnica sia possibile realizzare tutto, dovunque. Penso sia necessario fare un passo indietro e provare a riascoltare la primavera. Vivere intensamente il presente, entrare nel flusso ciclico della natura e cercare di risuonare con essa per riacquisire la sensibilità che la cultura contadina aveva sviluppato in secoli di umile osservazione. Dimenticare il nostro tempo e riconoscere alla natura un ordine superiore alla vanità umana del fare senza limite".
Ecco, queste parole sole valgono più delle mille discussioni su Cerea o Vinnatur o Vinitaly, sui vini naturali o veri o biologici, sulla biodinamica o sulla certificazione. Siamo di fronte ad una contraddizione così radicale che riguarda l'intera dimensione ontologica dell'uomo. Pochi se ne rendono conto, ma la questione della Terra, e dunque solo in ultima istanza del vino naturale, è sempre più al centro di ogni riflessione sullo "sviluppo" o sul "progresso". Ed è una questione così radicale che risulta irriducibile ad ogni pretesa di riduzionismo economico o, peggio, markettaro.
A me fa piacere aver potuto incontrare in questi anni, lunghe le strade che ci hanno portato nelle varie "riserve indiane" del vino contadino - io preferisco chiamarle "comunità" - persone come Francesco. Con le quali è possibile condividere scelte e percorsi, inserendo le nostre identità particolari dentro uno scenario più vasto e generale, filosofico prima che economico.
Forse è possibile ripartire da qui. Da un concetto di comunità organizzata in grado di parlare una lingua differente. Il primo compito, allora, sarebbe quello di trovare un linguaggio.
giovedì 15 marzo 2012
martedì 6 marzo 2012
Nausea
Sento sempre più netta una sensazione di fastidio rispetto al "carrozzone" fatto di degustazioni, chiacchiere, discussioni, punteggi, presentazioni, guide. Tutto quel contesto di professionisti, giornalisti, bloggers, nani e ballerine che pare oramai essere più importante del vino stesso.
Non ci accorgiamo, presi oramai dalla frenetica e sempre più onanistica esaltazione da degustazione - anche di vini naturali - che la gente beve sempre meno vino. Che si è perso il gesto, naturale sulle tavole italiane fino a poco tempo fa, di versare del vino per accompagnare un pasto, semplice o elaborato non importa.
Mi era venuta un pò la nausea di tutto quel chiacchiericchio pseudo-tecnico intorno ad un calice assaggiato in mezzo alla ressa, al casino, alla bolgia delirante di decine di fiere, piccole o grandi che fossero. Che il vino a me è sempre piaciuto berlo a larghe sorsate, a tavola, in compagnia, mangiando e conversando d'altro, e magari solo incidentalmente di vino. Quasi che il vino sia il mezzo e non il fine.
Come se il Verdicchio ci possa far parlare di Luigi Bartolini, anziché di acidità fissa e profumi primari... Che idea stravagante, eh?!
Così, se ti allontani un attimo, ti accorgi di ciò che stavi diventando... Della mutazione stessa del tuo linguaggio. Tipo ripetere cento volte "minerale"? Perché? Che senso ha? E macerazioni, solfiti, tannini, pratiche biodinamiche... Tutto bello, ma il punto è che si finisce inesorabilmente col perdere la verità del vino, dei gesti, delle persone.
E quel che è certo è che non sono tornato a vivere in campagna per ripetere la litania del "minerale" con qualche fighetto esaltato dalla moda dei vini naturali.
Una via ci dovrà pure essere per restare "naturali" fra di noi. Per restare umani. Per aprire una boccia di vino a tavola senza ottocentomila sovrastrutture mentali.
Insomma, buon Vinitaly a tutti.
venerdì 16 dicembre 2011
Il default morale
“diritto a fare default? E il diritto dei risparmiatori, pensionati, famiglie, un po in tutto il mondo, di non perdere i soldi investiti nel debito pubblico italiano?
Questo vuol dire essere di sinistra? Scaricare sugli altri i propri problemi, non assumersi le proprie responsabilita' collettive e private?”
“ah, mi sono dimenticato, le liberalizzazioni. Gia', perche' in questo paese sciagurato purtroppo e' la sinistra che deve chiedere le liberalizzazioni, mentre la destra liberale non esiste proprio. Mentre il popolo della sinistra e' tutto li' invece ad applaudire alle lobbies del farmaceutico, dei tassisti, degli ordini professionali, ecc. Ecco la radiografia di un paese nello sprofondo”.
Nel mio post “La sinistra non c’è più” ho condensato in poche righe alcune considerazioni molto generali sul clima economico-sociale che si respira nel nostro paese. Un blog – per definizione – non è il luogo ideale per discussioni sui massimi sistemi. La sollecitazione di Paglia, però, mi costringe a chiarire meglio alcuni concetti su cui già mi ero soffermato qui, qui e soprattutto qui.
La crisi è crisi di sistema. La crisi è la crisi del capitalismo su scale globale. La finanza di rapina sta semplicemente svelando il fallimento di un modello “nato” nel 1971 con la fine di Bretton Woods e che ha avuto nella globalizzazione dei mercati finanziari negli anni novanta la sua spinta finale (definitivamente con lo sciagurato Gramm-Leach-Billey Act della amministrazione Clinton del 1999, vera causa "ultima" della crisi dei mutui sub-prime).
Ma non voglio farla lunga. Entro nel merito.
1) Il diritto dei risparmiatori di tutto il mondo. Ciò che l’economia del debito non ha mai raccontato in modo chiaro è che qualunque titolo di credtio una persona comperi presenta un “rischio”. Tale rischio è – per farla molto breve – ripagato dal tasso di interesse. Che l’Italia di per sé fosse a rischio lo racconta la storia del suo debito. Che avesse la tripla AAA fino a poco fa è un problema degli scandalosi istituti di rating e delle banche compiacenti.
2) Non assumersi le proprie responsabilità. E’ dal 1992, megafinanziaria Amato, che i cittadini italiani onesti si assumono le proprie responsabilità. Abbiamo avuto in questi anni decine di manovre e manovrine a senso unico: precarizzazioni, privatizzazioni, tagli a scuola e sanità, tre riforme delle pensioni, aumento di ogni tipo di tassa. Il risultato è che il nostro debito è rimasto sostanzialmente invariato (a parte un certo calo a cavallo fra gli anni novanta e duemila).
3) Il risultato di questa “assunzione di responsabilità”, che ha aumentato la diseguaglianza e devastato la classe media, è che siamo in avanzo primario di bilancio. Cioé al netto degli interessi sul debito il nostro budget è a posto. A parte la sciagurata gestione Berlusconi questo accadeva già coi governi di centrosinistra degli anni novanta (motivo per cui il debito è per un certo periodo sceso). Era la strategia “Ciampi”: ridurre il debito con l’accumularsi negli anni di molti avanzi primari.
4) C’è un “ma” grande come una casa: tale strategia dipende fortemente dalla crescita del PIL. Se non c’è crescita è quasi impossibile realizzare duraturi avanzi primari. Ora, da che mondo è mondo, la strategia per crescere necessita di interventi pubblici. Se non in termini di interventi diretti perlomeno in termini di incentivi, fiscali o meno. Oggi – come è evidente a chiunque – non abbiamo spazi di bilancio per veri interventi di crescita.
5) Siamo in recessione. Cioé scende il PIL. La revisione 2012 parla di un ulteriore -1,6%. Cioé cala l’occupazione. Cioé cala il potere d’acquisto (la domanda aggregata). La manovra è obiettivamente recessiva (ogni manovra lo è, questa di più). Ciò significa che stabilizziamo il deficit ma riducendosi il denominatore del rapporto deficit/PIL a breve avremo bisogno di una nuova manovra. E’ un circolo vizioso che non è possibile spezzare stante questa situazione globale. Non solo: è una situazione oggettivamente mai capitata dal dopoguerra; siamo stati in recessione nel 2008, nel 2009 e ci siamo ora. Non è mai capitata una serie storica simile.
6) Arrivo al “dunque”: non esiste in storia economica un esempio di paese che è uscito da livelli elevatissimi di debito pubblico quale quello italiano senza una di queste due opzioni: iperinflazione oppure ristrutturazione del debito. Noi non possiamo stampare moneta stando nell’area euro, dunque la prima alternativa (che in ogni caso è a mio avviso peggiore ancora) non è percorribile.
7) Liberalizzazioni: è presto detto che sono favorevole a liberalizzare i taxi e le farmacie. Mi fa incazzare che una grande forza di “sinistra” le proponga come soluzione ad una situazione macroeconomica totalmente compromessa. L’impatto sulla crescita ci sarebbe ma molto limitato e molto spostato in avanti nel tempo. Non è una panacea ai mali italiani semmai uno specchio per le allodole. Peraltro stiamo ancora aspettando le riduzioni nelle assicurazioni RCauto promesse dalla “lenzuolata” di Bersani – governo Prodi – nel 2007.
In conclusione: pensare che questa manovra lacrime e sangue “salvi l’Italia” è illusorio. Stimo Monti e so che lo sa. Poteva osare ma l’avrebbero fatto cadere. Ha preferito impaludarsi ed ora purtroppo è ostaggio non solo di lobbies ma di partiti ridotti a bande di peones. La situazione è drammatica perché non manca solo una destra liberale ma anche una sinistra socialista. Manca tutto, insomma. Il default italiano è un fallimento morale e culturale prima che economico. E’ il default di una intera classe dirigente. E’ il default della politica e della sua rappresentazione. Non c’è via di uscita se non ce ne liberiamo. Se non ripartiamo da zero. Dalle fondamenta.
- La ristrutturazione del debito si può fare in mille modi. Non chiamiamola default, chiamiamola ristrutturazione controllata (si allungano i tempi di rimborso su ogni scadenza o si decurta di una percentuale il valore dei titoli), magari escludendo i piccolissimi risparmiatori e/o i fondi pensione.
- L'alternativa è fare una patrimoniale seria chiedendo un ultimo enorme sforzo ai cittadini –in modo progressivo – con una tassa di scopo una tantum (circa 10.000 euro a cittadino in media), destinata alla riduzione del debito (proposta Amato di qualche mese fa).
Nel primo caso le perdite graverebbero principalmente sui paesi esteri che hanno acquistato il nostro debito e ci sarebbero ripercussioni serie in Europa. Ma se fosse una via "concertata" potrebbe dare il via ad una nuova stagione. Nel secondo caso il peso ricadrebbe principalmente sui cittadini italiani. Ma se è vero come è vero che l'intero stock di ricchezza italiana vale molte volte il suo PIL le risorse potrebbero esserci.
In ogni caso la strada è solo una: ridure ORA il debito ben al di sotto del 100% del PIL (Roubini suggerisce di stabilizzare al 90% il rapporto): significa trovare o consolidare 450 miliardi di euro.
Questo è essere responsabili per me: raccontare per la prima volta la verità ai cittadini, cioé che la situazione economica italiana non è più sostenibile. Ripartire, liberando miliardi di euro di interessi che pagheremmo sul debito per fare investimenti, ricerca, incentivi alle aziende, riduzione mirata del carico fiscale, stabilizzazione dell’occupazione.
Questo io mi aspetto dalla sinistra. Che, però, non esiste più.
mercoledì 14 dicembre 2011
La sinistra non c'è più.
Poi penso che sto invecchiando. E che una situazione tipo quella che stiamo vivendo è paradossale. Che si dovrebbe circondare il Parlamento coi forconi per quello che sta succedendo. E invece no, a parte quattro leghisti che sfogano gli istinti repressi da anni di rospi ingoiati, tutto fila in modo relativamente tranquillo. Che grande popolo che siamo... Quasi orgogliosi dei debiti accumulati dagli Andreotti e dai Craxi ci accingiamo all'ennesima manovra correttiva. Che io mi ricordi, è vent'anni che facciamo manovre correttive per tagliare il debito.
Rendersi conto che forse così non si può più andare avanti? Che i giovani non possono essere costretti a pagare un debito che hanno fatto i loro padri ed i loro nonni, spesso evadendo le tasse o intascando pensioni immeritate quando non fraudolente? Che se il paese sta fallendo la prima cosa da fare sarebbe chiudere tutte le missioni "di pace" ed azzerare le spese per la difesa, tanto nessuno invade un paese in bancarotta? Che esiste un diritto al default? Che bisognerebbe ristrutturare ORA il nostro debito con una riduzione concordata del 25% (450 miliardi circa di manovra) come dice Nouriel Roubini?
Ecco l'unico modo per ripartire (se non si vuole fare una patrimoniale feroce da 10.000 euro pro capite in media).
Dove cazzo sta la sinistra?
Ah, sì chiede le liberalizzazioni. Me l'ero quasi dimenticato.
martedì 15 novembre 2011
American psycho
Così ti aggiri per queste strade infinite, tutte uguali, dove ordinatissimi sobborghi rincorrono quartieri più poveri abitati dai latinos, che diventano senza soluzione di continuità cittadine elegantissime, fatte di giardini perfette, palme e ville milionarie, e ti accorgi che l'unico senso qui è davvero il "fare i soldi", come Julian Kaye nella L.A. di American Gigolò. Il più velocemente possibile. In faccia alle centinaia, migliaia di homeless che si aggirano per le strade, ovunque ma soprattutto sulla sesta strada, proprio dietro ai grattacieli di Downtown. Trascinando carrelli con dentro vestiti e cartoni per ripararsi, quando scende la sera. Mai visto niente di simile.
E c'è sempre il sole, non è mai inverno, ma c'è nell'aria una sensazione strana, a volte angosciante, un Sunset Boulevard dei sogni plastificati: il lungo addio di Chandler, e poi Chiedi alla polvere di Fante, Black Dahlia di Ellroy. Ecco, a leggere questi libri forse capisci qualcosa di questa città, di questa terra. E forse hanno ragione, o forse no, proprio loro che si accampano reclamando un mondo diverso, una nuova frontiera, terrà e libertà. E che a breve verranno spazzati via.