Scendemmo e, una volta usciti, raggiungemmo l'abbeveratoio dei cavalli. Mio padre si lavò il sangue e si strofinò la faccia, poi risalimmo sul furgone. Si mise al volante e si diresse in centro a Holt, a un negozio di liquori che si chiamava Payday, dove comprò una bottiglia di whiskey e qualche birra. Le mise in un sacchetto di carta. Poi tornammo in campagna e fermò il furgone in cima a una collinetta sabbiosa in un pascolo. (Kent Haruf - Vincoli)
Affittai una camera in un albergo a breve distanza dalla strada dei locali notturni. Per due dollari mi rifilarono una stanza a piano terra con vista sull'oceano, un letto con un materasso sottile, un lavandino e la chiave del cesso sul corridoio. Misi i miei ricambi nel cassettone e, uscendo, mi strappai due capelli dalla testa. (James Ellroy - Dalia Nera)
A ovest, per tutta la notte, lampi ramificati scaturiti dal nulla tremarono dietro i cumulonembi di mezzanotte, illuminando a giorno il deserto lontano di una luce bluastra, e contro l'orizzonte balenante le montagne si stagliavano dure e nere e livide, distanti e aliene come terre la cui vera geologia non era la pietra ma la paura. (Meridiano di sangue - Cormac McCarthy)
Al lavoro era dura. Di pomeriggio svaniva la nebbia e il sole picchiava. I raggi si spostavano dall'azzurro della baia verso quella specie di vassoio formato dalle colline di Palos Verdes, ed era come una fornace. Nel conservificio era peggio. Non c'era aria fresca, neanche quanto bastava a riempire una sola narice. (La strada per Los Angeles - John Fante)
Per capire Western Stars bisogna partire da qui.
E forse da un pugno di film. Crazy Heart, con uno straordinario Jeff Bridges nei panni di un musicista country in declino; I Cowboys con un vecchio John Wayne e le musiche di John Williams; Il Lungo addio di Robert Altman (sempre con le musiche di John Williams); The Wrestler con Mickey Rourke (e la bellissima omonima canzone dello stesso Springsteen); Verso il sole ovvero l'ultimo film di Michal Cimino.
Cose diversissime fra loro ma accomunate dal senso della fine, da personaggi che vivono sul limitare dell'ultimo giro di giostra.
Springsteen ha fatto il suo disco più bello degli ultimi vent'anni. Un disco molto diverso da quel che aspettavamo. Un disco che nasce dentro alle pieghe più nascoste e oscure della sua autobiografia e come coerente prosecuzione dell'incredibile spettacolo teatrale di Broadway.
Western Stars è al tempo stesso la cosa più vicina a Nebraska e la più lontana. Dove la musica di Nebraska era scarna e poco prodotta in Western Stars ci sono arrangiamenti e orchestrazioni ricchissimi, una produzione magnifica e a volte lussuriosa. Il disco del 1982 andava alle radici del folk tradizionale americano, anche se in fondo era permeato di una patina proto-punk e new wave (si pensi ai Suicide). Western Stars è invece un disco in cui la matrice folk vira verso un certo pop cantautorale, verso la California delle grandi colonne sonore hollywoodiane più che della psichedelia.
Eppure questa scelta si rivela, lentamente, ascolto dopo ascolto, come coerente alle storie raccontate. Perché qui le stelle dell'ovest sono sì quelle del deserto ma anche le stelle che non ce l'hanno fatta, attori di serie B, cantanti dimenticati, anti-eroi che hanno perso pure l'ultimo treno. Ma sia chiaro: bollare i personaggi dell'ultimo Springsteen come i "soliti" perdenti di Darkness o di The River non ci aiuta a capire che qui siamo oltre.
Western Stars è infatti un disco che parla di vecchiaia e di depressione, di una quotidianità molto lontana dagli omicidi di Charles Starkweather o dalle pistole di Johnny99.
È un disco di una verità e di una urgenza dolorose: Bruce ha 70 anni, non c'è più traccia in lui dell'icona pop degli anni ottanta, ma nemmeno del workin' class hero dei settanta. Con Western Stars siamo tornati a Tunnel of love, per certi versi, non a caso un altro disco meraviglioso ma fortemente incompreso: ci sono i dubbi, le incertezze, le ombre di un uomo solo in un momento di svolta. Là era un amore finito, qui è che siamo proprio al tramonto.
Tornerà la E-street, torneranno gli stadi, tornerà il dovere di portare in giro ancora una volta la fiaccola del rock'n'roll: sempre più pesante e sempre meno lucente. Ma il viaggio del Bruce scrittore di canzoni ha senso invece oggi fra le strade desertiche di Western Stars, mentre si perde lungo questi binari, quando se non è il capolinea poco ci manca.
Non è un caso, non può esserlo, che il disco sia cantato da dio. Non ha forse mai cantato così bene Bruce Springsteen, e questo ha semplicemente dell'incredibile.
I woke up this morning è un verso che ritorna spesso nel disco, ma sbaglia chi lo associa ad uno stanco cliché blues, ad un'assenza di idee: alzarsi dal letto è un impresa titanica per chi soffre di depressione, e di questo si sta parlando; chi ha letto la sua potente autobiografia sa quale sia il demone che accompagna la vita di Springsteen.
Bruce è invecchiato e non lo nasconde più, anzi ce lo sbatte in faccia. Siamo invecchiati anche noi con lui. Le storie, bellissime e cinematografiche, raccontate in questo disco ci ricordano - ancora una volta! - a che punto siamo della strada, dove sono arrivati Wild Billy, Mary, Terry, e noi con loro. Con una coerenza ed una verità disarmanti queste storie, che sarebbero da far studiare ai tanti finti songwriters di oggi, ci ricordano che là dove un tempo c'erano auto in corsa verso la libertà oggi ci sono pillole e whiskey nascosti dentro sacchetti di carta.
C'è un altro libro che Western Stars mi ha ricordato, un altro libro che parla di deserti e persone sole che lottano contro demoni interiori o ricordi del passato. Si chiama Lullaby Road di James Anderson. È la storia del camionista Ben Jones che fa il postino privato lungo la statale 117 in mezzo a chilometri e chilometri di deserto nello Utah. A Ben Jones succedono cose, finisce col ritrovarsi per caso dentro a una brutta brutta storia. Ma nella quotidianità del fare il proprio lavoro al meglio, nel fronteggiare con dignità un destino che ha sempre qualcosa di inesorabile, Ben Jones troverà la forza per andare avanti, proprio come gli eroi blue collar del boss, proprio come le ex-stelle di un west che non esiste più. Un'altra piccola pagina del grande romanzo americano.
Tutti hanno una buona stella. Anche se continuavo a ripetermi quanto fossi sveglio ed esperto per guidare nel deserto, sapevo che era solo la fortuna a fare la differenza.
A un cero punto, durante la notte, la strada si era confusa con il deserto proprio come sapevo che sarebbe successo. È opinione comune che in caso di guida a visibilità zero il conducente debba stare
nella scia del veicolo di fronte a lui, o seguirne i fanali, se riesce a vederli. Sulla 117 era raro avere qualcuno da seguire, e comunque non ero uno a cui piaceva star dietro agli altri. Un paio di volte, in passato, al valico di Soldier Pass, una fila di veicoli aveva seguito il capogruppo fino a cadere da uno strapiombo. Se dovevo finire in un burrone, non avevo certo bisogno di qualcuno che mi indicasse la strada. Preferivo essere stupido da solo. Si fa prima.
(Lullaby Road - James Anderson)
Vino e territorio. Musica e cultura. Pensieri, sogni e visioni di un Homo Sapiens di campagna
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lunedì 23 settembre 2019
lunedì 21 aprile 2014
Salvare il pianeta
Il novecento è stato dominato dalla contraddizione Capitale/Lavoro. Economia, Tecnica, Socialismo, Capitalismo sono state alcune delle parole chiave del "secolo breve".
La Storia di questo secolo appena iniziato (e forse dei prossimi) sarà la storia della lotta fra Capitale e Natura: Ecologia, Cultura, Decrescita e Cosmopolitismo possono diventarne le parole chiave, se lo vogliamo.
La Storia di questo secolo appena iniziato (e forse dei prossimi) sarà la storia della lotta fra Capitale e Natura: Ecologia, Cultura, Decrescita e Cosmopolitismo possono diventarne le parole chiave, se lo vogliamo.
L'uomo deve capire e scegliere con chi stare; se essere parte integrante dell'apparato tecnoscientifico di un'idea ormai metafisica di Capitale, onnivoro e onnisciente; oppure se restare biologicamente agganciato alla sua natura di abitante/cittadino di un pianeta Terra in pericolo di estinzione.
Non è una battaglia da poco, se pensiamo all'ultimo rapporto dell'IPPC:
http://www.greenreport.it/news/clima/clima-nuovo-rapporto-ipcc-rischi-che-potrebbero-far-cambiare-le-societa-umane/
Non è una battaglia da poco, se pensiamo all'ultimo rapporto dell'IPPC:
http://www.greenreport.it/news/clima/clima-nuovo-rapporto-ipcc-rischi-che-potrebbero-far-cambiare-le-societa-umane/
L'impatto dell'attività economica umana sul pianeta riguarda oramai tutte le sfere del vivere associato. Certamente, però, le questioni del cibo, dell'agricoltura, della gestione delle terre e dei beni comuni, sono questioni fra le più importanti e rilevanti.
Nel suo piccolo, "Resistenza Naturale" di Jonathan Nossiter è un potente atto culturale e politico che lancia un nuovo allarme: non abbiamo più tempo! Nelle sale in Italia dal 29 maggio e in Francia dal 18 giugno.
Nel suo piccolo, "Resistenza Naturale" di Jonathan Nossiter è un potente atto culturale e politico che lancia un nuovo allarme: non abbiamo più tempo! Nelle sale in Italia dal 29 maggio e in Francia dal 18 giugno.
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venerdì 27 dicembre 2013
La grande bellezza
Alla fine sono riuscito a vedere La grande bellezza di Sorrentino. Me ne avevano parlato benissimo e malissimo. Ho letto commenti e recensioni, un po' intimidito dai paragoni con Fellini ed Antonioni.
Avevo amato Le conseguenze dell'amore e ammirato Il divo, e persino parlato bene di This must be the place (più che altro per il mio malato rapporto con Sean Penn). Per dire che da scarsissimo frequentatore dei lidi cinematografici quale sono le aspettative erano alte.
Dunque, eccoci.
Parte e il film e vengo tramortito da un inizio devastante. Pessimo. Tra i peggiori che io ricordi. Mia mamma se ne va dopo dieci minuti, Valeria resiste quindici. Io insisto.
Arriva il Sorrentino più visionario, Servillo fa il suo mestiere, sebbene cominci a essere sempre troppo uguale a se stesso, arrivano pure dieci/venti minuti di grande cinema, tra dialoghi centrati e sequenze splendide. Ma il film è lungo e lento, ed io amo i film lenti, ma è lungo e lento nel senso che mi disturba proprio perché la sceneggiatura è inesistente e quando c'è è assolutamente non credibile - a volte addirittura irritante. L'artista nuda che va a cocciare la testa è una scena grottesca, ma di un grottesco non poetico, le comparsate della Ardant e di Venditti c'entrano come il cavolo a merenda, alcuni dialoghi sono patetici, così come l'arresto del mafioso o la giraffa del mago. Pure la "santa" è un espediente narrativo debolissimo. E ci si potrebbe limitare a questo. Ad una specie di racconto/romanzo di Ammaniti, e ho detto tutto.
Ma no, c'è di più.
La grande bellezza è un film reazionario. Dove l'arte per l'arte diventa artificio per scusare un reale che sembra apparentemente criticare ma che in realtà giustifica.
Una certa Italia è così. Muore e agonizza nel vuoto, ma in fin dei conti a salvarci viene la grande bellezza: Roma. L'Italia paese d'o Sole. Che è come dire "italiani brava gente" oppure "gli italiani alla fine cadono sempre in piedi, grazie alla creatività e alla bellezza del loro paese". Cazzate, ovviamente. Che qui a forza di rappresentare la merda nella merda ci sprofondiamo sempre più senza neanche sentirne nemmeno l'odore.
Forse vent'anni fa mi sarebbe piaciuto il cinismo del personaggio. O la decadenza putrescente di una trama che non c'è.
Oggi no. Oggi non c'è più tempo. Oggi sento bisogno di qualche forma di ribellione e non di film che tentano di imitare un modo grande di fare cinema italiano solo per blandire gli americani e portare a casa un Oscar.
E sì, la fotografia è come sempre fantastica. Ma allora potevi fare il fotografo. E sì, il barocco di Roma è stupendo. Ma allora potevo guardare un documentario della bbc.
venerdì 3 agosto 2012
L'isola del cinema
Reduce da una due giorni romana all'insegna del grande cinema (a proposito: L'emploi du temp di Cantet e Sunday di Nossiter sono due film eccezionali) e del vino naturale, resta una riflessione di fondo sul valore di queste commistioni: come vignaioli artigiani stiamo sfruttando ancora poco il gigantesco potenziale insito nei nostri vini e nel nostro lavoro.
Sta emergendo chiaramente negli ultimi anni come il nostro atto creativo sia un atto eminentemente culturale - forse non artistico come mi ha fatto notare Giovanni Bietti - ma certamente culturale (nell'accezione più moderna del termine "cultura"). Ma se è così, il confronto nell'ambito della cultura e dei suoi circuiti, deve divenire sempre di più il nostro obiettivo, la nostra missione. Come scrivevo recentemente (qui), dovremmo davvero rivoluzionare il modo con cui organizziamo i nostri saloni e cercare quanto più possibile la contaminazione con altre forme di cultura: il cinema, come sta facendo benissimo Jonathan Nossiter, ma anche la musica, la letteratura, la poesia. Immaginando laboratori innovativi e coinvolgenti che possano creare circuiti virtuosi, anche commercialmente, e che possano svecchiare definitivamente il mondo dell'agricoltura, rendendolo sempre più protagonista di una vera e propria rinascita.
Sta emergendo chiaramente negli ultimi anni come il nostro atto creativo sia un atto eminentemente culturale - forse non artistico come mi ha fatto notare Giovanni Bietti - ma certamente culturale (nell'accezione più moderna del termine "cultura"). Ma se è così, il confronto nell'ambito della cultura e dei suoi circuiti, deve divenire sempre di più il nostro obiettivo, la nostra missione. Come scrivevo recentemente (qui), dovremmo davvero rivoluzionare il modo con cui organizziamo i nostri saloni e cercare quanto più possibile la contaminazione con altre forme di cultura: il cinema, come sta facendo benissimo Jonathan Nossiter, ma anche la musica, la letteratura, la poesia. Immaginando laboratori innovativi e coinvolgenti che possano creare circuiti virtuosi, anche commercialmente, e che possano svecchiare definitivamente il mondo dell'agricoltura, rendendolo sempre più protagonista di una vera e propria rinascita.
venerdì 13 luglio 2012
venerdì 20 gennaio 2012
Della classicità
Settimana importante. Giornate di potature intense, spesso sotto un sole invernale quasi accecante.
E alcuni vini che mi fanno riflettere. In compagnia di due grandi del terroir jesino, Natalino Crognaletti ed Alessandro Fenino, uno straordinario Verdicchio Castelli di Jesi Villa Bucci 1992, quasi una pietra filosofale del nostro vitigno bandiera. Poi il grandissimo Mersault JM Roulot 2009, cristallino e puro, durante la bella serata alla cineteca di Bologna, inaugurazione della bella rassegna di Jonathan Nossiter. E infine, alla memoria, un commovente Amarone della Valpolicella Quintarelli 1993, in quel bellissimo winebar che è il twinside.
Così, discutendone avidamente anche con Jonathan e con Fabio Giavedoni, quello che è emerso da questo percorso casualissimo attraverso la storia di questi vini è una idea piuttosto condivisa di "classicità". Vini dove a farla da padrone è la tradizione, la fedeltà ad un canone, la riconducibilità ad un paradigma. E ciò che stupisce è l'assoluta mancanza di noia innanzi a tutto ciò. La meraviglia, anzi, di fronte a ciò che sembra assomigliare ad un ideale platonico. Che è poi tutto il contrario della sperimentazione, degli estremismi, della ricerca di effetti speciali di cui soffrono sia i più feroci difensori della Tecnica, sia i più accaniti rappresentanti della Nouvelle Vague naturalista.
E la riflessione che si può essere grandi classici senza essere per forza mainstream e conformisti e che la tradizione, quando è magica, può essere più rivoluzionaria di un progresso privo di senso.
E alcuni vini che mi fanno riflettere. In compagnia di due grandi del terroir jesino, Natalino Crognaletti ed Alessandro Fenino, uno straordinario Verdicchio Castelli di Jesi Villa Bucci 1992, quasi una pietra filosofale del nostro vitigno bandiera. Poi il grandissimo Mersault JM Roulot 2009, cristallino e puro, durante la bella serata alla cineteca di Bologna, inaugurazione della bella rassegna di Jonathan Nossiter. E infine, alla memoria, un commovente Amarone della Valpolicella Quintarelli 1993, in quel bellissimo winebar che è il twinside.
Così, discutendone avidamente anche con Jonathan e con Fabio Giavedoni, quello che è emerso da questo percorso casualissimo attraverso la storia di questi vini è una idea piuttosto condivisa di "classicità". Vini dove a farla da padrone è la tradizione, la fedeltà ad un canone, la riconducibilità ad un paradigma. E ciò che stupisce è l'assoluta mancanza di noia innanzi a tutto ciò. La meraviglia, anzi, di fronte a ciò che sembra assomigliare ad un ideale platonico. Che è poi tutto il contrario della sperimentazione, degli estremismi, della ricerca di effetti speciali di cui soffrono sia i più feroci difensori della Tecnica, sia i più accaniti rappresentanti della Nouvelle Vague naturalista.
E la riflessione che si può essere grandi classici senza essere per forza mainstream e conformisti e che la tradizione, quando è magica, può essere più rivoluzionaria di un progresso privo di senso.
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lunedì 24 ottobre 2011
Cose che risollevano il morale
This must be the place è un film imperfetto. Qualche buco narrativo e qualche dialogo sottotono non scalfiscono, però, la potenza di immagini straordinarie e di un Sean Penn favoloso. E' un film rock'n'roll, coraggioso per come racconta l'assurdo e per come fotografa la vita. E Sorrentino è veramente il più importante regista italiano degli ultimi vent'anni. (Parentesi: il cameo di David Byrne che recita se stesso vale, da solo, il prezzo del biglietto)
Il millesimo 2002 dello Champagne Pascal Mazet, Premier Cru a Chigny-Les-Roses, è gessoso, croccante e disteso. Quando lo Champagne è così non ce n'è per nessuno. Per altro costa meno di 20 euro in cantina...
E poi arrivano mail così: "I have now tasted the wines – I opened the bottles 10 days ago, they were still slightly closed. I still have them open in a fridge and taste them every three days, they seem to get all the time better and better, fantastic! I have had same kind of experiences with other biodynamic quality producers we work with. Beautiful, beautiful wines, very focused and pure terroir wines. I have to say that I am highly impressed and in love with the wines".
Il millesimo 2002 dello Champagne Pascal Mazet, Premier Cru a Chigny-Les-Roses, è gessoso, croccante e disteso. Quando lo Champagne è così non ce n'è per nessuno. Per altro costa meno di 20 euro in cantina...
E poi arrivano mail così: "I have now tasted the wines – I opened the bottles 10 days ago, they were still slightly closed. I still have them open in a fridge and taste them every three days, they seem to get all the time better and better, fantastic! I have had same kind of experiences with other biodynamic quality producers we work with. Beautiful, beautiful wines, very focused and pure terroir wines. I have to say that I am highly impressed and in love with the wines".
giovedì 23 dicembre 2010
Per qualche dollaro in più
C'è questa scena nel film di Sergio Leone: il pistolero Clint Eastwood va dallo sceriffo per incassare la taglia sui fuorilegge che ha appena ucciso. Lo sceriffo era colluso, aveva inutilmente avvertito i fuorilegge del pericolo. Il pistolero prende i soldi, lo guarda di sbieco e gli fa, sarcastico: "Ma lo sceriffo non deve essere coraggioso, leale ed onesto?". Poi prende la stella e la strappa dal bavero.
Il pistolero esce. Due campesinos sono fuori dall'ufficio dello sceriffo. Il pistolero li guarda, getta la stella per terra e bofonchia: "Cercatevene un altro".
Il pistolero esce. Due campesinos sono fuori dall'ufficio dello sceriffo. Il pistolero li guarda, getta la stella per terra e bofonchia: "Cercatevene un altro".
lunedì 28 dicembre 2009
Fine decennio
Non ho ancora capito a quale decina appartenga lo "zero". Fatto sta che dieci anni fa ero nella Grande Mela a festeggiare la fine del millennio. E poi ci dissero che secondo alcuni matematici si sarebbe dovuto aspettare l'anno seguente...

Allora il prossimo capodanno finiscono gli anni "zero" del duemila oppure no? Tutti pensano di sì. E via con le classifiche ed i riconoscimenti ai migliori ed ai peggiori del decennio.

A proposito, sono già passati dieci anni. Dieci anni. Dieci anni, a marzo, che Valeria ed io viviamo a Cupra. Ci siamo arrivati da figli che lasciavano la famiglia. Ed ora siamo genitori. Ci siamo arrivati con le nostre valigie cariche di sogni. Ed ora siamo qui, con qualche sogno avverato e qualcuno invece no. Fermi da un pò a stilare bilanci. (Brutta roba, i bilanci. O bella. A seconda che davanti ci sia un segno "-" o un segno "+").
E comunque siamo qui, ancora in piedi, in qualche modo indecisi sul senso da dare ai prossimi dieci. Che presumibilmente passeranno più rapidamente degli zero - che sono stati molto più veloci dei novanta - che erano più sprint degli ottanta - vere tartarughe al confronto, con tutte quelle interminabili ore sui banchi di scuola... I settanta non so, non me li ricordo.
C'è da bersi su, come sempre. Un brindisi con chi c'è, un brindisi per chi non c'è più. E via così, verso un'altra decina, verso altri sogni, chissà...
Ben consapevole della assurdità della stupidità di queste elaborazioni da rotocalco, ecco le mie preferenze decennali:
La vendemmia del decennio è stata la 2004.
Il mio libro del decennio La Strada di McCarthy.
E questi i miei dischi, senza alcun ordine preciso: American IV - Johnny Cash, 2002. Kid A - Radiohead, 2000. A rush of Blood to the Head - Coldplay, 2002. We Shall Overcome: The Seeger Sessions - Bruce Springsteen, 2006. Back to Black - Amy Winehouse, 2006. Sky Blue Sky - Wilco, 2007. Because of the times - Kings of leon, 2007. Pearl jam - Pearl jam, 2006. Neon Bible - Arcade Fire, 2007. Come away with me - Norah Jones, 2002.
Il film: Into the wild.
L'evento: il crollo dell'economia a fine 2008.
Il personaggio: sì, sì, proprio lui, George W. Bush.
Anche questa è fatta. Ci vediamo nel nuovo decennio. (Ma il numero "zero" a quale decina appartiene?)
lunedì 11 febbraio 2008
American movies
Due grandi film americani: al cinema ho visto Into the wild di Sean Penn; in DVD, invece, Reign over me di Mike Binder.
Il primo, forse fin troppo osannato da certa critica, è un film di immagini e visioni, con una fotografia meravigliosa. E' un film forse difficile da capire per chi non conosce o non ama l'america, i miti della frontiera, della libertà assoluta, del grande Nord, di un "West" interiore prima ancora che geografico. E' un film estremo, come la storia del protagonista, lungo, difficile per certi versi. Con una colonna sonora esaltante a firma Eddie Vedder. Un film in cui libertà si declina come solitudine e rifiuto della società, con una serie notevole di riferimenti letterari (Thoureau e London, su tutti), musicali (tutto il rock americano), cinematografici (in qualche modo Easy rider, Il mucchio selvaggio, Balla coi lupi).
Il secondo è un film basato, invece, sulla sceneggiatura e gli attori. Un grande Adam Sandler nel ruolo di un vedovo dell'11 settembre incapace di metabolizzare il dolore. Un ottimo Don Cheadle nel ruolo dell'amico, a sua volta in crisi. Un cameo pazzesco di Donald Sutherland. Il tutto a servizio di una storia coerente e bella che si svolge attraverso dialoghi riusciti e toccanti sullo sfondo di una New York affascinante e reale. Cigliegina sulla torta la musica: unico rifugio del protagonista per sfuggire al dolore della perdita, il film è segnato dal rock più classico, come il titolo stesso, un pezzo degli Who, lasciava presagire. Stupenda la scena dei due amici che jammano su Out in the street di Springsteen, così come la scena madre del racconto catartico della perdita che si dissolve in modo straziante su Drive all night, sempre da The River, che appare quasi riferimento epico e generazionale dell'America di oggi.
Il primo, forse fin troppo osannato da certa critica, è un film di immagini e visioni, con una fotografia meravigliosa. E' un film forse difficile da capire per chi non conosce o non ama l'america, i miti della frontiera, della libertà assoluta, del grande Nord, di un "West" interiore prima ancora che geografico. E' un film estremo, come la storia del protagonista, lungo, difficile per certi versi. Con una colonna sonora esaltante a firma Eddie Vedder. Un film in cui libertà si declina come solitudine e rifiuto della società, con una serie notevole di riferimenti letterari (Thoureau e London, su tutti), musicali (tutto il rock americano), cinematografici (in qualche modo Easy rider, Il mucchio selvaggio, Balla coi lupi).
Il secondo è un film basato, invece, sulla sceneggiatura e gli attori. Un grande Adam Sandler nel ruolo di un vedovo dell'11 settembre incapace di metabolizzare il dolore. Un ottimo Don Cheadle nel ruolo dell'amico, a sua volta in crisi. Un cameo pazzesco di Donald Sutherland. Il tutto a servizio di una storia coerente e bella che si svolge attraverso dialoghi riusciti e toccanti sullo sfondo di una New York affascinante e reale. Cigliegina sulla torta la musica: unico rifugio del protagonista per sfuggire al dolore della perdita, il film è segnato dal rock più classico, come il titolo stesso, un pezzo degli Who, lasciava presagire. Stupenda la scena dei due amici che jammano su Out in the street di Springsteen, così come la scena madre del racconto catartico della perdita che si dissolve in modo straziante su Drive all night, sempre da The River, che appare quasi riferimento epico e generazionale dell'America di oggi.
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