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mercoledì 24 novembre 2021

Appunti sparsi. Noi. La vendemmia 2021. I prossimi tempi.

Mentre una fitta nebbia ci impedisce di continuare la raccolta delle olive - ce ne sono tante e belle - alcune riflessioni si rincorrono, sfuggenti, da qualche tempo.

I vini della vendemmia 2021 riposano nelle vasche e nelle botti. A parte qualche residuo zuccherino qua e là, sono buoni. Alcuni sono molto buoni. È stata una vendemmia piuttosto veloce nei tempi di raccolta e molto lenta nelle fermentazioni, come era prevedibile. Una vendemmia molto diversa dalla precedente che era stata disastrosa soprattutto per quanto riguardava il mio approccio. Se infatti ero uscito dalla 2020 con dubbi e insicurezze, con una sorta di incapacità di giudizio e di azione che mi pareva assurda dopo ventidue vendemmie, con questa vendemmia ho riscoperto il piacere della vinificazione. Intendiamoci: è sempre qualcosa di piuttosto masochista, con le notti insonni e tutto quanto... Ma in qualche modo mi pare di aver recuperato il senso più profondo del mio lavoro.

Il microscopio. 

In qualche modo il microscopio è stata la chiave. Non che il microscopio in sé possa risolvere i problemi. Però quel che è successo è che si sono come disciolte molte delle incrostazioni ideologiche sul "naturale" che in questi anni si erano progressivamente stratificate in me, in noi. Da un lato il microscopio mi ha letteralmente riportato proprio dentro alla Natura. Dall'altro mi ha sganciato finalmente dalla retorica del "Naturale". Sembra una contraddizione ma non lo è. Penso ad esempio al bellissimo libro di Christelle Pineau "Cornoletame e microscopio" in cui si fa una approfondita analisi antropologica del movimento del vino naturale.


Osservare l'estremamente piccolo, il microcosmo di lieviti e batteri, mi ha guidato verso riflessioni più macro, su questo nostro mondo incastrato nella pandemia, preda di rancori, paure, muri. È stato un viaggio in qualche modo catartico, e lo è ancora. 

Osservare la vita microscopica e le sue influenze sul nostro lavoro, sulle nostre vite; immaginare il virus come fosse un lievito. E poi pensare alle nostre società. Alle nostre aziende. Alle nostre istituzioni. Al nostro ambiente. Pensare a come tutto sia collegato e a come tutto sia estremamente fragile.

La realtà è che mi sto progressivamente allontanando dal "vino naturale". Da sempre ho criticato certi atteggiamenti e valutato i rischi di alcune operazioni. In tempi non sospetti: sia nei libri, che in vari contributi web (solo una selezione per chi fosse curioso: qui qui e qui). Nonostante questo ci ho creduto e continuo a pensare che quella rivoluzione sia stata foriera di un più ampio rinnovamento del mondo del vino tout court. 

Eppure oggi l'esplosione stile supernova del "naturale" e il suo enorme successo mi sembrano in gran parte una rappresentazione già vista, vecchia. Con tutte le sue narrazioni, i suoi selfie, le sue forzature, le sue bottiglie feticcio, i suoi influencer, il suo circo e i suoi circoli e le sue falsità belle e buone. Proprio nel momento in cui i nodi della catastrofe ecologica che ci circonda vengono definitivamente al pettine, proprio quel mondo, il nostro mondo, balbetta parole come "sostenibilità" e "biodinamica" ma in fondo in fondo è del tutto silente. E politicamente ininfluente.

Peggio. Una parte del movimento si dimostra, rispetto alla pandemia in atto, dubbiosa nei confronti della scienza quando non apertamente negazionista e cospirazionista. Il che fa il paio - devo dire in modo coerente (non me ne ero mai reso pienamente conto) - con una idea di agronomia e di enologia che si allontana sempre di più da una qualsivoglia ragionevole base scientifica. (Che poi il mondo scientifico sia pieno di problemi questo è un altro piano del discorso e qui nessuno si è mai tirato indietro rispetto ad una critica serrata alle sue distorsioni). 

Mi chiedo: cosa fare di fronte a tutto questo disagio? E la risposta è complicata, difficile.

Forse ritirarsi e decrescere. Ri-educarsi. Fare politica attiva. E piantare un sacco di alberi. 

Questo è ciò che abbiamo fatto ed è ciò che continueremo a fare. Che il vino, in fondo, è sempre stato solo una scusa. 

venerdì 5 febbraio 2021

L'annata 2020 e alcuni dubbi radicali

Si dice sempre che ogni vendemmia è una storia a sé. Ed è vero. 

Ma poi ci sono annate che sono davvero dei punti di svolta, di non ritorno. Nel mio caso penso alla 2004: la prima annata in cui iniziai a sperimentare le fermentazioni spontanee. Oppure alla 2013, forse la migliore annata degli anni 2000 qui a Cupramontana: una vendemmia irripetibile che ci ha consegnato il senso del nostro limite qualitativo.

La vendemmia 2020 è stata per me una vendemmia durissima. I vini in vasca stanno mettendo a dura prova ogni mia convinzione, anche quella di continuare questo lavoro. Mi trovo nella condizione di non capire più le cose che sto facendo, la direzione verso cui stiamo andando. Tutta la bellezza del lavoro in campagna, la complessità dell'ecosistema che stiamo costruendo, e che mai come quest'anno pareva meravigliosa, non riesco a ritrovarla per nulla nei vini. O forse c'è, ma a me non piace più.

I miei vini sono sempre stati oggetto di dibattito. A molti non sono mai piaciuti ma non è stato mai un problema. Abbiamo smesso di mandarli alle commissioni assaggio. Abbiamo smesso di mandarli alle guide. Piacevano a noi. E piacevano ai nostri clienti. Tanto bastava.

Gennaio e Febbraio sono due mesi brutti per assaggiare i vini nuovi, specialmente i vini a base Verdicchio. Può essere che fra qualche mese questi brutti anatroccoli rifioriscano. Ma il punto non è questo, non è solo estetico. Fare vino naturale, perlomeno come siamo arrivati a farlo noi, implica l'assunzione di grandi rischi: di fatto tutta l'enologia moderna, quella che si basa sull'utilizzo di coadiuvanti e additivi più che sulla conoscenza dei processi, è basata sul concetto di riduzione del rischio. Ecco, la sensazione è che in questa fase io sia andato davvero troppo oltre, che il sottile confine tra un rischio calcolato e un salto nel vuoto sia stato oltrepassato.



Ancora oggi, dopo più di vent'anni di vinificazioni, mi trovo a non comprendere fino in fondo certe dinamiche. Oppure a comprenderle ma a non riuscire ad affrontarle nel modo in cui vorrei. Il clima non ci aiuta, ma non ci aiuta nemmeno la ricerca scientifica. E nemmeno - spiace dirlo - il nostro "movimento" così compatto quando si tratta di andare a una fiera e così poco interessato a costruire una "educazione alternativa". Così mi ritrovo solo ad assaggiare il frutto di un lavoro duro, approfondito, minuzioso, costoso sia in termini di energie che economie, e a doverlo rifiutare, a sentirlo come distante, come il frutto del lavoro di un neofita, di un principiante alle prime armi.

Forse è anche il momento che stiamo vivendo, forse i micro organismi responsabili delle fermentazioni hanno colto il fraintendimento, la paura (Giovanna, lo so che lo pensi!) e magari ri-assaggiare la 2020 tra dieci o quindici anni ci farà ricordare la pandemia, il lockdown, l'incertezza di questi tempi folli.

Oppure è solo arrivato il momento di lasciar perdere. Lasciare tutto in mano a un bravo enologo e andarmene in giro a fare bird-watching. Minchia, pensate il fallimento.      

giovedì 24 maggio 2018

Il senso di Musica Distesa, se c'è

Mia madre aveva sperato che passati i quaranta mi sarei dato una sistemata.
Ed anche io.
Ora vado per i quarantasei e sono ancora qui a organizzare una specie di festival post-hippy. Complici   una famiglia che è più rock di me ed un gruppo di ragazzi giovani e meno giovani che - uniti in associazione - sta prendendo il testimone.
Ma quando la tensione per la nuova edizione inizia a salire, quando sei alle prese con piani di sicurezza, permessi sanitari, presidi antincendio, siae, rooming per gli artisti, budgets che non quadrano mai, gestione dei volontari, logistica varia, cazzi e mannelli... inevitabile come la morte arriva la domanda fondamentale: chi cazzo ce lo fa fare?
E non c'è in realtà una risposta.
Se non che abbiamo bisogno sempre più, dentro questo mondo impazzito, di spazi autentici di poesia e di libertà.



Eccoci ancora quindi!
Come sempre l'ultimo weekend di giugno (29, 30 giugno e 1 luglio 2018) e come sempre nella dolce campagna di Cupramontana, nei Castelli di Jesi. Con alcune novità: la prima è l’aggiunta di una data di anteprima giovedì 28 giugno presso il MIG – Musei In Grotta di Cupramontana, con una performance live nel cuore del centro storico della Capitale del Verdicchio.
La seconda è la riflessione tematica che vestirà ogni giornata con un abito differente: dalle donne in musica del venerdì al ritmo meticcio del sabato fino al relax e al buon bere della domenica.
Terza e ultima novità è la presenza di un secondo palco, più piccolo ma più immerso nella natura. Come sempre sarà possibile campeggiare presso l’Agriturismo (www.musicadistesa.org/faq), prenotare una stanza in una delle strutture convenzionate col Festival (www.musicadistesa.org/alloggi-convenzionati), accedere con l’abbonamento per i tre giorni o acquistare i biglietti per le singole giornate, tutto sempre in prevendita attraverso il circuito Ciaotickets (www.ciaotickets.com/organizzatore/festivalmusicadistesa).


Giovedì 28 giugno presso il MIG – Musei In Grotta di Cupramontana si esibirà il giovane cantautore cremasco Nicola Savi Ferrari, che proporrà il suo originale mix di canzoni in italiano, francese e inglese. A seguire una selezione musicale animerà la prima serata de La Distesa, il tutto a ingresso gratuito.

Venerdì 29 giugno sarà la giornata dedicata all'universo femminile, con Cristina Donà, cantautrice che non ha bisogno di presentazioni per il ruolo che ha ricoperto nella storia della musica indipendente degli anni '90 e 2000; Mèsa, giovanissima artista romana entrata a far parte del magico roster di Bomba Dischi; Eleviole?, progetto solista di debutto di Eleonora Tosca degli Ariadineve; il duo electro I'm Not a blonde, che sta avendo incredibili riscontri anche fuori dall'Italia.

Sabato 30 giugno Musica Distesa sarà animata dal tema del ritmo e del meticciato. Sul palco ci sarà Balera Favela, trio di elettronica composto dai tre fuoriclasse Go Dugong, Ckrono e prp che incendierà il Festival con il suo mix di cumbia, kuduro, baile funk; poi i belgi Phoenician Drive, capaci di mescolare suoni del Maghreb con la classica psichedelia della West Coast americana; i milanesi Les Enfants, dal suono rock compatto ed epico; gli Hit-Kunle, capitanati dall'italo-nigeriana Folake Oladun che propongono un esplosivo mix di afro funk e tropical rock; Franco e La Repubblica dei Mostri, una band dalle sonorità new acoustic e post rock; in chiusura il duo di elettronica Deux Alpes ci farà rivivere la celebre quindicesima tappa del Tour de France 1998 con protagonista Marco Pantani. Nel pomeriggio invece ci sarà il filosofo del gusto Gaetano Saccoccio con “John Coltrane e l’arte della fermentazione: a love supreme”, una chiacchierata alcolica e informale fra vino, birra, sake e qualche buon disco. L’intera giornata di sabato sarà infine animata da Mitoka Samba, orchestra di percussioni e prima scuola di samba in Italia, che farà risuonare l’aia di Musica Distesa di ritmi brasiliani.

Domenica 1 luglio infine, La Distesa diventerà il tempio del relax, del buon cibo e del bere naturale. Tre sono i laboratori previsti (per i quali è necessario prenotarsi scrivendo una mail a lab@musicadistesa.org): “VinYoga – Un viaggio per scoprire l’essenza del vino”, un percorso di Yoga e meditazione creato dalla yogini e sommelier Amy Wadman per aprire i Chakra e i sensi a essi collegati. Poi, che Festival sarebbe senza la birra? Il laboratorio “Acid Trips – Dal Lambic alle Italian grape ales”, tenuto dal titolare del Jack Rabbit di Jesi Marco Tombini e dal giudice BJCP Cristiano Spadoni, sarà un viaggio nel poliedrico mondo delle birre acide, dalla tradizione belga al movimento “sour” italiano. Infine “Just Like a Woman – Quando il vino parla al femminile” chiuderà idealmente la nona edizione del Festival Musica Distesa, unendo in un’unica grande degustazione Bob Dylan, le donne e il vino naturale: quattro storie di vignaiole, la Sicilia di Arianna Occhipinti, il Piemonte di Bruna Ferro e di Nadia Verrua, l’Emilia di Elena Pantaleoni, quattro storie di vigne e vini raccontate dal toscanaccio Stefano Amerighi.

www.musicadistesa.org
www.facebook.com/festivalmusicadistesa
Info generiche: info@musicadistesa.org
Contatti stampa: stampa@musicadistesa.org
Laboratori: lab@musicadistesa.org

Direzione Artistica: Giuliano Dottori: cantautore, chitarrista e produttore, ha al suo attivo tre dischi solisti e svariate collaborazioni con alcuni dei nomi più interessanti della scena musicale italiana, come gli Amor Fou, Raphael Gualazzi, Niccolò Agliardi, Andrea Biagioni, David Ragghianti e moltissimi altri.
www.giulianodottori.it
direzioneartistica@musicadistesa.org

Artwork: Fortuna Todisco www.fortunatodisco.it

Foto e Video: Claudio Del Monte www.frammentisimili.it

Progetto Grafico: Daniela De Santis https://danieladesantis.portfoliobox.net

sabato 28 aprile 2018

L'ebbrezza immaginifica di un vino paesaggio

Per una poetica oltre il feticcio "Natura".

Riporto qui il mio pezzo uscito per OperaViva Magazine: seguendo il link trovate l'intero focus sul libro di Simonetta Lorigliola edito da DeriveApprodi.


Se non è il vino dell’enologo, allora che cosa è? 
Un vino naturale? 
No, è un vino paesaggio! 


Nell’oceano sempre più vasto delle pubblicazioni – specialistiche e non – sul vino, il libro firmato da Simonetta Lorigliola spicca indubbiamente per importanza e profondità. C’è la storia dei Vignai da Duline, cioè di Lorenzo Mocchiutti e Federica Magrini. Ci sono la musica, i centri sociali, il vegetarianesimo come scelta politica, l’agricoltura come approdo di un percorso di biodiversità culturale. Ma anche – e soprattutto – c’è un arco narrativo in grado di mettere insieme il Dioniso crocifisso di Michel Le Gris, Terra e Libertà/Critical Wine (il libro manifesto) e, in modo tangenziale, Insurrezione culturale di Jonathan Nossiter. 

Nel pieno del dibattito estenuante e spesso stucchevole sul «vino naturale» e delle ipotesi su una legislazione in grado di «certificarne» l’essenza e rubarne lo spirito, Lorigliola scarta bruscamente di lato e torna in qualche modo all’origine. All’origine: cioè alla t/Terra. Ma anche all’origine, nel senso di inizio: il percorso con cui un vasto movimento, radicato nei centri sociali e promosso da un collettivo eterogeneo raccolto intorno alla figura di Gino Veronelli, riusciva a inserire il discorso sul vino (e dunque sull’agricoltura) all’interno di una più vasta riflessione politica e filosofica su origine, identità, globalismo, agro-ecologia, modelli di consumo e di sviluppo. 

E come dentro al percorso di Critical Wine raramente si faceva riferimento al vino «naturale», al vino «vero» e tantomeno al vino «biologico», essendo il problema tutt’altro, così dentro «è un vino paesaggio» questi stessi termini trovano ben poco spazio, e quando ne trovano è con una prospettiva piuttosto critica. D’altronde è la storia stessa dei Vignai da Duline a essere – essa stessa – «collaterale» a quella del movimento del vino naturale. 

Eppure, contemporaneamente, con una forza descrittiva ed una potenza evocativa non comuni, nel libro l’essenza di ciò che oramai è comunemente accettato come «vino naturale» in tutto il mondo emerge in modo affascinante, a partire dai nomi creativi dati alla pratica della non-cimatura (chioma integrale) e alla particolare forma di inerbimento/sovescio (mucca verde). Perché in definitiva Lorenzo Mocchiutti produce a tutti gli effetti del vino naturale! Allora dove sta la contraddizione? Dove l’incoerenza, se c’è? 

Essa è insita proprio nell’esigenza, classica di questi anni, di dover aggettivare (nominare, definire, esemplificare) ogni cosa, qualunque soggetto/oggetto. Ecco allora che il vino diventa «naturale», «vero», «biodinamico», «artigianale», «industriale», «convenzionale», ecc. Ma proprio queste definizioni complicano, anziché risolvere, il problema: perché in ultima istanza l’unica vera ragione di fondo non sta nell’identificazione di una pratica o di una coerente scelta produttiva, bensì nella creazione di una specifica nicchia all’interno di un altrettanto specifico mercato. 

Il capitalismo, ancora una volta! Per cui «l’agricoltura biologica, coi suoi prodotti, è divenuta una delle reginette più applaudite di una festa in declino che per decenni ha visto protagonisti la plastica e i derivati dal petrolio, oggi banditi dal consumo politicamente corretto» 1. Quella dinamica di sussunzione oramai nota per cui ogni alternativa, ogni salto in avanti, divengono slogan da televendita anni Ottanta o scatto super-cool sul profilo instagram: «Territorio e natura, insomma. Quasi un ossessivo richiamo al vino come elemento bucolico e baluardo di memorie perdute. Sono in crescita esponenziale coloro che dicono di produrre in questo modo. E soprattutto coloro che lo raccontano. Anche il vino ha le sue mode» 2. Fino all’assurdo – viene da aggiungere – di un Parco Divertimenti del Cibo Made in Italy come il farinettiano F.I.CO. di Bologna: il territorio e la natura si fanno Fabbrica Contadina. 

Dentro questa dinamica, volenti o nolenti, siamo inseriti tutti noi: chi produce, chi consuma e persino chi narra il vino (o l’agricoltura). Del vino naturale a breve si faranno un regolamento e un marchio, con tutto ciò che ne consegue in termini di valore (aggiunto). Ma possiamo immaginare la Rivoluzione francese senza la ghigliottina giacobina o la Rivoluzione d’ottobre senza il terrore rosso? E la realtà è che il solo uso dell’aggettivo «naturale» accostato alla parola vino, senza alcun dubbio, ha sancito un momento rivoluzionario. 

Come vignaioli non possiamo tirarci indietro. Dobbiamo accettare in pieno la responsabilità di aver usato il termine, di averne anzi abusato, di aver provato a scardinare un mondo del vino vecchio, putrido, insostenibile. Di averlo fatto attraverso teorie e pratiche agricole ma anche, e non se ne poteva fare a meno, attraverso lo spazio comunicativo che l’aggettivo «naturale» (insieme ai suoi tanti sinonimi) poteva e doveva aprire. Se oggi il vino naturale è divenuto solo marketing, solo nicchia di mercato, con tanto di lunga lista di vini mal fatti e di conseguenza poco piacevoli, non possiamo dimenticarne, però, l’effetto dirompente di decolonizzazione di un immaginario che in vent’anni aveva elevato l’enologo a nuovo Dio, la chimica a compagna di vita, un gusto piccolo borghese (di gomma e dopobarba firmato) a standard estetico. 

Era un passaggio ineliminabile, anche e soprattutto a livello concettuale, quello del vino naturale. Nell’epoca del dominio della tecno-scienza e nel momento della massima espansione/potenza planetaria dell’homo sapiens (in procinto di farsi homo deus 3), rimettere al centro del discorso sul vino la dialettica fra natura e cultura ha scatenato spazi giganteschi per una nuova ermeneutica. 

Ad esempio. Il vino non è un prodotto, è un testo. Ce lo suggerisce il filosofo Nicola Perullo: «il ruolo umano nella creazione del vino nella sua ultima fase – dalla vigna alla bottiglia, perché tutto ciò che vi è prima si perde in intrecci che non dipendono più direttamente da noi: progenie, elementi, antenati – è peculiare: è una maieutica. Chi fa vino è un maieuta…» 4

Molti studi antropologici ci hanno insegnato come il coltivare, l’allevare, il custodire appartengano alla storia evoluzionistica di homo sapiens; l’uso del fuoco per cucinare, del sale per dare gusto a certi alimenti 5, oltre che la costruzione stessa di utensili, hanno preceduto il vero sviluppo cognitivo e celebrale di homo erectus, smentendo il luogo comune per cui la tecnica sarebbe frutto di una intelligenza superiore. In questo senso «gli esseri umani sono una realtà bio-sociale molto più complessa della somma di due strati, uno naturale e uno culturale, e gran parte della nostra struttura fisica è in realtà il prodotto di un rapporto mai interrotto tra natura e cultura» 6

Il vino naturale (le sue pratiche agricole, il suo laissez-faire enologico, la sua ridondante aneddotica) è esploso a un certo punto come una supernova a ricordarci come «natura» e «cultura» siano in realtà il frutto di una classificazione tutt’altro che universale: sono astrazioni, e il concetto stesso di natura è sempre più costruzione culturale, non certo sinonimo di un’impossibile e oramai perduta wilderness. 

Vins nature, vins vivants: il fatto stesso della loro esistenza, della loro possibile grandezza – ancora oggi negata da molti – ha generato conflitto immediatamente, e lo genera di continuo: fra estremisti della tecno-scienza e bio-nazi, tra enologi di grido per cui tutto si risolve in molecole volatili e vecchi contadini resistenti, fra sommeliers dal gusto internazionale e giovani hipsters alla ricerca di odori e sensazioni forti. Ma come «superare il marketing del naturale. Andare oltre il vino naturale» 7

Nel saltare a piè pari il nodo del movimento «vinoverista», Simonetta Lorigliola – insieme ai protagonisti di questo libro – sembra indicarci il passo decisivo verso una possibile via di uscita. Il problema è la merce, ovviamente. Il vino viene aggettivato in quanto prodotto, merce, bene di consumo. Il vino naturale diventa subito feticcio, la biodinamica diventa brand, il biologico catena di supermercati. Tutto si risolve in comunicazione superficiale, facile, commerciale. 

Eppure chiunque abiti un vigneto, un ecosistema complesso, un paesaggio, sa che non funziona così. Alcuni dei capitoli più belli di È un vino paesaggio recitano: «Un territorio creativo», «Cervelli operai», «Cura e restauro», «Geografie immaginarie», «Sedimenti culturali». Una lingua del tutto diversa che spiega un lavoro completamente differente dalla catena della produzione/valore cui ci ha piegati il capitalismo lavorata. 

Si tratta, invece, del lavoro di un artigianista, come direbbe Jonathan Nossiter 8. E non è un caso che sia Federica, con lo sguardo delle scienze umane, a chiarire il punto: «Il vino è un contenitore in cui far confluire linguaggi diversi. Un territorio di sconfinamento. Un terreno di sperimentazione espressiva (…) Non mi interessa la banale accoppiata arte-vino, che non significa nulla. Per me è una esigenza psichica» 9

Dunque l’etica, certo (agro-ecologia, sostenibilità, biodiversità….). Ma anche, e direi soprattutto, l’estetica. Il piacere libero e gioioso. La creatività del tatto. L’ebbrezza immaginifica. Una critica del gusto che è anche critica dell’assaggio. Dopo Natura/Cultura la seconda diade, quindi: Etica/Estetica. A complessare ulteriormente il quadro. 

Serve davvero un nuovo linguaggio, un nuovo perimetro espressivo. Non bastano i passi già importanti compiuti dentro al movimento «naturalista», in qualche modo ancora inchiodati da una idea normativa – coercitiva – del prodotto finale. Qualcosa che spieghi, tutto quanto insieme, la mucca verde e il territorio, la geologia e la tecnica, il clima che cambia e le botti di quercia, la fermentazione spontanea e la selezione massale, il vignaiolo e il suo abitare un ambiente pulsante. Non un aggettivo. Un altro sostantivo, invece.  

Un vino paesaggio. Un vino che è geografia umana e storia naturale insieme. Un vino che è un’origine ben segnalata sulle mappe, ma che parla un linguaggio planetario. Un vino che è sì tecnica ma, in una elegia dell’ossimoro, si fa «tecnica naturale», processo infinito di dialogo fra processi biologici (la fotosintesi, la fermentazione) e gesti artigiani (la potatura, l’imbottigliamento). 

Un vino che è paesaggio, appunto: «Se è vero che in ogni atto di creazione è impossibile determinare quando cominci la tecnica e quando finisca la vita, quando il concerto trascorra nel viaggio, in quella creazione sempre rinnovata che si chiama paesaggio ciò è ancora più vero» 10. Non il paesaggio rurale toscano o provenzale a uso e consumo degli uffici turistici. No. Un paesaggio dell’anima che è politica ed estetica – insieme – nel suo stratificare secoli, millenni, milioni di anni di interazione tra animali (fra cui l’uomo) e ambiente. 

In questo senso, quindi, la storia ventennale dei Vignai da Duline, simbolo e paradigma di un intero movimento di vignaioli, insieme alle parole di Simonetta Lorigliola, sembra farsi primo Manifesto di questi vini paesaggio. Vini in grado di spezzare, in nome di una nuova libertà del gusto, il circolo vizioso dell’edonismo servile oggi dominante, per cui «Agli antipodi di qualunque forma di libertà, l’universo dell’edonismo moderno in realtà finisce con l’assomigliare al migliore dei mondi huxleyano, con i suoi piaceri ridotti al rango di sonniferi che irraggiano tutti i pori della società e mantengono i suoi membri all’interno di una servitù indolore» 11

Perché, come diceva una famosa battuta del film di Jonathan Nossiter Mondovino, «ci vuole un poeta per fare un buon vino». 

 NOTE
1. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, DeriveApprodi, Roma 2017, p. 75.
2. ↩ Ivi, p. 117.
3. ↩ Cfr. Y. Noah Harari, Homo Deus, Bombiani, Milano 2017.
4. ↩ N. Perullo, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, mimesis, 2018 Milano, p. 34.
5. ↩ Cfr. R. Cavalieri, Gusto. L’intelligenza del palato, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 84-93.
6. ↩ M. Aime, Cultura, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 35.
7. ↩ C. Dottori, Non è il vino dell’enologo, DeriveApprodi, Roma 2012, p. 100.
8. ↩ Si veda J. Nossiter, Insurrezione Culturale, DeriveApprodi, Roma 2017.
9. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, cit., p. 145.
10. ↩ M. Spanò, in Postfazione a È un vino paesaggio, cit., p. 186.
11. ↩ M. Le Gris, Dioniso Crocifisso, DeriveApprodi, Roma 2011, p. 167.

martedì 26 gennaio 2016

Ancora sui lieviti!

Nel 2012 riportai questa notizia sullo "svernamento" dei lieviti grazie a vespe e calabroni. Fatto molto importante ai fini della definizione di una idea di lievito "autoctono", "indigeno", "locale", chiamiamolo come ci pare.
Lo scorso anno ulteriori ricerche hanno confermato questa dinamica, aggiungendovi il fatto che l'intestino delle vespe sarebbe la perfetta alcova in cui i lieviti non solo sopravvivono ma si riproducono anche, garantendo il continuo mutamento, meticciamento si potrebbe dire, dei ceppi di saccaromyces. Qui trovate il paper in lingua inglese: 


Inutile dire che questo fatto, unito a tutto ciò che succede negli ambienti di cantina - specie nelle cantine storiche - è in grado di influire su quella grandiosa attività microbiologica chiamata fermentazione. Quando ho cominciato a fare vino si era giunti al limite estremo dell'enologia-tecnica per cui anche il solo pensare a una fermentazione spontanea risultava segno di arretratezza e anti-scientismo. Oggi, dopo più di un quindicennio, piano piano ma inesorabilmente, l'interesse sulla varietà del mondo microbiologico di un ecosistema vigna e di un ecosistema cantina stanno dimostrando che la "complessità" del gusto non è un totem adorato da quattro mistici del vino ma una realtà strettamente correlata a variabili "naturali".
L'idea stessa che possa esistere una "neutralità" dei lieviti viene affossata poiché risulta chiarissimo a questo punto ciò che già si sapeva: cioè che qualunque lievito selezionato - anche se "aromaticamente" neutro - è in realtà prelevato, selezionato appunto, da un preciso areale per le sue precise caratteristiche tecnico-industriali. L'utilizzo continuativo di un lievito esogeno è dunque una scelta destinata alla "sicurezza" ed alla perfetta "replicabilità" delle fermentazioni, una scelta che interrompe il dialogo fra microbiologia della terra e microbiologia del vino. Una scelta che, come paventano anche le analisi sulla fermentazioni spontanea a La Distesa, non può avere un impatto "neutro" sul gusto (oltre che sulla biodiversità della flora di cantina).

"Finally, the direct link between social insects and the yeast species biodiversity is relevant to human industry, as the genetic diversity generated in the wasp’s gut could favor adaptation to the ever-changing fermentative environment, as demonstrated by the evidence that several of the most successful industrial strains are interspecific hybrids (30). Thus, preserving the treasure potentially hidden in the gut of vineyard wasps could be relevant from both the ecological and biotechnological standpoints". 

domenica 17 gennaio 2016

Fermentazioni spontanee a La Distesa: una tesi di laurea

Durante la vendemmia 2014, grazie al lavoro dell'enologo Giovanni Loberto e in collaborazione con l'Università Politecnica di Ancona (Docente Prof. Maurizio Ciani e assistente Dott.ssa Laura Canonico), è stata condotta una ricerca destinata ad una tesi di laurea dal titolo "Valutazione di lieviti non-Saccharomyces in fermentazioni miste con S. cerevisiae in Verdicchio DOC".
All'interno di questa ricerca, effettuata in collaborazione con la società agricola Caliptra di Cupramontana, che mirava a comparare vinificazioni differenti in base ad inoculi di diversi lieviti, ha trovato spazio anche una sperimentazione condotta sulla fermentazione spontanea presso La Distesa, in particolare su una delle masse destinate a Gli Eremi 2014.
Riporto alcuni stralci da questa tesi (in corsivo) oltre ad alcuni dati e considerazioni mie che possono essere utili per una riflessione sul tema.
La vinificazione è avvenuta come facciamo solitamente ovvero con l'iniziale pigiadiraspatura di un 20% della massa complessiva da vinificare, cui sono stati aggiunti 8 gr./qle di metabisolfito di potassio e la seguente macerazione sulle bucce in modo da attendere l'avvio di una buona e vigorosa fermentazione spontanea. Dopo circa 5 giorni si è svinato e si è utilizzato il mosto in fermentazione come inoculo del resto dell'uva, lavorata in bianco in pressa e con mosto-fiore lasciato a decantare una notte. Il mosto-fiore è stato lavorato in ossidazione e solo al momento della decantazione si sono aggiunti 5/6 gr./hl. di metabisolfito di potassio. La fermentazione è avvenuta in barile di rovere da 750 lt.

Nella figura viene riportata l’evoluzione della popolazione microbica nel processo fermentativo spontaneo. L’inizio della fermentazione è dominata da lieviti apiculati e appartenenti al genere Candida, mentre dal 3°-4° giorno della fermentazione si ha la comparsa del ceppo S. cerevisiae, il quale ha mostrato un andamento sovrapponibile al lievito appartenente al genere Candida zemplinina (identificata mediante analisi molecolari).
Cinetica della fermentazione spontanea

Durante il monitoraggio della popolazione microbica della fermentazione spontanea, si è proceduto all’isolamento di varie specie di lievito prelevate dalle diverse fasi del processo fermentativo: inizio, metà e fine fermentazione. I 13 isolati così reperiti, sono stati sottoposti  all’osservazione macro- e micro-scopica, per poi eseguire una  identificazione a livello molecolare mediante PCR-ITS1 e ITS4 (Fig.7). Campioni 1-8: amplificati ottenuti da isolati provenienti da inizio fermentazione; campioni 9-13: amplificati ottenuti isolati provenienti da metà fermentazione campioni. 

Dallo studio è emerso che la fermentazione è stata sostenuta da lieviti apiculati come Hanseniaspora uvarum, rappresentato dagli isolati 1-4-6-7-8-9-10, e Candida zemplinina, rappresentata  dagli isolati 2-3-5-11 e dal lievito S. cerevisiae, isolati 12-13 . Il ceppo di S.cerevisiae compare a metà fermentazione per poi, a fine fermentazione, dominare sulle altre due specie non-Saccharomyces.

I dati sul vino a fine fermentazione parlano di un pH di 3,30, una acidità totale di 7,3 g/lt e una acidità volatile di 0,61 g/lt. L'alcool totale è di 13,5% con zuccheri riduttori di 11,7 g/lt  e solforosa totale di 35 mg/lt. Il vino è poi andato a secco, ma più lentamente del campione inoculato con un ceppo starter S. cerevisiae in coltura pura (10C dell’INSTITUTE OENOLOGIQUE DE CHAMPAGNE) presso la cantina di Caliptra.

Altre analisi sono state compiute sui prodotti secondari e i composti volatili ma un confronto puntuale e "scientifico" con le altre fermentazioni non è del tutto possibile a causa del fatto che i mosti campionati prevenissero da vigne differenti (sebbene molto vicine) e abbiano fermentato in luoghi diversi (le cantine di Caliptra e de La Distesa).
In generale si può dire che nel raffronto con le altre vinificazioni, la fermentazione spontanea ha mostrato:
- Prodotti secondari: un livello inferiore di acetaldeide e un livello superiore di etilacetato e isobutanolo.
- Composti volatili: livelli importanti di acetato di isoamile (che dà sentori di banana), acido butirrico (note burrose) e 2-feniletanolo (note di rosa) e livelli medi di  etilesanoato (note di mela) e di etilottanoato (note di fruttato/agrumato). Si riscontrano livelli superiori alle altre vinificazioni nei livelli dei terpeni linalolo e geraniolo anche se con livelli bassi.

Quali conclusioni trarre? Ovviamente nessuna, anche se troviamo confermate alcune tendenze che ci aspettavamo: alla fermentazione spontanea - pur con l'utilizzo di solforosa - hanno contribuito una pluralità di lieviti, ben 13 "individui" differenti e - cosa interessante - sebbene il S. cerevisiae abbia preso il sopravvento per terminare la fermentazione in realtà Candida zemplinina, lievito non-saccaromyces, ha contribuito fino in fondo. Difficile dire in quale modo. Ma le analisi sembrano suggerire la conferma di una maggiore "complessità" in termini di prodotti secondari (alcol superiori ed esteri) e composti volatili (ovviamente nel bene e nel male).

Trascorso un periodo di affinamento, i vini sono stati sottoposti ad analisi sensoriale. Per quanto riguarda la componente olfattiva, quale l’aromaticità (figura), si osserva che il vino prodotto da S. cerevisiae mostra differenze significative per quanto riguarda note di  frutta tropicale, miele e tostato dolce in quanto rispetto a tutte le altre fermentazioni tali caratteristiche sono esaltate. Per quanto riguarda le sensazione di agrumato ed erbe aromatiche, queste sono significativamente diverse per la spontanea rispetto le altre prove. 




Va notato come durante la degustazione finale, i degustatori (panel tecnico composto solo da enologi e produttori) abbiano in genere riconosciuto il campione proveniente dall'inoculo di S. Cerevisiae: fatto diverso da quanto successo nella degustazione di Ascoli per TerroirMarche. (Le ragioni sono molteplici, ma non voglio soffermarmici).