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mercoledì 24 novembre 2021

Appunti sparsi. Noi. La vendemmia 2021. I prossimi tempi.

Mentre una fitta nebbia ci impedisce di continuare la raccolta delle olive - ce ne sono tante e belle - alcune riflessioni si rincorrono, sfuggenti, da qualche tempo.

I vini della vendemmia 2021 riposano nelle vasche e nelle botti. A parte qualche residuo zuccherino qua e là, sono buoni. Alcuni sono molto buoni. È stata una vendemmia piuttosto veloce nei tempi di raccolta e molto lenta nelle fermentazioni, come era prevedibile. Una vendemmia molto diversa dalla precedente che era stata disastrosa soprattutto per quanto riguardava il mio approccio. Se infatti ero uscito dalla 2020 con dubbi e insicurezze, con una sorta di incapacità di giudizio e di azione che mi pareva assurda dopo ventidue vendemmie, con questa vendemmia ho riscoperto il piacere della vinificazione. Intendiamoci: è sempre qualcosa di piuttosto masochista, con le notti insonni e tutto quanto... Ma in qualche modo mi pare di aver recuperato il senso più profondo del mio lavoro.

Il microscopio. 

In qualche modo il microscopio è stata la chiave. Non che il microscopio in sé possa risolvere i problemi. Però quel che è successo è che si sono come disciolte molte delle incrostazioni ideologiche sul "naturale" che in questi anni si erano progressivamente stratificate in me, in noi. Da un lato il microscopio mi ha letteralmente riportato proprio dentro alla Natura. Dall'altro mi ha sganciato finalmente dalla retorica del "Naturale". Sembra una contraddizione ma non lo è. Penso ad esempio al bellissimo libro di Christelle Pineau "Cornoletame e microscopio" in cui si fa una approfondita analisi antropologica del movimento del vino naturale.


Osservare l'estremamente piccolo, il microcosmo di lieviti e batteri, mi ha guidato verso riflessioni più macro, su questo nostro mondo incastrato nella pandemia, preda di rancori, paure, muri. È stato un viaggio in qualche modo catartico, e lo è ancora. 

Osservare la vita microscopica e le sue influenze sul nostro lavoro, sulle nostre vite; immaginare il virus come fosse un lievito. E poi pensare alle nostre società. Alle nostre aziende. Alle nostre istituzioni. Al nostro ambiente. Pensare a come tutto sia collegato e a come tutto sia estremamente fragile.

La realtà è che mi sto progressivamente allontanando dal "vino naturale". Da sempre ho criticato certi atteggiamenti e valutato i rischi di alcune operazioni. In tempi non sospetti: sia nei libri, che in vari contributi web (solo una selezione per chi fosse curioso: qui qui e qui). Nonostante questo ci ho creduto e continuo a pensare che quella rivoluzione sia stata foriera di un più ampio rinnovamento del mondo del vino tout court. 

Eppure oggi l'esplosione stile supernova del "naturale" e il suo enorme successo mi sembrano in gran parte una rappresentazione già vista, vecchia. Con tutte le sue narrazioni, i suoi selfie, le sue forzature, le sue bottiglie feticcio, i suoi influencer, il suo circo e i suoi circoli e le sue falsità belle e buone. Proprio nel momento in cui i nodi della catastrofe ecologica che ci circonda vengono definitivamente al pettine, proprio quel mondo, il nostro mondo, balbetta parole come "sostenibilità" e "biodinamica" ma in fondo in fondo è del tutto silente. E politicamente ininfluente.

Peggio. Una parte del movimento si dimostra, rispetto alla pandemia in atto, dubbiosa nei confronti della scienza quando non apertamente negazionista e cospirazionista. Il che fa il paio - devo dire in modo coerente (non me ne ero mai reso pienamente conto) - con una idea di agronomia e di enologia che si allontana sempre di più da una qualsivoglia ragionevole base scientifica. (Che poi il mondo scientifico sia pieno di problemi questo è un altro piano del discorso e qui nessuno si è mai tirato indietro rispetto ad una critica serrata alle sue distorsioni). 

Mi chiedo: cosa fare di fronte a tutto questo disagio? E la risposta è complicata, difficile.

Forse ritirarsi e decrescere. Ri-educarsi. Fare politica attiva. E piantare un sacco di alberi. 

Questo è ciò che abbiamo fatto ed è ciò che continueremo a fare. Che il vino, in fondo, è sempre stato solo una scusa. 

domenica 18 luglio 2021

Come vignaioli alla fine dell'estate: l'introduzione

C’è questo primo fermo immagine dell’estate 2019 che continua a passarmi per la mente.
 

Una slitta trainata da cani, un cielo azzurro e luminosissimo, una linea di montagne sullo sfondo. La slitta e i cani viaggiano sospesi sull’acqua. Camminano letteralmente sulle acque. 

La foto è stata scattata in Groenlandia e mostra lo scioglimento del permafrost: appena sotto il pelo dell’acqua c’è il ghiaccio che si sta sciogliendo e sul quale i cani e la slitta stanno scivolando, generando l’incredibile effetto ottico (1)

C’è poi una seconda immagine molto potente in questa estate a tratti surreale: si tratta di una foto satellitare che mostra gli incendi scoppiati in Siberia. Si stima che tre milioni di ettari fra boschi e tundra siano andati in fumo, rilasciando 140 milioni di tonnellate di CO2, una cifra assolutamente gigantesca che ci racconta di una dinamica climatica totalmente fuori controllo.

Infine c’è un’ultima fotografia che rincorre nella mia mente le altre due, provando in qualche modo a cancellarle. Siamo in mezzo alle rovine di Micene, in mezzo a grandi blocchi di pietra che testimoniano di una grande civiltà in frantumi. Ecco, proprio lì, in mezzo ad alcune pietre di una antica dimora devastata, cresce una vite. Una vite selvatica. Che prova a farsi strada e a sopravvivere là dove non c’è più nulla.

La vite. Pianta resiliente, testarda e ribelle. Unica forma di vita in mezzo al vuoto. 

È un’immagine che mi fa riflettere sul movimento dei vignaioli naturali. Su quanto sia al centro del grande cortocircuito fra natura e cultura e su quanto poco stia facendo per prendere davvero posizione di fronte alla catastrofe ecologica.

 


La crisi ambientale che stiamo vivendo è in gran parte una crisi della Politica.

Nel 1975 Wallace Broecker pubblicava su Science un articolo dal titolo emblematico: Climatic Change: Are we on the Brink of a Pronounced Global Warming?” (2). L’insostenibilità del nostro modello di sviluppo è cioè cosa nota da sessant’anni almeno, eppure non è mai stata davvero al centro delle campagne elettorali o dei programmi politici di nessun grande partito politico di massa.

Nella ri-edizione di “Tempi storici Tempi biologici”, nel 2005, Enzo Tiezzi affermava “con un misto di imbarazzo e di orgoglio che le previsioni di vent’anni fa si sono dimostrate fondate e scientificamente corrette”. Nulla si crea e nulla si distrugge, la legge della termodinamica non fa sconti a nessuno: il ciclo del Carbonio sta alla base dell’aumento fuori controllo delle temperature del pianeta. I politici lo sanno da tempo. Ma nessuno ha mai davvero agito.

 

Eppure, se una speranza esiste, questa risiede ancora una volta proprio nella politica. 

In una nuova rotta.

Veniamo da anni, decenni, dominati dalla cieca fede in una dimensione globale sbagliata che ha prodotto danni sociali ed ambientali devastanti. La reazione è stata peggiore del male: una tendenza a rifugiarsi nell’identità locale e in un nuovo nazionalismo escludente. 

Dobbiamo cambiare immaginari, utilizzare nuove parole, pensare nuovi attori. Delineare i protagonisti della nuova lotta che si muovano in un terzo orizzonte, al contempo locale e globale.

“Ci vuole un termine che raccolga la stupefacente originalità (la stupefacente antichità) di questo agente. Chiamiamolo per il momento il Terrestre, con la T maiuscola per evidenziare che si tratta di un concetto; e, anche, per precisare in anticipo dove ci si dirige: il Terrestre come nuovo attore politico” (3).

 

Ho scritto questo libro con tutta l’urgenza che un mondo arrivato al capolinea può generare. Con gli occhi di un agricoltore che vede la natura cambiare giorno dopo giorno, immerso in una pratica quotidiana che dipende spesso da variabili incontrollabili. 

Ho scritto questo libro nella speranza che possa informare, angosciare, sensibilizzare. Che possa convincere almeno un solo lettore della necessità di un attivismo concreto e radicale contro il riscaldamento globale.

Il pessimismo della ragione mi porta a pensare che sia già troppo tardi. Al tempo stesso credo che non si debba lasciare nulla di intentato. 

Lo dobbiamo ai nostri figli cui lasciamo un pianeta in fiamme. 

 

 




(1) Sono 290 i miliardi di tonnellate di ghiaccio fuso che si sono riversate nell’Atlantico nei primi sette mesi dell’anno e certamente il record del 2012 verrà superato.

(2) https://blogs.ei.columbia.edu/files/2009/10/broeckerglobalwarming75.pdf

(3) Bruno Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.
Pagg. 55 e 56

 

venerdì 8 gennaio 2021

Sulla moda degli Orange Wines

Ho iniziato a sperimentare le macerazioni di uve bianche nel 2003/2004. Ero ovviamente esaltato dai primi assaggi di vini che mi apparivano rivoluzionari. Gravner, Radikon, Damijan, Zidarich. E poi La Stoppa e Maule. Comprai anche un'anfora e insieme ad Alessandro Fenino (Pievalta) facemmo un esperimento di macerazione di tre mesi di uve Verdicchio di una vigna che seguivamo nei fine settimana. A ripensarci oggi mi viene da sorridere. Il vino alla fine non ci piacque granché.

Andai avanti con gli esperimenti fino alla nascita del Nur. Quando nacque, nel 2006, qui in zona la tipologia era una novità assoluta. Ma, si sa, io ero quello strano. Quando nel 2010 la guida de L'Espresso lo premiò con l'eccellenza fu una cosa piuttosto straordinaria perché fino ad allora qui venivano considerati solo i Verdicchio classici, quelli moderni, color paglierino chiarissimo e verdolino. Figuriamoci un vino a maggioranza Trebbiano che si presentava color ambra! 

Oggi gli Orange Wines sono esplosi come moda planetaria. Se ne fanno in tutto il mondo e con tutti i vitigni. Il bel libro di Simon Woolf "Amber revolution" ha contribuito a far uscire dalla "nicchia" una tipologia che partendo dalla sua patria di elezione, la Georgia, aveva stimolato un ritorno alle origini in luoghi come il Carso e il Collio sloveno e italiano dove macerare a lungo le uve bianche sulle bucce era stata una tradizione consolidata.


Oggi, esattamente come all'epoca della barrique o dei vini rossi super concentrati degli anni novanta, gli Orange Wines sono diventati "the next big thing", tanto che oramai anche grandi aziende cominciano ad ampliare la gamma inserendo vini banchi macerati. Molto spesso ciò accade prescindendo dalla qualità intrinseca (esattamente com'era successo per certe spremute di legno di un tempo non lontano): prevale cioè il segno, il significante, l'immaginario. Sono i nostri tempi. In cui quasi mai il "valore" corrisponde al reale bisogno, al prezzo o alla qualità. Lo spiega molto bene questa lucida analisi sul concetto di valore dal sottotitolo "Forme dell'attuale da Marx ad Appadurai": "L’iperrealismo, o l’ipercapitalismo, non rappresentano altro in Baudrillard che il momento del superamento dell’analisi marxiana del capitalismo storico, nella misura in cui – nell’ultimo ordine di simulacro – ciò di cui ne va è dell’aggancio a ogni valore referenziale: sia esso il bisogno naturale, il bene o il valore d’uso... Ed è qui che la moda, compimento dell’economia politica, rivela l’ultimo stadio di evoluzione della merce, nella sua passione suicidaria per un passato sempre da resuscitare. La moda: l’assenza del bisogno naturale e la pura seduzione della combinatoria dei segni linguistici e monetari."

L'esplosione della moda degli Orange è l'ennesima dimostrazione di questa dinamica: puntare sullo stile produttivo e sull'immaginario, più che sul territorio. Ciò che conta diventa solo il colore! L'arancio, l'ambra. (Il segno). Perché in effetti, a parte quello, nel calderone dei macerati bianchi oggi c'è la qualunque. E a pensarci bene non potrebbe essere diversamente: chiedere un Orange, come sempre più sento fare, è esattamente come chiedere "dammi un rosso" oppure "dammi un rosato". 

E quindi di colpo nei Castelli di Jesi ci sono un sacco di macerati di uve Verdicchio. Naturali e soprattutto non. E va bene così, se non fosse che la sensazione netta sia quella, come sempre, che in questa regione si insegua sempre il mercato, si arrivi sempre "dopo" e in modo distorto. Finendo semplicemente col fare dei vini di cui non si sentiva la mancanza.

Di fronte a tutto questo si potrà pensare: qual è il problema? In teoria nessuno. E infatti anche 'sticazzi! se avessimo una critica e un mercato capaci di districarsi tra l'apparenza e la realtà, tra la verità e la finzione... Ma così non è. E dunque quando si parla di vini "Orange" si fa strada una gran confusione.

Innanzitutto - siccome i primi bianchi macerati erano dei vini naturali - oggi chi ordina un orange lo fa immaginando per forza di cose che stia ordinando un vino naturale. Ma la moda ha portato aziende che naturali non sono a produrre dei bianchi macerati lavorati da vigne convenzionali e con vinificazioni convenzionali. E poi, mentre nella prima fase era piuttosto chiaro cosa aspettarsi da un "arancione", oggi anche a livello gustativo le cose si sono mischiate parecchio: i tecnici che prima rifiutavano l'idea stessa di una macerazione in bianco ora hanno iniziato a "gestirla", riportando nei canoni un'idea produttiva che era nata come libera e selvaggia.

La speranza è che lentamente torni un po' di chiarezza e che, una volta passata la moda, ci restino vini piacevoli da bere e coerenti col proprio territorio: vini accomunati solo dal colore ma che siano in grado di esprimere la complessità dei suoli, dei climi, dei vitigni, delle fermentazioni spontanee, delle vinificazioni naturali. Insomma: dei grandi vini.

mercoledì 20 febbraio 2019

Natura ibrida e vino meticcio

Il Meticcio è il nostro rosato.
Si tratta di un vino particolare, nato principalmente da una suggestione di Valeria: era l’estate del 2015 con l’emergenza degli sbarchi, con l’impennata dei richiedenti asilo, con la gigantesca fuga dalla guerra in Siria. Guardavamo al dibattito in corso, che anticipava quello diventato egemone attualmente, con un misto di paura e rassegnazione. E venne spontanea l’idea di lavorare sul concetto di meticciato, di mescolenza.
Il vino rosato non è assolutamente tradizionale nella regione Marche. Quella abitudine al rosa diffusa nelle Puglie e negli Abruzzi si ferma sul Tronto per qualche misteriosa ragione.
Se Valeria pensava al lato politico e antropologico di questo vino, io ne indagavo la possibilità di farne un paradigma della mia battaglia contro il feticcio-vitigno. Contro la tendenza imperante a ragionare sulla purezza della varietà e a basare su tale purezza un’identità enologica regionale: il Verdicchio, il Montepulciano, il Pecorino.
Meticciato contro identità. Confusione contro purezza. Ci interessava stressare questi concetti, provocare, arrivare all’estremo del lavoro iniziato con la mescolanza dei vitigni bianchi: vitigni bianchi e rossi pigiati assieme, pelli che si uniscono e macerano assieme.
Il terroir sparisce o al contrario si esalta?
L’incontro con Marcel Deiss in Alsazia, anni fa, era stato illuminante: raggiungere la purezza del terroir e dell’annata mescolando i vitigni anziché vinificarli singolarmente. Utilizzare i vitigni come mezzi, come pezzi di un puzzle, come differenti colori.
La storia del vino è la storia dei viaggi, degli spostamenti, delle transumanze. Si pensi alle colonie greche o agli approdi dei fenici. È una storia dapprima mediterranea e poi, sulla scia dell’espansione dei commerci mondiali, una storia capitalista. La selezione dei vitigni, la loro diffusione, la loro propagazione, il loro allevamento, le forme della vinificazione: la viticoltura è solo un altro esempio di organizzazione della natura sotto il segno dell’economia. Ecco che nella mia regione - che fino alla metà del novecento conosceva una grande variabilità di vitigni - l’avvento di una agricoltura industriale, delle denominazione di origine e infine della globalizzazione dei mercati ha portato al sostanziale trionfo del mono-vitigno. Ma è un esigenza commerciale, un costrutto economico: non ha nulla né di storico né di “ecologico”. Il Verdicchio arriva nel quindicesimo secolo insieme a migranti lombardo-veneti, e non è altro che Trebbiano di Soave. A fine settecento i francesi molto probabilmente portano il Pinot nero nel nord e la Grenache nel sud della regione: quest’ultimo viene oggi chiamato Bordò e  inizia a godere di un certo successo. Ma l’intera regione è meticcia, ne sono testimoni i cento dialetti e le molte cesure linguistiche: non potevano che risentirne i vigneti che erano totalmente promiscui e i vini che in larghissima parte venivano da uvaggi e blends...
Uva della Madonna, Empibotte, Greco, Pampanone, Dolcino, Moscatello, Balsamina, Passerina, Albanella, Vernaccia Cerretana, Prungentile, Bottirone, Chiapparone, Uva dei cani…
Solo nel 1871 iniziano a studiarsi i vitigni presenti nelle Marche grazie al lavoro della neonata commissione ampeleografica , ma sarà solo con la fine della mezzadria, quasi un secolo dopo, che la viticoltura marchigiana inizierà a specializzarsi, buttando via il bambino con l’acqua sporca: alla giusta attenzione per la selezione delle varietà e dei cloni migliori non è corrisposta una riflessione sull’importanza della biodiversità e sul legame dei vitigni con clima e suoli.
Oggi, nel pieno del cambiamento climatico, abbiamo bisogno come non mai di ampliare la ricchezza di vitigni a disposizione. Allo stesso tempo vini meticci, cioè radicati in un luogo eppure completamente privi di una singola identità, trovo che possano rappresentare davvero una innovazione estetica ed ecologica, una moderna visione del terroir: meno tradizionalista ma più calata nella contemporaneità di una natura sempre più ibrida.

martedì 18 dicembre 2018

Il biologico è la strada migliore per tutelare la Terra

Il Consorzio TerroirMarche interviene sugli attacchi rivolti in questi giorni all’agricoltura biologica. “I benefici del bio sono dimostrati a livello scientifico in termini di biodiversità, difesa dei suoli e contrasto al riscaldamento globale”

Nelle ultime settimane sulla stampa e sui social media sono apparsi attacchi verso il mondo dell’agricoltura biologica tesi a metterne in dubbio i suoi numerosi benefici in termini di tutela ambientale rispetto all’agricoltura convenzionale. A controbattere a questi interventi sulla base della ricerca scientifica è il Consorzio TerroirMarche, che riunisce i vignaioli biologici delle Marche impegnati da anni a promuovere un approccio alla campagna rispettosa dell’ambiente.

“Non conosciamo le ragioni profonde di questa improvvisa levata di scudi” affermano i soci di TerroirMarche. “Forse a qualcuno dà fastidio il crescente successo dei prodotti agroalimentari bio (in Italia le vendite hanno segnato un +15% nel 2017e un +153% rispetto al 2008, mentre l’export del bio made in Italy vale quasi 2 miliardi grazie a un +408% rispetto al 2008 – Dati Nomisma). Possiamo anche ipotizzare una reazione del mondo del “biotech” alla bocciatura da parte della Corte di Giustizia Europea di tecniche come il genoma editing e la cisgenesi. Quel che è certo è che questi contributi sono pericolosi, a maggior ragione se provengono da personalità del mondo politico e accademico nei giorni della conferenza mondiale sul clima Cop24 in corso in Polonia, dove si discute di riscaldamento globale e futuro del pianeta”.

Già da diversi anni la ricerca scientifica, sottolinea il Consorzio TerroirMarche, ha identificato il metodo biologico come il più indicato ad affrontare i problemi del cambiamento climatico, del risparmio idrico, della fertilità del suolo. Già nel 2002 il paper della FAO “Organic agriculture, environment and food security” ha chiarito che: le emissioni di CO2 per ettaro nei sistemi di agricoltura biologica sono inferiori dal 48% al 66% rispetto ai sistemi convenzionali; l'agricoltura bio consente agli ecosistemi di adattarsi meglio agli effetti del cambiamento climatico e offre un notevole potenziale per ridurre le emissioni dei gas serra agricoli; i suoli a gestione biologica hanno un alto potenziale per contrastare il degrado del suolo poiché sono più resistenti sia allo stress idrico che alla perdita di nutrienti. A ciò va aggiunto che sono in costante crescita le ricerche che mostrano il maggiore valore nutritivo dei prodotti da agricoltura biologica e la maggiore conservazione di biodiversità.

Molti degli attacchi rivolti in questi giorni al mondo della viticoltura bio si concentrano sull’uso del rame. “A questo proposito – precisano gli agricoltori di TerroirMarche – è bene fare chiarezza su alcuni punti. Prima di tutto il rame è utilizzato anche in agricoltura convenzionale, ma è solo in agricoltura biologica che viene assoggettato a limiti stringenti. La recente normativa europea ha ulteriormente ridotto i limiti di utilizzo del rame fino a 4 kg per ettaro all’anno. I vignaioli biodinamici già oggi hanno un limite di 3 Kg ed è innegabile che è nel settore della viticoltura naturale che si è sviluppata negli anni la maggior sensibilità verso una progressiva riduzione del rame”.

Microbiologi di fama internazionale come Claude e Lydia Bourguignon hanno recentemente dichiarato che anche alle dosi precedenti l’uso del rame in viticoltura non ha effetti tossici riscontrabili. In terreni ricchi di humus, come generalmente quelli dove si coltiva in modo biologico o biodinamico, la dotazione di sostanza organica permette infatti di immobilizzare il rame riducendone la tossicità. Il rame è così assorbito dalla pianta solo in piccole dosi e quindi anche il contenuto nella pianta è basso. “Inoltre, come il ferro, anche il rame è un componente importante dei sistemi enzimatici del metabolismo respiratorio e della fotosintesi. Agisce sulla sintesi della lignina e sulla germinazione del polline, favorisce l’accrescimento apicale, aumenta la traspirazione ed è indispensabile nella formazione della clorofilla e dei complessi proteici che agiscono durante la fotosintesi. Eppure viene assimilato ai pesticidi di sintesi!”.

“Rigettiamo pertanto con forza il tentativo di equiparare convenzionale e biologico dal punto di vista dell’uso dei pesticidi – affermano con forza i soci del Consorzio Terroir Marche – e di ridurre il movimento biologico a nicchia di mercato che basa il suo successo solo su narrazioni rassicuranti o, peggio, a tendenza giovanilistica e radical chic. La viticoltura e l’agricoltura biologica sono un settore rilevante e trainante dell’agricoltura italiana e uno dei capisaldi della lotta al cambiamento climatico”.

Per ulteriori approfondimenti

Il Paper della FAO:
http://www.fao.org/docrep/005/y4137e/y4137e02b.htm

Sulla sostenibilità del bio: https://www.researchgate.net/publication/279868579_Eco_e_bio_agricoltura_sostenibile_o_insostenibile

Sul maggior valore nutritivo del cibo bio:
https://www.cambridge.org/core/journals/british-journal-of-nutrition/article/higher-antioxidant-and-lower-cadmium-concentrations-and-lower-incidence-of-pesticide-residues-in-organically-grown-crops-a-systematic-literature-review-and-metaanalyses/33F09637EAE6C4ED119E0C4BFFE2D5B1

Sulle alternative al rame:
http://www.agribionotizie.it/le-alternative-alluso-del-rame-in-agricoltura/


martedì 7 agosto 2018

Garage and natural

Prendi dell'uva bianca e raccoglila prematura così da avere un pH basso (così puoi anche non aggiungere solforosa).
Prendi dell'uva rossa e raccoglila presto, poco importa la maturazione del vinacciolo, tanto farai una macerazione carbonica con il grappolo intero, con poca estrazione di tannino.
E poi prendi del mosto in fermentazione e imbottiglialo con ancora qualche grammo di zucchero da svolgere, in modo da fare un bel frizzantino.
Ah, e acquista un'anfora in cocciopesto per farci una bella macerazione lunga di qualche uva bianca, importante sia molto autoctona, molto italiana.
Ecco, ora hai la gamma completa. Vini glou glou, vini "da beva compulsiva", vini da sete, vini che bevi a secchiate, maceratoni da competizione.
Disimpegno e leggerezza!
Di uva ne trovi parecchia in giro, non c'è bisogno che la coltivi. Che impari a potare una vigna. Scegli un qualche anziano che conferisce alla cantina sociale e gli compri al doppio del prezzo di mercato qualche quintale d'uva. In alternativa, se proprio vuoi fare degli investimenti, allora trova un paio di consulenti in biodinamica, ce n'è parecchi oramai in circolazione. In attesa della cantina puoi vinificare in conto terzi da qualcuno bravo, te lo trovo io. L'importante è che fai i vini come voglio io. Il tuo distributore.

Eccolo il vino del distributore. Il "vino da catalogo". Eh sì.
Lo "stile naturale".
Il "gusto naturale".
Ci siamo arrivati alla fine. Quella roba lì, ci siamo capiti. Bianchi iper-acidi, rossi super floreali e leggeri, pet-nat a garganella ed una generale sensazione di omologazione culturale prima ancora che gustativa. Vini che si vendano bene nei posti fighi, dentro a metropoli gentrificate dove tutto ciò che suona "naturale" sembra cosa buona, pulita e giusta.
Ci siamo di nuovo, verrebbe da dire. Come la barrique degli anni novanta, come i surmaturi degli anni duemila.
Vorrei che fosse chiaro che noi con questa deriva non ci vogliamo c'entrare nulla.

sabato 28 aprile 2018

L'ebbrezza immaginifica di un vino paesaggio

Per una poetica oltre il feticcio "Natura".

Riporto qui il mio pezzo uscito per OperaViva Magazine: seguendo il link trovate l'intero focus sul libro di Simonetta Lorigliola edito da DeriveApprodi.


Se non è il vino dell’enologo, allora che cosa è? 
Un vino naturale? 
No, è un vino paesaggio! 


Nell’oceano sempre più vasto delle pubblicazioni – specialistiche e non – sul vino, il libro firmato da Simonetta Lorigliola spicca indubbiamente per importanza e profondità. C’è la storia dei Vignai da Duline, cioè di Lorenzo Mocchiutti e Federica Magrini. Ci sono la musica, i centri sociali, il vegetarianesimo come scelta politica, l’agricoltura come approdo di un percorso di biodiversità culturale. Ma anche – e soprattutto – c’è un arco narrativo in grado di mettere insieme il Dioniso crocifisso di Michel Le Gris, Terra e Libertà/Critical Wine (il libro manifesto) e, in modo tangenziale, Insurrezione culturale di Jonathan Nossiter. 

Nel pieno del dibattito estenuante e spesso stucchevole sul «vino naturale» e delle ipotesi su una legislazione in grado di «certificarne» l’essenza e rubarne lo spirito, Lorigliola scarta bruscamente di lato e torna in qualche modo all’origine. All’origine: cioè alla t/Terra. Ma anche all’origine, nel senso di inizio: il percorso con cui un vasto movimento, radicato nei centri sociali e promosso da un collettivo eterogeneo raccolto intorno alla figura di Gino Veronelli, riusciva a inserire il discorso sul vino (e dunque sull’agricoltura) all’interno di una più vasta riflessione politica e filosofica su origine, identità, globalismo, agro-ecologia, modelli di consumo e di sviluppo. 

E come dentro al percorso di Critical Wine raramente si faceva riferimento al vino «naturale», al vino «vero» e tantomeno al vino «biologico», essendo il problema tutt’altro, così dentro «è un vino paesaggio» questi stessi termini trovano ben poco spazio, e quando ne trovano è con una prospettiva piuttosto critica. D’altronde è la storia stessa dei Vignai da Duline a essere – essa stessa – «collaterale» a quella del movimento del vino naturale. 

Eppure, contemporaneamente, con una forza descrittiva ed una potenza evocativa non comuni, nel libro l’essenza di ciò che oramai è comunemente accettato come «vino naturale» in tutto il mondo emerge in modo affascinante, a partire dai nomi creativi dati alla pratica della non-cimatura (chioma integrale) e alla particolare forma di inerbimento/sovescio (mucca verde). Perché in definitiva Lorenzo Mocchiutti produce a tutti gli effetti del vino naturale! Allora dove sta la contraddizione? Dove l’incoerenza, se c’è? 

Essa è insita proprio nell’esigenza, classica di questi anni, di dover aggettivare (nominare, definire, esemplificare) ogni cosa, qualunque soggetto/oggetto. Ecco allora che il vino diventa «naturale», «vero», «biodinamico», «artigianale», «industriale», «convenzionale», ecc. Ma proprio queste definizioni complicano, anziché risolvere, il problema: perché in ultima istanza l’unica vera ragione di fondo non sta nell’identificazione di una pratica o di una coerente scelta produttiva, bensì nella creazione di una specifica nicchia all’interno di un altrettanto specifico mercato. 

Il capitalismo, ancora una volta! Per cui «l’agricoltura biologica, coi suoi prodotti, è divenuta una delle reginette più applaudite di una festa in declino che per decenni ha visto protagonisti la plastica e i derivati dal petrolio, oggi banditi dal consumo politicamente corretto» 1. Quella dinamica di sussunzione oramai nota per cui ogni alternativa, ogni salto in avanti, divengono slogan da televendita anni Ottanta o scatto super-cool sul profilo instagram: «Territorio e natura, insomma. Quasi un ossessivo richiamo al vino come elemento bucolico e baluardo di memorie perdute. Sono in crescita esponenziale coloro che dicono di produrre in questo modo. E soprattutto coloro che lo raccontano. Anche il vino ha le sue mode» 2. Fino all’assurdo – viene da aggiungere – di un Parco Divertimenti del Cibo Made in Italy come il farinettiano F.I.CO. di Bologna: il territorio e la natura si fanno Fabbrica Contadina. 

Dentro questa dinamica, volenti o nolenti, siamo inseriti tutti noi: chi produce, chi consuma e persino chi narra il vino (o l’agricoltura). Del vino naturale a breve si faranno un regolamento e un marchio, con tutto ciò che ne consegue in termini di valore (aggiunto). Ma possiamo immaginare la Rivoluzione francese senza la ghigliottina giacobina o la Rivoluzione d’ottobre senza il terrore rosso? E la realtà è che il solo uso dell’aggettivo «naturale» accostato alla parola vino, senza alcun dubbio, ha sancito un momento rivoluzionario. 

Come vignaioli non possiamo tirarci indietro. Dobbiamo accettare in pieno la responsabilità di aver usato il termine, di averne anzi abusato, di aver provato a scardinare un mondo del vino vecchio, putrido, insostenibile. Di averlo fatto attraverso teorie e pratiche agricole ma anche, e non se ne poteva fare a meno, attraverso lo spazio comunicativo che l’aggettivo «naturale» (insieme ai suoi tanti sinonimi) poteva e doveva aprire. Se oggi il vino naturale è divenuto solo marketing, solo nicchia di mercato, con tanto di lunga lista di vini mal fatti e di conseguenza poco piacevoli, non possiamo dimenticarne, però, l’effetto dirompente di decolonizzazione di un immaginario che in vent’anni aveva elevato l’enologo a nuovo Dio, la chimica a compagna di vita, un gusto piccolo borghese (di gomma e dopobarba firmato) a standard estetico. 

Era un passaggio ineliminabile, anche e soprattutto a livello concettuale, quello del vino naturale. Nell’epoca del dominio della tecno-scienza e nel momento della massima espansione/potenza planetaria dell’homo sapiens (in procinto di farsi homo deus 3), rimettere al centro del discorso sul vino la dialettica fra natura e cultura ha scatenato spazi giganteschi per una nuova ermeneutica. 

Ad esempio. Il vino non è un prodotto, è un testo. Ce lo suggerisce il filosofo Nicola Perullo: «il ruolo umano nella creazione del vino nella sua ultima fase – dalla vigna alla bottiglia, perché tutto ciò che vi è prima si perde in intrecci che non dipendono più direttamente da noi: progenie, elementi, antenati – è peculiare: è una maieutica. Chi fa vino è un maieuta…» 4

Molti studi antropologici ci hanno insegnato come il coltivare, l’allevare, il custodire appartengano alla storia evoluzionistica di homo sapiens; l’uso del fuoco per cucinare, del sale per dare gusto a certi alimenti 5, oltre che la costruzione stessa di utensili, hanno preceduto il vero sviluppo cognitivo e celebrale di homo erectus, smentendo il luogo comune per cui la tecnica sarebbe frutto di una intelligenza superiore. In questo senso «gli esseri umani sono una realtà bio-sociale molto più complessa della somma di due strati, uno naturale e uno culturale, e gran parte della nostra struttura fisica è in realtà il prodotto di un rapporto mai interrotto tra natura e cultura» 6

Il vino naturale (le sue pratiche agricole, il suo laissez-faire enologico, la sua ridondante aneddotica) è esploso a un certo punto come una supernova a ricordarci come «natura» e «cultura» siano in realtà il frutto di una classificazione tutt’altro che universale: sono astrazioni, e il concetto stesso di natura è sempre più costruzione culturale, non certo sinonimo di un’impossibile e oramai perduta wilderness. 

Vins nature, vins vivants: il fatto stesso della loro esistenza, della loro possibile grandezza – ancora oggi negata da molti – ha generato conflitto immediatamente, e lo genera di continuo: fra estremisti della tecno-scienza e bio-nazi, tra enologi di grido per cui tutto si risolve in molecole volatili e vecchi contadini resistenti, fra sommeliers dal gusto internazionale e giovani hipsters alla ricerca di odori e sensazioni forti. Ma come «superare il marketing del naturale. Andare oltre il vino naturale» 7

Nel saltare a piè pari il nodo del movimento «vinoverista», Simonetta Lorigliola – insieme ai protagonisti di questo libro – sembra indicarci il passo decisivo verso una possibile via di uscita. Il problema è la merce, ovviamente. Il vino viene aggettivato in quanto prodotto, merce, bene di consumo. Il vino naturale diventa subito feticcio, la biodinamica diventa brand, il biologico catena di supermercati. Tutto si risolve in comunicazione superficiale, facile, commerciale. 

Eppure chiunque abiti un vigneto, un ecosistema complesso, un paesaggio, sa che non funziona così. Alcuni dei capitoli più belli di È un vino paesaggio recitano: «Un territorio creativo», «Cervelli operai», «Cura e restauro», «Geografie immaginarie», «Sedimenti culturali». Una lingua del tutto diversa che spiega un lavoro completamente differente dalla catena della produzione/valore cui ci ha piegati il capitalismo lavorata. 

Si tratta, invece, del lavoro di un artigianista, come direbbe Jonathan Nossiter 8. E non è un caso che sia Federica, con lo sguardo delle scienze umane, a chiarire il punto: «Il vino è un contenitore in cui far confluire linguaggi diversi. Un territorio di sconfinamento. Un terreno di sperimentazione espressiva (…) Non mi interessa la banale accoppiata arte-vino, che non significa nulla. Per me è una esigenza psichica» 9

Dunque l’etica, certo (agro-ecologia, sostenibilità, biodiversità….). Ma anche, e direi soprattutto, l’estetica. Il piacere libero e gioioso. La creatività del tatto. L’ebbrezza immaginifica. Una critica del gusto che è anche critica dell’assaggio. Dopo Natura/Cultura la seconda diade, quindi: Etica/Estetica. A complessare ulteriormente il quadro. 

Serve davvero un nuovo linguaggio, un nuovo perimetro espressivo. Non bastano i passi già importanti compiuti dentro al movimento «naturalista», in qualche modo ancora inchiodati da una idea normativa – coercitiva – del prodotto finale. Qualcosa che spieghi, tutto quanto insieme, la mucca verde e il territorio, la geologia e la tecnica, il clima che cambia e le botti di quercia, la fermentazione spontanea e la selezione massale, il vignaiolo e il suo abitare un ambiente pulsante. Non un aggettivo. Un altro sostantivo, invece.  

Un vino paesaggio. Un vino che è geografia umana e storia naturale insieme. Un vino che è un’origine ben segnalata sulle mappe, ma che parla un linguaggio planetario. Un vino che è sì tecnica ma, in una elegia dell’ossimoro, si fa «tecnica naturale», processo infinito di dialogo fra processi biologici (la fotosintesi, la fermentazione) e gesti artigiani (la potatura, l’imbottigliamento). 

Un vino che è paesaggio, appunto: «Se è vero che in ogni atto di creazione è impossibile determinare quando cominci la tecnica e quando finisca la vita, quando il concerto trascorra nel viaggio, in quella creazione sempre rinnovata che si chiama paesaggio ciò è ancora più vero» 10. Non il paesaggio rurale toscano o provenzale a uso e consumo degli uffici turistici. No. Un paesaggio dell’anima che è politica ed estetica – insieme – nel suo stratificare secoli, millenni, milioni di anni di interazione tra animali (fra cui l’uomo) e ambiente. 

In questo senso, quindi, la storia ventennale dei Vignai da Duline, simbolo e paradigma di un intero movimento di vignaioli, insieme alle parole di Simonetta Lorigliola, sembra farsi primo Manifesto di questi vini paesaggio. Vini in grado di spezzare, in nome di una nuova libertà del gusto, il circolo vizioso dell’edonismo servile oggi dominante, per cui «Agli antipodi di qualunque forma di libertà, l’universo dell’edonismo moderno in realtà finisce con l’assomigliare al migliore dei mondi huxleyano, con i suoi piaceri ridotti al rango di sonniferi che irraggiano tutti i pori della società e mantengono i suoi membri all’interno di una servitù indolore» 11

Perché, come diceva una famosa battuta del film di Jonathan Nossiter Mondovino, «ci vuole un poeta per fare un buon vino». 

 NOTE
1. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, DeriveApprodi, Roma 2017, p. 75.
2. ↩ Ivi, p. 117.
3. ↩ Cfr. Y. Noah Harari, Homo Deus, Bombiani, Milano 2017.
4. ↩ N. Perullo, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, mimesis, 2018 Milano, p. 34.
5. ↩ Cfr. R. Cavalieri, Gusto. L’intelligenza del palato, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 84-93.
6. ↩ M. Aime, Cultura, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 35.
7. ↩ C. Dottori, Non è il vino dell’enologo, DeriveApprodi, Roma 2012, p. 100.
8. ↩ Si veda J. Nossiter, Insurrezione Culturale, DeriveApprodi, Roma 2017.
9. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, cit., p. 145.
10. ↩ M. Spanò, in Postfazione a È un vino paesaggio, cit., p. 186.
11. ↩ M. Le Gris, Dioniso Crocifisso, DeriveApprodi, Roma 2011, p. 167.

lunedì 24 aprile 2017

Di Verdicchio e altre storie

In molti continuate a chiedermi perché non c'è scritto "Verdicchio" sulle mie bottiglie di vino bianco. Me lo continuo a chiedere anche io, da tempo. Ma mentre agli inizi della nostra uscita dalla Denominazione la domanda nascondeva - sotto sotto - una specie di risentimento, ora sono pacificato e felice della cosa. Perché in realtà La Distesa non produce più, e forse non ha mai prodotto davvero, "Verdicchio". Per questa ragione non mando più i miei vini alle commissioni assaggio per la DOC, e per questa ragione declasso le uve già prima della vinificazione.

Ci sono arrivato piano piano a capire questa cosa. Che la dittatura del vitigno, cioè, fosse nelle Marche così pervasiva e diffusa (si pensi al successo del "Pecorino" ad esempio) da coprire qualsiasi altra valutazione, e che dunque i nostri vini venissero percepiti "diversi".
In realtà - proprio ora che il "Verdicchio" vive un nuovo successo commerciale - sono giunto alla conclusione che se i miei vini sapessero di "Verdicchio" mi girerebbero i coglioni. A me piace che sappiano di Marche, di Cupramontana, di San Michele. Che abbiano in sé il dolore della Terra e la luce del Cielo. Che vuol dire tutto o niente, sia chiaro. Ma il vitigno no. Quello è arrivato nel 1400 grazie a una migrazione umana e veniva vinificato molto spesso insieme ad altri, molti altri vitigni. Ed è cambiato, e cambierà ancora (gli espianti di vecchi vigneti e la selezione clonale hanno fatto danni inenarrabili in questa zona, purtroppo). Cambierà come cambierà la viticoltura, come cambieranno i terroirs a causa del clima, come cambia l'uomo con i suoi gusti e le sue certezze e le sue ambizioni.
Quello che oggi viene identificato da tecnici, giornalisti, operatori come "il" Verdicchio è solo un vino feticcio, adatto al momento di mercato, esattamente come vent'anni fa lo era sotto altre vesti. Qual è il senso reale delle denominazioni di origine oggi? Se non una gigantesca operazione di branding, di marketing territoriale ad uso export, di costruzione di immagine, di privatizzazione di beni collettivi?

Che poi, in definitiva, mi rendo conto che questa cosa dello "star fuori", che è sì un po' morettiana ma - sia chiaro - senza volerlo, deriva dal fatto che La Distesa non è mai stata davvero "parte" di questo territorio - in generale: non solo per quanto attiene ai vini.
C'entra una idea della politica, indubbiamente, in luoghi che sono ancora fino al midollo stato-pontificio. Ma c'entra soprattutto una visione della vita per cui non si chiedono favori, non si inciucia, non si crede al compromesso ad ogni costo, non si tace per non disturbare.
Il che genera fastidio.
Non c'è nulla di male nelle separazioni, evidentemente noi e il Verdicchio-dei-Castelli-di-Jesi non eravamo destinati a stare insieme.
E quindi, ecco, volevamo dirvelo: non chiedeteci più il Verdicchio. Chiedeteci il vino di Valeria e Corrado. Proprietari in San Michele, Cupramontana dal 1935.

lunedì 6 marzo 2017

Il vino buono non si fa con la burocrazia

Tante volte mi sono trovato a spiegare come il sistema-vino non tenga conto delle realtà dei piccoli vignaioli. Finalmente qualcosa si muove. Dal basso. Mettendo da parte divisioni e incomprensioni. Saltando la rappresentanza di organismi e pseudo-sindacati che non rappresentano più nessuno. Questa è un primo passo.
Spero che a breve questo movimento si espanda a livello europeo, perché quello è il livello dove i piani e le strategie vengono elaborate. Dove si immagina un'agricoltura senza contadini, una terra senza custodi.


Al sig. Ministro dell'Agricoltura On. Maurizio Martina
Presso MIPAAF Roma

Italia, 05 marzo 2017

Oggetto: dematerializzazione registri vinicoli e burocrazia

Il vino buono non si fa con la burocrazia che uccide i piccoli produttori
Non accettiamo l'imposizione dei registri dematerializzati! Non vogliamo alimentare un'economia virtuale e parassitaria. E' necessaria un'inversione di tendenza, una rivoluzione delle norme; dobbiamo dire forte e chiaro che bisogna interrompere questo stillicidio di procedure, obblighi, corsi, patentini, registri che stanno strangolando le nostre aziende.

CHI SIAMO
Siamo duecento Vignaioli, agricoltori di ogni Regione. Siamo innamorati della terra, del cielo, delle piante e del nostro lavoro che vorremmo continuare a svolgere.

LA SITUAZIONE ATTUALE In Italia ci sono 52 mila produttori e di questi 48 mila imbottigliano meno di 1000 ettolitri, il 53% della produzione è ottenuta dalle cantine cooperative, mentre la superficie media è di soli 1,6 Ha. Rappresentiamo quindi circa il 90% dei produttori e non più del 30% della produzione totale. Perché allora non pensare un sistema adatto alle esigenze del maggior numero di produttori?   Siamo quelli che abitano e conservano i borghi rurali e i loro territori che, senza di noi, andrebbero irrimediabilmente in abbandono. La burocrazia sta uccidendo le nostre aziende e il nostro sistema agricolo, fatto  esclusivamente  di micro imprese.  Crediamo che si debba rallentare questa corsa alla burocratizzazione estrema, dove per ogni azione concreta sono richieste decine di pezzi di carta e gigabyte che tanti di noi non hanno la possibilità di seguire, di compilare e di pagare: i nostri piccoli numeri ci impongono delle scelte, e noi alla fine dobbiamo scegliere sempre la terra, la pianta, il vino. Inoltre, non siamo più disposti a dover pagare corsi e consulenti per poter fare il nostro lavoro. In pratica, non vogliamo mantenere un’economia virtuale e parassitaria, spesso rappresentata dalle associazioni di categoria, sindacati o società di consulenza.
Il tutto col beneplacito di chi avrebbe dovuto difendere la nostra vita e il nostro lavoro: si chiamino associazioni di categoria, sindacati o altro ancora, di antica o recente costituzione. Vogliamo reagire,rispondere, non per ottenere qualche mediocre compromesso, ma per imporre la nostra idea di lavoro, di rapporti umani; per riappropriarci del nostro tempo. A questo si aggiunge il fatto che delegare tutti gli adempimenti a servizi on line richiede una connessione potente e veloce e forse non ci si rende conto di quale sia lo stato delle ADSL nelle campagne italiane. Non si comprende perché le uniche esenzioni concesse siano a favore delle piccole produzioni che effettuano vendita diretta in azienda o per quelle fino a 1000/hl che non imbottigliano. Sembra che l'obiettivo sia quello di ostacolare la partecipazione delle piccole aziende al Mercato Globale, riservandolo così alle grandi imprese.

QUESTI GLI ENTI E ORGANISMI CHE CI CONTROLLANO
1- ICQRF
2- Guardia Forestale
3- Organismo controllo per certificazione Dop, Igp
4-Organismo controllo per certificazione Bio
5- HACCP controllo igiene in cantina
6- Sicurezza sul lavoro: organismi vari
7- Agea ed Enti regionali collegati./CAF.
8- Asl: normative sanitarie.
9- Province, esistono ancora e spesso hanno mantenuto le deleghe per la viticoltura.
10- Valoritalia, TCA, ecc.
 Organismi o Enti diversi che ci richiedono sempre le stesse cose, di produrre sempre gli stessi documenti .

QUESTI ALCUNI DEI VARI PATENTINI CHE DOBBIAMO CONSEGUIRE:
Alimentarista, HACCP, utilizzo fitosanitari. taratura botte irrorazione, patentino guida trattore…
Poi ci sono i Consorzi di Tutela, le Associazioni, i Sindacati ecc. Questo impegno corrisponde in termini temporali a quasi un mese di lavoro ed indicativamente a 2000-3000€ ogni anno, una cifra troppo importante per chi fattura poche decine di migliaia di euro.

 COSA CHIEDIAMO
E' urgente unificare quanto più possibile i vari Enti deputati al controllo: è auspicabile un unico organismo che esegua tutti i controlli. Per tutto ciò chiediamo:
1) Abolizione dei registri di cantina: ognuno di noi è obbligato a compilare ogni dicembre la denuncia di produzione delle uve e a fine luglio la dichiarazione di giacenza del vino. Se a questi due documenti affianchiamo le fatture di vendita, abbiamo tutte le informazioni necessarie per effettuareil controllo delle produzioni. Senza considerare che tutte queste informazioni vengono ripetute nei documenti del Sistema di Controllo del Biologico, nei manuali HACCP,Valor Italia, TCA ecc
Per i piccoli produttori (entro i 1000 Hl/anno) che non acquistano vino i registri non servono.
In subordine proponiamo di mantenere i registri cartacei ed agevolarne la tenuta al produttore che non acquista vino, posticipando il termine ultimo per la compilazione del registro di vinificazione al momento della dichiarazione di produzione; per imbottigliamento e tagli al momento della denuncia di giacenza. Proponiamo inoltre di eliminare l'obbligo di tenuta del registro di commercializzazione sotto i 1000 hl: è un duplicato del registro di vinificazione/imbottigliamento e dei movimenti già tracciati con altri documenti.
2) Anche per l'olio extra vergine di oliva chiediamo di portare il limite per l'esenzione dalla compilazione dei registri telematici dagli attuali 350 Kg a 3500 Kg/annui di produzione di olio.
3) Chiediamo per chi è Imprenditore Agricolo a titolo Professionale da almeno 5 anni di sostituire con un’autodichiarazione i corsi e i relativi patentini per guida trattori. Se lo scopo dichiarato è aumentare la sicurezza dei lavori in campagna, allora si diano contributi diretti per l'adeguamento delle macchine.
4) Esenzione totale dal patentino fitofarmaci nel caso in cui si utilizzino esclusivamente fitofarmaci a base di sali di rame e/o zolfo.
5) Eliminazione delle prestazioni viniche obbligatorie che sono misure anacronistiche. Inoltre, eliminando la distillazione obbligatoria delle vinacce (cioè regalare le vinacce alle distillerie) si creerebbe un valore di mercato per tutti i prodotti agricoli destinati alla distillazione. Proponiamo di eliminare l'obbligo di dichiarazione preventiva, incentivando il procedimento di smaltimento agronomico delle vinacce.
6) Proponiamo la semplificazione del modello INTRASTAT (basterebbe un elenco delle fatture inviate con PEC) e scadenza annuale per i vignaioli che producono meno di 1000 hl.
7) Chiediamo che in vendemmia e per la raccolta delle olive si possa ricorrere alla manodopera parentale e amicale con assicurazioni agevolate, con un forfettario assicurativo proporzionato alle dimensioni aziendali.
8) Chiediamo che su base volontaria e non obbligatoria sia possibile riportare nelle etichette del vino la lista degli ingredienti.

Comunichiamo che se  non otterremo quanto richiesto, avvieremo una Campagna di DISOBBEDIENZA CIVILE invitando tutti i vignaioli italiani a non ottemperare alle richieste di adeguamento ai registri telematici.

Il cuore della nostra protesta è comunque quello di mettere in evidenza il ruolo centrale che le piccole aziende svolgono nella salvaguardia dell’ambiente e del territorio nel suo complesso. Il soffocamento di queste piccole realtà non potrà che passare la mano ad un tipo di agricoltura che inevitabilmente distruggerà la risorsa primaria.

Egregio Ministro, in pochissimi giorni su questa proposta abbiamo raccolto 200 adesioni; con altrettanto poco tempo siamo certi di poter coinvolgere migliaia di agricoltori.

VIGNAIOLI UNITI contadinicritici@inventati.org
Seguono le adesioni dei titolari 200 aziende agricole



ABRUZZO
- Stefano De Fermo – Az. Agr. De Fermo
- Mariapaola Di Cato – Az. Agr Di Cato Francesco
- Lorenza Ludovico – Az. Agr. Ludovico
- Sofia Pepe – Az. Agr. Emidio Pepe
- Stefania Pepe – Az. Agr. Stefania Pepe
- Enrico Gallinaro – Az. Agricola E. Gallinaro
- Massimiliano D’Addario – Az. Agr. Marina Palusci
BASILICATA
- Antonio  Cascarano – Az. Agr. Camerlengo
- Elisabetta   - Az. Agr. Musto Carmelitano
CALABRIA
         -   Santino Lucà  -  Az. Agr. Cantine Lucà
        -    Luigi Viola -   Az. Agr. Cantine Viola
CAMPANIA
- Giovanni Ascione - Az. Agr. Nanni Copè
- Ennio Romano Cecaro – Az. Agr. Canlibero
- Elisabetta Iuorio – Az. Agr. Casebianche
- Raffaello Annicchiarico – Podere Veneri Vecchio
- Fortunato Rodolfo Arpino – Az. Agr. Montedigrazia
- Salvatore Magnoni – Az. Agr. Prima La Terra
- Diana Iannacone – Az. Agr. I Cacciagalli
- Sandro Lonardo – Az. Agr. Contrade di Taurasi
EMILIA ROMAGNA
- Alberto Carretti – Podere Pradarolo
- Laura Cardinali – Az. Agr. Cardinali
- Vittorio Graziano – Az. Agr. Graziano
- Mirco Mariotti – Az. Agr. Mariotti
- Elena Pantaleoni – Az. Agr. La Stoppa
- Federico Orsi – Vigneto S.Vito
- Denny Bini – Az. Agr. Podere Cipolla
- Francesco Torre – Az. Agr. Il Maiolo
- Marco Cordani – Az. Agr. Cordani
- Stefano  Malerba - Az. Agr. Gualdora
- Vanni Nizzoli – Az. Agr. Cinque Campi
- Katia Babini – Az. Agr. Vigne dei Boschi
- Paolo Francesconi – Az. Agr. Francesconi
- Roberto Maestri – Az. Agr. Quarticello
- Andrea Cervini – Az. Agr. Il Poggio
- Massimiliano Croci – Az. Agr. Tenuta Croci
- Flavio Cantelli – Az. Agr. Maria Bortolotti
- Erica Tagliavini –Soc. Agr. Bedogni Barbaterre
- Romano Mattioli – Az. Agr. Terraquilia
- Ettore Matarese – Az. Agr. Il Palazzo
- Gianni Storchi – Az. Agr. Storchi
- Paolo Crotti  -  Az. Agr. Podere Giardino
- Alberto Anguissola – Az. Agr. Casè
- Flavio Restani - Az. Agr. Il Farneto
- Antonio Ognibene – Az. Agr. Gradizzolo
- Manuela Venti – Az. Agr. Villa Venti
- Susanna Diamanti – Az. Agr. Oro di Diamanti
- Andrea Berti – Soc. Agr. Folesano
FRIULI
- Giovanni Foffani – Az. Agr. Foffani
- Gaspare Buscemi – Az. Agr. Buscemi
- Federica Magrini – Az. Agr. Vignai da Duline
- Franco Terpin – Az. Agr. Terpin
- Silvana Forte – Az. Agr. Le Due Terre
- Dario Princic – Az. Agr. Princic
- Fausto De Andreis – Az. Agr. Le Rocche del Gatto
- Fulvio L. Bressan – Az. Agr. Bressan Nereo
- Denis Montanar – Az. Agr. Denis Montanar
- Andrea Rizzo – Az. Agr. Feudo dei Gelsi
LAZIO
- Giuliano Salesi – Az. Agr.Podere Orto
- Andrea Occhipinti – Az. Agr. Occhipinti
- Chiara Bianchi – Az. Agr. Cantina Ribelà
- Daniele Manoni – Az. Agr. Il Vinco
- Marco Marrocco – Az. Agr. Palazzo Tronconi
- Antonio Cosmi – Az. Agr. Casale Certosa

LIGURIA
- Stefano Legnani – Az Agr. Legnani
- Andrea Marcesini – Az. Agr. La Felce
LOMBARDIA
- Emanuele Pelizzati Perego – Ar.Pe.Pe. srl
- Antonio Ligabue – Az. Agr. Ligabue
- Giacomo Baruffaldi – Az. Agr.Castello di Stefanago
MARCHE
- Alessandro Bonci – Az. Agr. La Marca di S. Michele
- Paolo  Beretta - Az. Agr. Fiorano
- Maria Pia Castelli – Az. Agr. Maria Pia Castelli
- Corrado Dottori – Az. Agr. La Distesa
- Rocco Vallorani – Az. Agr. Vigneti Vallorani
- Igino Brutti – Az. Agr. Fontorfio
- Enrico Gabrielli – Az. Agr. Aurora
- Natalino Crgnaletti – Az. Agr. Fattoria S. Lorenzo
MOLISE
- Rodolfo Gianserra – Az. Agr. Vinica
PIEMONTE
- Guido Zampaglione – Tenuta Grillo
- Paolo Laiolo – Az. Ag. Laiolo Reginin
- Alessandro Barosi – Az. Agr. Cascina Corte
- Nicoletta Bocca – Az. Agr. San Fereolo
- Stefano Marelli e Enzo Kizito Volpi -Az. Agr. Corte Solidale
- Eleonora  Costa  - Az. Agr. Crealto
- Ezio Trinchero – Az. Agr. Trinchero
- Nadia Verrua – Cascina Tavijn
- Lucesio             Az. Agr. Rocca Rondinaria
- Carlo Daniele Ricci – Az. Agr. Cascina S. Leto
- Paola e Elena Conti – Cantine del Castello Conti
- Andrea Fontana – Az. Agr. Platinetti Guido
- Claudio Rosso – Az. Agr. Cascina Roera
- Daniele Oddone – Az. Agr. Cascina Gentile
- Paolo Malfatti – Az. Agr. Cascina Zerbetta
- Daniele Saccoletto – Az. Agr. Saccoletto
- Fabrizio Iuli – Az. Agr. Iuli Fabrizio
- Rizzolio Giovanna – Az. Agr. Cascina delle rose
- Stefania Carrea – Az. Agr. Terre di Matè
- Paolo     Veglio  - Az. Agr. Cascina Roccalini
- Chiara Penati – Az. Agr. Oltretorrente
- Marta Rinaldi – Az. Agr. Rinaldi
-
PUGLIA
- Natalino Del Prete – Az. Agr. Natalino Del Prete
- Francesco Marra – Az. Agr. Francesco Marra
- Marta Cesi – Az. Agr. Dei Agre
- Mimmo            - Az. Agr. Pantun
SARDEGNA
- Alessandro Dettori – Tenute Dettori
- G. B. Columbu – Az. Agr. Malvasia Columbu
- Giovanni Montisci – Az. Agr. Cantina G. Montisci
- Francesco Sedilesu – Az. Agr. Giuseppe Sedilesu
- Maurizio Altea – Az. Agr. Altea Illotto
SICILIA
- Pierpaolo Badalucco – Az. Agr. Dos Tierras
- Gianfranco Daino – Az. Agr. Daino
- Guglielmo Manenti – Az. Agr. Manenti
- Giovanni Gurreri – Cantina Gurrieri Az. Agr. Battaglia Graziella
- Marco Sferlazzo – Az.Agr.Porta del Vento
- Alice Bonaccorsi – Az. Agr. A. Bonaccorsi
- Bruno Ferrara Sardo – Az. Agr. Bruno Ferrara
- Davide Bentivegna – Az. Agr. Etnella
- Paola Lantieri – Az. Agr. Punta dell’Ufala
- Nino Barraco – Az. Agr. Barraco
- Giovanni Scarfone – Az. Agr. Bonavita Faro
- Francesco Guccione – Az. Agr. Guccione
- Francesco Fenech – Az. Agr. F. Fenech

TOSCANA

- Antonio Giglioli – Az Agr Casale Giglioli
       -     Giovanni Borella – Az. Agr. Casale
- Valentina Baldini Libri – Fattoria Cerreto Libri
- Arnaldo Rossi – Taverna Pane e Vino
- Stefano Gonnelli – Az. Agr. Borgaruccio
- Giovanna Tiezzi – Az. Agr. Pacina
- Gabriele Buondonno – Az. Agr. Casavecchia alla Piazza
- Gabriele Da Prato- Az. Agr. Podere Concori
- Giuseppe Ferrua – Az. Agr. Fabbrica di S. Martino
- Francesco Carfagna – Az.Agr. Altura
- Stella di Campalto – Az. Agr. Podere S.Giuseppe
- Francesca Padovani - Az. Agr.Podere Fonterenza
- Marzio   Politi  - Coop. Agr. Voltumna
- Olivier Paul Morandini – Az. Agr. Fuorimondo
- Paolo Marchionni – Az. Agr. Vigliano
- Alessio Miliotti – Az. Agr. Tenuta di Sticciano
- Fabrizio Zanfi – Podere La Mercareccia
- Paolo Giuli – Az. Agr. Al Podere di Rosa
- Riccardo Papni – Az. Agr. La Pievuccia
- Francesco De Filippis – Az. Agr. Cosimo Maria Masini
- Sergio Falzari – Az. Agr. Il Giardino
- Carlo Parenti – Az. Agr. Macchion de Lupi
- Stefano Amerighi – Az. Agr. Amerighi
- Umberto Valle – Az. Agr. Poggio Trevvalle
- Francesco Anichini – Az. Agr. Vallone di Cecione
- Roberto Bianchi – Az. Agr.Podere Val delle Corti
- Luca Orsini – Az. Agr. Le Cinciole
- Monica Raspi – Az. Agr. Fattoria Pomona
- Patrizia Bruni – Az. Agr. Villa Bruni
- Marco Tanganelli – Az. Agr. Tanganelli
- Susanna Grassi – Az. Agr. I Fabbri
- Nadia  Riguccini  - Az. Agr. Campinuovi
- Maurizio Comitini  - Az. Agr. Croce di Febo
- Luca Tomassini – Az. Agr. Sangervasio
- Paolo Socci – Az. Agr. Fattoria di Lamole
- Rossella   Bencini   - Az. Agr. Terreamano
- Massimo Pasquetti – Az. Agr. I Mandorli
- Michele Braganti – Az. Agr. Monteraponi
- Paolo Cianferoni – Az. Agr. Caparsa
- Jacy Farrel – Az. Agr. Monte Bernardi
- Moreno Panattoni – Az. Agr. Montechiari
- Giorgio Secchi – Az. Agr. Palmo di Terra
- Piero Tartagni – Az. Agr. Fattoria Colleverde
- Michele   Guarino - Az. Agr. Tenuta Lenzini
- Stefano Grandi – Az. Agr. Canneta
- Emilio Falcione – Az. Agr. La Busattina
TRENTINO
- Stefano Bailoni – Az. Agr. Cantina Bionatura
VENETO
- Maurizio Donadi – Casa Belfi Donadi
- Maia Gioia Rosellini – Az. Agr. Ca’ Orologio
- Carlo Venturini – Az.Agr. Monte Dall’Ora
- Giovanni   Masini - Az. Agr. Cà de Noci
- Franco Masiero – Az. Agr. Masiero Verdugo
- Daniele Piccinin -  Az. Agr. Le Carline
- Marinella Camerani – Az. Agr. Corte Sant’Alda
- Daniele D. Delaini – Az. Agr. Villa Calicantus
- Ernesto Cattel -  Az. Agr. Costadilà
                                   
UMBRIA
- Paolo Bolla – Az Agr. Fontesecca
- Rocco Trauzzola – Fattoria Mani Luna di
- Jacopo Battista – Az. Agricola Ajola
- Clelia Cini – Az. Agr. La Casa dei Cini

lunedì 16 gennaio 2017

Decrescita enologica

Fuori nevica.
La campagna è come assorta. Accoglie la neve sulla propria pelle e ne accetta l'algida leggerezza.
Per noi agricoltori giornate come queste sono essenziali; per spezzare il ritmo delle nostre giornate, del nostro lavoro quotidiano, del nostro fluire nella natura. Per riflettere un po'.
Negli ultimi mesi mi sono reso conto di quanto sia stufo del "discorso sul vino".
Bevute compulsive, etichette, vecchie annate, riconoscimenti, difetti, vino naturale, fiere, ristoranti, sommelier, degustazioni cieche, ecc. Insomma, tutto ciò che è in qualche modo corollario del mio/nostro lavoro... L'idea stessa del Vino con la "v" maiuscola: come merce, come status symbol, come paradigma del "Made in Italy"... Tutta l'importanza che ci diamo e che ci danno, che ci porta a piantare nuove vigne, a fare più bottiglie, ad alzare i prezzi, a sviluppare nuovi prodotti, a trovare nuovi importatori. E la ricerca del consenso e dell'approvazione di giornalisti e consumatori. Del Mercato.

Questo mondo del vino non è che parte del mondo della Crescita. Dello sviluppo infinito. Le magnifiche sorti e progressive dell'export italiano, ad esempio. Il gigantesco talent show della bellezza/bontà italica. Una narrazione fatta di grandi bottiglie postate su Facebook (magari davanti agli occhi una persona cui non diamo importanza) e uffici stampa che si dannano l'anima per pavoneggiarsi con questo o quel direttore di Consorzio.

A me piaceva - e piace - stare in vigna a potare. Odorare la terra. Restare qualche minuto a dialogare coi miei vini in cantina. Soli.
In silenzio.
Saranno gli anni che passano o saranno i troppi wine geeks in circolazione, ma vedo sempre meno passione e sempre più omologazione.
Nessuno sciamano e troppi tecnici.
Il buonopulitoegiusto.
Tutto questo mi fa sentire fuori luogo, fuori posto. Io che non voglio più premi, che non voglio più medagliette, che non voglio crescere per crescere
e "gestire un'azienda"
e competere
e posizionare i miei prodotti
e pensare a cosa dire e non dire.

Io che voglio solo seminare. Dialogare. Osservare.

...Quanti timorati della vita, negli ultimi tempi, hanno guadagnato interesse per la "degustazione del vino"? Solo questa circostanza avrebbe dovuto insospettire, con giusta ragione, invece è stata superficialmente salutata come rivincita del sensibile e riconoscimento tardivo del liquido. La verità è che chi segue griglie consolidate e grammatiche date, ama riconoscere e riconoscersi nelle cose del mondo: non le incontra, ci si rispecchia. Degustare diventa una pura pratica a rimorchio, consolatoria e allucinatoria financo. Coazione a ripetere a contrasto dell'horror vacui. Ideologi dell'abilità del nulla, i narcisisti del vino proseguono sulla strada del riconoscimento di tipologie, varietà e aromi per consolidare se stessi sul piano di una frivola autorevolezza comunitaria. In effetti questo atteggiamento, spesso inconsapevole, corrisponde a bulimia cognitiva: come l'illusione della conoscenza consiste nell'accumulazione di dati e informazioni, così la narcosi dell'esperto di vino corrisponde all'assaggio compulsivo di più esemplari possibile, magari a confronto e nello stesso giorno, della stessa tipologia, con un bicchiere roteante che viene ossessivamente riempito e svuotato...  (Nicola Perullo - Epistenologia - pag. 69) 

giovedì 5 gennaio 2017

Buon 2017 "Natural Wine"!


Siamo solo al 5 gennaio e già si è scatenata la prima polemicona sul "vino naturale". Primo perché fa bene alla salute (la polemicona, ovviamente), secondo perché si tratta di un tema acchiappaclick sul web come ben pochi altri.
Nell'augurare un buon 2017 a tutti voi, vi svelo allora il mio proposito per l'anno in corso: non parlare più di vino naturale. L'ho fatto fin troppo, ci ho pure scritto un libro, e dopo anni sono giunto alla conclusione che sia del tutto inutile insistere a voler partecipare a battibecchi sterili. 
Tutti hanno alcune ragioni ed alcuni torti nella vicenda. 
Lo "scandalo" sta nell'utilizzo di un aggettivo di uso comune su decine e decine di prodotti ma che - abbinato al vino - scatena l'ira funesta di tutti i conformisti del mondovino. L'aspetto a mio avviso più importante, quello del cambio radicale di prospettiva estetica seguito all'avvento dei moderni "vins nature" (si pensi al fondamentale libro di Nicola Perullo "Epistenologia"), viene spesso travisato o trascurato.
Puzza? Non Puzza? Questa la ridicola dicotomia, il recinto in cui si vuol chiudere il vino naturale.
Ma la cosa meravigliosa è che - proprio come un boomerang - questa strategia di attacco mediatico da tempo si ritorce contro i suoi ideatori/propugnatori, tanto che il boom dei vini puzzolenti (=naturali) sembra inarrestabile.
Non so se sia una buona notizia. Probabilmente no. Ma il fatto che fiere come RAW siano state sperimentate con successo in posti nuovi (e non certo secondari) e che ovunque nel mondo nascano nuovi produttori, nuovi distributori, nuove occasioni di confronto sui vini puzzolenti (=naturali) forse dimostra il fallimento dell'ortodossia ad ogni costo.
E allora a chi continua a far finta di niente, a qualche anno dalla schifosa lettera di inizio 2013, così come ai tanti "opinionisti star" che invadono il web, mi piacerebbe ricordare che quel giornalettino vinoso che si chiama Decanter sta contattando noi produttori di vini puzzolenti (=naturali) per una degustazione di Natural Wines (senza virgolette, questi spudorati!) in cui, non solo non si mette in discussione l'esistenza del vino naturale, ma lo si descrive anche: e guarda un po' (!!!), attraverso una "carta della qualità" che non fa altro che riprendere le molte autocertificazioni prodotte negli anni dalle associazioni di vino naturale francesi ed italiane. Sono proprio pazzi questi inglesi!
Ma allora il vino naturale esiste o no?
E Puzza?
Ma quanto puzza?
Buon 2017 a tutti

Natural Wine ‘Charter of Quality’

All wines must adhere to this charter if they wish to enter into the ‘Top 25 Natural Wines’ tasting:
Vineyards farmed organically or bio-dynamically (Certification strongly preferred, but will accept uncertified)
 HandHarvestedonly
 Fermentation with indigenous (wild) yeasts
 Noenzymes
 No additives added (e.g. acid, tannin, colouring) other
than SO2
 SO2 levels no higher than 70mg/L total
 Un-fined and no or light filtration
 No other heavy manipulation – e.g. spinning cone,
reverse osmosis, cryoextraction, rapid-finishing, Ultraviolet C irradiation

venerdì 5 agosto 2016

La garanzia partecipata

Questo un mio testo che venne pubblicato qualche anno fa nel volume Servabo - Il Vino Naturale. Così. Visto che ho letto un sacco di esegesi strampalate su quello che ho scritto.

Secondo l’IFOAM (International Federation of Organic Agriculture Movements)
“I sistemi di garanzia partecipata sono sistemi di assicurazione della qualità che agiscono su base locale; la verifica dei produttori prevede la partecipazione attiva delle parti interessate ed è costruita basandosi sulla fiducia, le reti sociali e lo scambio di conoscenze”.
Negli ultimi anni il dibattito sull’agricoltura biologica ha portato ad una critica sempre più serrata della certificazione classica, di parte terza. Troppo onerosa per i piccoli produttori, spesso incentrata più sugli aspetti burocratici che produttivi, legata a disciplinari europei che spesso risultano essere ben poco “biologici” nello spirito e nei contenuti, il classico “bollino” del biologico è oramai un marchio distintivo degli “industriali” del bio e poco si adatta alle vere produzioni artigianali delle piccole aziende agricole europee.
Per questi motivi si è spesso parlato dell’autocertificazione come strumento di comunicazione ai consumatori delle pratiche agricole e di trasformazione effettuate dagli agricoltori. Soprattutto nel mondo del “vino naturale”, che spesso rifiuta in toto la disciplina del biologico, la pratica dell’autocertificazione, lanciata per la prima volta nell’ambito del progetto Critical Wine, è stata recepita come soluzione libertaria e trasparente al problema.
Oramai da qualche anno, però, insieme ed accanto ai Gruppi di Acquisto Solidali, sono nate e si sono sviluppate alcune esperienze che, partendo proprio dal concetto di autocertificazione, hanno portato una profonda innovazione all’idea stessa di “certificazione”: nei Sitemi di Garanzia Partecipata (PGS) la partecipazione diretta dei produttori, consumatori ed altri parti interessate nei processi di verifica non solo è incoraggiata ma viene richiesta. Questo coinvolgimento è realistico e praticabile dato che i PGS sono verosimilmente adatti a piccoli produttori e a mercati locali o vendita diretta. I costi della partecipazione sono bassi e principalmente prendono la forma di impegno volontario di tempo piuttosto che di spesa economica. Inoltre la documentazione cartacea è ridotta al minimo, rendendo il sistema più accessibile ai piccoli operatori.
Gli elementi chiave della garanzia partecipata sono:
Partecipazione. La credibilità del sistema è una conseguenza della partecipazione attiva di tutti gli attori.
Progetto condiviso. Cioè produttori e consumatori devono condividere consapevolmente i principi ispiratori del PGS.
Trasparenza. Tutti gli attori coinvolti devono avere un buon livello di consapevolezza delle modalità di funzionamento dl sistema.
Fiducia. Il sistema si basa sulla convinzione, diffusa tra tutti gli attori, che i produttori agiscono in buona fede e che la “garanzia resa” sia espressione di tale affidamento.
Apprendimento. La “garanzia” deve tradursi in un processo di apprendimento collettivo permanente, che irrobustisce tutta la rete coinvolta.
Orizzontalità. Tutti gli attori coinvolti nel PGS devono condividere il medesimi livello di responsabilità e competenza nel processo.

Esperienze attive sono ad esempio quelle di ASCI Toscana o di CAMPI APERTI. In questi casi consumatori e produttori visitano le aziende agricole, approfondiscono la conoscenza dei prodotti e dei metodi agricoli, controllano che tutto sia corrispondente a quanto dichiarato dall’agricoltore in modo da creare una sorta di “credibilità sociale” che vale molto di più rispetto al bollino dell’ente certificatore basato essenzialmente su controlli cartacei.

La domanda è: possono i PGS essere applicati al movimento del vino naturale? In che modo? Con quali finalità?

lunedì 25 luglio 2016

Fine dell'insurrezione?


E dunque eccoci. 
Si moltiplicano i “disciplinari” del vino naturale. Aveva iniziato la sigla V.A.N. (Vignaioli Artigiani Naturali) qualche tempo fa, con una sorta di carta di intenti/disciplinare (leggere qui) sottoscritto da un centinaio di vignaioli... Ma l'annuncio di VinNatur, l'associazione condotta da Angiolino Maule, è di quelli che davvero lasciano il segno. Soprattutto per le intenzioni di "istituzionalizzare" il regolamento stesso attraverso una collaborazione col MIPAAF. In questo articolo si può leggere nel dettaglio di cosa si tratta e - perché no? - iniziare a dividersi su quello che c'è e quello che manca, sui livelli di solforosa (troppo alti o troppo bassi a seconda dei gusti), sul fatto se il regolamento in questione sia troppo restrittivo o troppo "largo".
Un dibattito che non mi appassiona.
Perché il problema non sta in quelle regole, ma nell'idea stessa di regolamentare il vino naturale: idea che secondo me equivale a farlo morire (dando ragione ex-post ai tanti nobili pensatori de "il-vino-naturale-non-esiste").
Le ragioni del mio dissenso sono molteplici e vorrei provare a spiegarle qui: sintetizzando in qualche modo i ragionamenti che dal Dioniso Crocifisso di Michel Le Gris al mio Non è il vino dell'enologo, attraverso Resistenza Naturale (film) e Insurrezione Culturale (libro) di Jonathan Nossiter, disegnano un percorso interpretativo del vino naturale che può non piacere ma credo abbia una sua rilevanza storica e filosofica.
Il vino naturale non è "un tipo di vino". Si tratta di un movimento di contro-cultura. Il vino naturale non è "un metodo". Si tratta di un atteggiamento etico ed estetico. Il vino naturale non è "un marchio". Si tratta di uno sguardo critico (uno dei molteplici possibili) rispetto alla catastrofe economico-ecologica del mondo attuale.
La vera e potente insurrezione dei vignaioli naturali (termine che ho sempre utilizzato preferendolo a "vino naturale" destinato a divenire immediato feticcio) non riguarda tanto, o non solo, quello che c'è o non c'è nella bottiglia di vino da loro prodotto, ma la ridiscussione profonda della relazione fra agricoltura ed industria, fra città e campagna, fra cultura e natura, fra tecno-scienza e vita biologica. Ridurre il vino naturale a un disciplinare di produzione significa piegarsi al gioco del "nemico", ridurre il proprio percorso ad una questione in definitiva ancora una volta tecnica (che cosa è infatti un disciplinare se non un "tecnicismo"?), riconducendo per l'ennesima volta la Natura all'Uomo, quando l'utopia del vino naturale stava invece nel ritorno dell'uomo nella natura (non da buon selvaggio, ma da animale sociale storicamente determinato! Cioè qui e ora, dopo quasi 50 anni di riflessione su ecologia, consumismo, sviluppo e decrescita).
Insomma, con il massimo rispetto che si deve ad una associazione seria come VinNatur, qual è l'immaginario prodotto da questo "disciplinare" se non un vino biologico con dei limiti più stretti? Ma allora non aveva senso una lotta per modificare il disciplinare bio? E soprattutto: non ci si accorge che così facendo il vino naturale viene ridotto all'ennesimo "bollino di garanzia" frutto dell'ennesimo "piano dei controlli", cioè a nicchia della nicchia in un mercato che andrà avanti esattamente come prima? L'insurrezione ridotta a controllo, in collaborazione col Ministero per giunta. Il paradigma della sussunzione.
La realtà è che chi opta per questa direzione sa benissimo tutto ciò, e che questa era la scelta fin dall'inizio di una certa parte del movimento: ridurre la portata "politica" dell'aggettivo naturale accostato al sostantivo vino, per farne principalmente strategia di marketing. Cosa legittima, peraltro.
Ma che mina potentemente ogni prospettiva di "insurrezione culturale".