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sabato 26 febbraio 2022

La guerra in Ucraina vista da una vigna

Riporto uno stralcio da "Come vignaioli alla fine dell'estate" che mi sembra particolarmente calzante rispetto a quanto succede in Ucraina, soprattutto pensando alla questione energia/clima/stati-nazione.


Da una vigna puoi capire molto bene alcune questioni del contemporaneo.

Le vigne hanno dei confini naturali o artificiali molto netti. Spesso quelle storiche, soprattutto in Borgogna, sono dei clos, cioè degli spazi delimitati da muretti a secco. Altre volte a far da limite sono viottoli o fossi o canneti oppure file di alberi (si pensi ai cipressi toscani). Spesso questi confini delimitano, se crediamo al principio del terroir, identità ben precise e differenti. Ma anche delle «sovranità»: i proprietari del fondo determinano cosa piantare, chi far lavorare, quando raccogliere, ecc. E spesso accade che tra un clos e l’altro non sia solo la natura a far la differenza, ma anche l’uomo.

Il momento che stiamo vivendo è l’onda lunga delle prime recinzioni di terre comunitarie, le enclosures che furono alla base del capitalismo moderno e della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni sono state anche alla base della Grande Trasformazione (1) e, dunque, anche di quello Stato-Nazione che oggi viene richiamato da destra e da certa sinistra come salvifico gommone di salvataggio contro la globalizzazione cattiva. Senza accorgersi, invece, che proprio come le enclosures furono incentivate dallo Stato per facilitare la ricca aristocrazia rurale inglese, così la globalizzazione si è ser- vita degli Stati nazionali per imporre la sovranità della finanza sul mondo reale.

È l’assurdo di un mondo capovolto, nel quale la Cina comunista vuole apparire come «aperta» al commercio e l’America di Trump diventare protezionista. Dov’è la sovranità? Nei parlamenti nazionali o nei consigli di amministrazione delle multinazionali? Nelle deboli, e spesso corrotte, strutture sovra-nazionali o nella liquida ed efficiente intelligenza del Capitale contemporaneo?

Perché la verità è che lo scontro tra globalisti e sovranisti è solo un altro modo per fottere quello che rimane della working class. Che ci perde in ogni caso.

Tutto questo lo puoi vedere da una vigna.

Che cos’è la sovranità d’altronde se non il potere su di un territorio? Potere e territorialità. La terra è da sempre anzitutto una geografia su cui instaurare un potere. Nella mia vigna, all’interno di confini ben delimitati sulle mappe catastali, c’è la mia sovranità di proprietario, ma essa coesiste con una legisla- zione regionale, statale, europea e persino globale che rendono il mio potere su quella porzione di terra fortemente limitato: non posso, ad esempio, impiantare una vigna nuova senza aver ottenuto diritti di impianto; non posso impedire ai cacciatori di passare e cacciarci dentro; non posso usare alcuni pro- dotti chimici, giustamente vietati; oppure sono costretto a usarne alcuni in casi di emergenze fitosanitarie.

Quello che è accaduto nel nostro pianeta sotto la spinta della tecno-scienza e delle trasformazioni dei modi di produzione degli ultimi decenni è anche, e soprattutto, la riduzione dello spazio geografico, antropologico e sociale. Nel villaggio globale l’Homo oeconomicus è specie dominante uguale a se stessa indipendentemente da ogni particolarismo. Siamo consumatori globali, ma non siamo cittadini del mondo. C’è una scissione tra bisogni, aspirazioni, immaginari globali e diritti e sovranità locali e limitati. Da questo punto di vista siamo o potremmo essere tutti migranti economici: di fronte al movi- mento libero del capitale, ai disastri ambientali sempre piùfrequenti, alle guerre delle quali perdiamo memoria, a distanze sempre meno rilevanti, di fronte a immaginari reali e virtuali sempre più condivisi e attesi che si scontrano con confini sempre più stringenti.

La forzatura di massa dei confini nazionali potrebbe essere una delle cifre maggiori del prossimo futuro, una forza prepotente di cambiamento che correrà parallela alla forza naturale/artificiale del cambiamento climatico: ecco perché meticciato e libertà di movimento sono diventate «la» prima emergenza per i difensori di un presunto conservatorismo oramai fuori tempo massimo.

Viviamo una cesura storica senza precedenti. La terza rivoluzione industriale ci consegna un mondo che è solo un lontano parente di quello esistente 250 anni fa. Dopo la Prima rivoluzione industriale, basata sulla forza motrice dei «carburanti», dopo la Seconda rivoluzione industriale incentrata sulla chimica, la rivoluzione digitale, con tutte le sue applicazioni diffuse, ha stravolto non solo le economie ma anche le relazioni spazio-temporali tra gli umani. Eppure cerchiamo di governare questo mondo attraverso infrastrutture istituzionali vecchie e superate, pensate per abitare una realtà che non esiste più.

Si potrebbe, invece, guardare alle piante. Alla loro capacità di decentrare le decisioni: «in generale, le piante distribuiscono sull’intero corpo le funzioni che gli animali concentrano in organi specifici (...). In un certo senso la loro organizzazione è il segno stesso della modernità: hanno un’architettura modulare, cooperativa, distribuita e senza centri di comando, in grado di sopportare alla perfezione predazioni catastrofiche e ripetute» (2). Al contrario di quanto si pensa, in natura le gerarchie sono rare e funzionano male. Le complessità vengono risolte non attraverso logiche di potere, ma attraverso i principidi un’intelligenza collettiva. Nella loro storia evoluzionistica i vegetali hanno risolto i problemi posti dall’ambiente in modo molto diverso dagli animali. Radicamento profondo in un luogo e capacità di vagabondare pressoché illimitata di semi e spore: le piante possono apparire davvero come un modello per le comunità umane del futuro alle prese con un pianeta sempre più piccolo.

Oggi la potenza e la velocità del cambiamento in atto condurranno al dissolvimento delle vecchie strutture «sovraniste», non al loro consolidamento. «L’antropocene richiede un mutamento delle visioni consolidate del governo e della legittimità (...) Il vecchio modo di vedere la responsabilità e l’impatto dell’azione individuale non è più adatto all’Antropocene per via degli aspetti collettivi, sistematici e permanenti della nuova interazione fra umanità e natura» (3). Come la Grande Accumulazione sfociata nella Prima rivoluzione industriale ha portato alla fine del feudalesimo e alla costruzione di nuove istituzioni politiche, così la Grande Accelerazione, prodromo alla rivoluzione digitale, non potrà che mettere sempre più in sofferenza l’intero impianto normativo contemporaneo. Costringendoci a rivederne «le sue vecchie fondamenta politiche se non vogliamo vedere il nostro sistema globale spinto a forme di collasso sempre più estreme. Questo non è un piccolo sforzo: occuperà la parte maggiore di questo secolo. Non sappiamo ancora dove porterà» (4).

Niente sarà più come prima nell’Antropocene.

Nemmeno la vigna che ho davanti agli occhi. Nemmeno i vini che ne verranno fuori. Non ci sarà alcun grand-cru classé a poter resistere a questa sovversione e qualunque idea di un terroir immobile, cristallizzata dentro disciplinari, pensata per la protezione di vitigni o parcelle indifendibili, è destinata a franare. Con buona pace di ogni sovranità immaginata dentro ai muretti a secco dei clos.

Note:

1)    Karl Polanyi, "La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca", Einaudi, Torino 2010.

2)    Stefano Mancuso, "Plant revolution", Giunti, Firenze 2017, p. 145.

3)    Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, "Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo", DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 190 e 191.

4)    Rana Dasguspta, "The demise of the nation state", The Guardian, 05/04/2018.

domenica 18 luglio 2021

Come vignaioli alla fine dell'estate: l'introduzione

C’è questo primo fermo immagine dell’estate 2019 che continua a passarmi per la mente.
 

Una slitta trainata da cani, un cielo azzurro e luminosissimo, una linea di montagne sullo sfondo. La slitta e i cani viaggiano sospesi sull’acqua. Camminano letteralmente sulle acque. 

La foto è stata scattata in Groenlandia e mostra lo scioglimento del permafrost: appena sotto il pelo dell’acqua c’è il ghiaccio che si sta sciogliendo e sul quale i cani e la slitta stanno scivolando, generando l’incredibile effetto ottico (1)

C’è poi una seconda immagine molto potente in questa estate a tratti surreale: si tratta di una foto satellitare che mostra gli incendi scoppiati in Siberia. Si stima che tre milioni di ettari fra boschi e tundra siano andati in fumo, rilasciando 140 milioni di tonnellate di CO2, una cifra assolutamente gigantesca che ci racconta di una dinamica climatica totalmente fuori controllo.

Infine c’è un’ultima fotografia che rincorre nella mia mente le altre due, provando in qualche modo a cancellarle. Siamo in mezzo alle rovine di Micene, in mezzo a grandi blocchi di pietra che testimoniano di una grande civiltà in frantumi. Ecco, proprio lì, in mezzo ad alcune pietre di una antica dimora devastata, cresce una vite. Una vite selvatica. Che prova a farsi strada e a sopravvivere là dove non c’è più nulla.

La vite. Pianta resiliente, testarda e ribelle. Unica forma di vita in mezzo al vuoto. 

È un’immagine che mi fa riflettere sul movimento dei vignaioli naturali. Su quanto sia al centro del grande cortocircuito fra natura e cultura e su quanto poco stia facendo per prendere davvero posizione di fronte alla catastrofe ecologica.

 


La crisi ambientale che stiamo vivendo è in gran parte una crisi della Politica.

Nel 1975 Wallace Broecker pubblicava su Science un articolo dal titolo emblematico: Climatic Change: Are we on the Brink of a Pronounced Global Warming?” (2). L’insostenibilità del nostro modello di sviluppo è cioè cosa nota da sessant’anni almeno, eppure non è mai stata davvero al centro delle campagne elettorali o dei programmi politici di nessun grande partito politico di massa.

Nella ri-edizione di “Tempi storici Tempi biologici”, nel 2005, Enzo Tiezzi affermava “con un misto di imbarazzo e di orgoglio che le previsioni di vent’anni fa si sono dimostrate fondate e scientificamente corrette”. Nulla si crea e nulla si distrugge, la legge della termodinamica non fa sconti a nessuno: il ciclo del Carbonio sta alla base dell’aumento fuori controllo delle temperature del pianeta. I politici lo sanno da tempo. Ma nessuno ha mai davvero agito.

 

Eppure, se una speranza esiste, questa risiede ancora una volta proprio nella politica. 

In una nuova rotta.

Veniamo da anni, decenni, dominati dalla cieca fede in una dimensione globale sbagliata che ha prodotto danni sociali ed ambientali devastanti. La reazione è stata peggiore del male: una tendenza a rifugiarsi nell’identità locale e in un nuovo nazionalismo escludente. 

Dobbiamo cambiare immaginari, utilizzare nuove parole, pensare nuovi attori. Delineare i protagonisti della nuova lotta che si muovano in un terzo orizzonte, al contempo locale e globale.

“Ci vuole un termine che raccolga la stupefacente originalità (la stupefacente antichità) di questo agente. Chiamiamolo per il momento il Terrestre, con la T maiuscola per evidenziare che si tratta di un concetto; e, anche, per precisare in anticipo dove ci si dirige: il Terrestre come nuovo attore politico” (3).

 

Ho scritto questo libro con tutta l’urgenza che un mondo arrivato al capolinea può generare. Con gli occhi di un agricoltore che vede la natura cambiare giorno dopo giorno, immerso in una pratica quotidiana che dipende spesso da variabili incontrollabili. 

Ho scritto questo libro nella speranza che possa informare, angosciare, sensibilizzare. Che possa convincere almeno un solo lettore della necessità di un attivismo concreto e radicale contro il riscaldamento globale.

Il pessimismo della ragione mi porta a pensare che sia già troppo tardi. Al tempo stesso credo che non si debba lasciare nulla di intentato. 

Lo dobbiamo ai nostri figli cui lasciamo un pianeta in fiamme. 

 

 




(1) Sono 290 i miliardi di tonnellate di ghiaccio fuso che si sono riversate nell’Atlantico nei primi sette mesi dell’anno e certamente il record del 2012 verrà superato.

(2) https://blogs.ei.columbia.edu/files/2009/10/broeckerglobalwarming75.pdf

(3) Bruno Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.
Pagg. 55 e 56

 

domenica 27 giugno 2021

Socialismo o barbarie: i dubbi di un anarchico di fronte al futuro

Ci ho messo un anno a scrivere questo post "sulla pandemia".
Stava lì nelle "bozze". Cancellato e ricominciato mille volte. Ad ogni chiusura e a ogni riapertura. A ogni nuova notizia o polemica. A ogni commento di Tizio o di Caio che mi parevano aver torto o ragione. 
Ora nelle Marche siamo in una situazione di siccità estrema e ci sono temperature che in giugno non si erano quasi mai viste. E penso che tutto si tiene, che tutto è correlato. E allora ci riprovo.
Da dove posso cominciare?
Forse dal riso amaro che mi ritrovo stampato in faccia da mesi scorrendo i social media e i giornali on-line, alla ricerca di opinioni che mi aiutino a capire e ad approfondire i temi di questa pandemia. 
Il riso amaro di fronte allo stato di questo paese e di questo nostro occidente.
Siamo bombardati da opinioni e informazioni di ogni tipo. E la pioggia torrenziale di questa inesauribile comunicazione si fa subito fango, pantano dove è impossibile trovare una via percorribile verso una qualche forma di conoscenza stabile, sicura, definita.
Vorrei allora provare un ragionamento differente. Che abbracci uno sguardo da lontano. Che metta da parte l'informazione singolare e immediata cui ci stiamo abituando sempre più, e provi a collocare questi giorni nella loro complessità plurale.
Stiamo assistendo ad una violentissima accelerazione della Storia.
Parlando coi miei figli ho provato a spiegarglielo. Tutte le generazioni vivono almeno un momento storico fondamentale, decisivo. Per la mia generazione - ad esempio - è stato il crollo del muro di Berlino, nella sua dimensione ideologica prima che fisica. Per la generazione precedente certamente il ciclo di movimenti sessantotto/settantasette. 
Questa pandemia sarà molto probabilmente il "loro" evento: qualcosa che sposta i destini e muta le dinamiche sociali e politiche. Non fraintendetemi. Non sono così naif da pensare al singolo evento (la scoperta dell'America, l'invenzione della macchina a vapore...) come unica determinante della Storia: la storiografia moderna, marxista e non, ha da tempo mostrato l'importanza delle "derive", dei tempi lunghi, delle accumulazioni, dei movimenti sotto-traccia, delle dialettiche sociali ed economiche, spesso invisibili, che incidono sui grandi fatti.
È incontestabile, però, che l'arrivo di questo virus - uno shock esogeno direbbero gli economisti - sta mettendo sotto pressione tutte le delicate strutture con cui le moderne democrazie occidentali più o meno liberali avevano provato a mantenere un fragile equilibrio: quello tra benessere economico, coesione sociale e libertà personali. Non solo. L'arrivo del virus ha rimesso di colpo in discussione paradigmi che sembravano inscalfibili.
Si pensi, ed è l'esempio più clamoroso, all'Europa: nel giro di pochi mesi il COVID-19 ha raso al suolo decenni di pensiero ordo-liberale basato sull'austerità. Nemmeno la crisi finanziaria ci era riuscita: solo il governo italiano negli ultimi mesi ha speso decine e decine di miliardi di euro in deficit, qualcosa di inimmaginabile anche solo un anno fa. 
E ovviamente ci sarà un prezzo da pagare. Ma non è questo davvero il punto... 
Si tratta di una sensazione prima che di una ragionamento limpido.
Come posso spiegarlo?


Avete presente "Una poltrona per due"?
Ecco, è successo proprio quel che succede a Dan Aycroyd quando da ricco diviene povero: una certa parte del mondo (Principalmente nell'emisfero nord, principalmente in occidente, principalmente di pelle bianca) non era più abituata, da tempo, da almeno tre generazioni, a vivere in certe condizioni di estrema precarietà e insicurezza. E quando all'improvviso la propria Comfort Zone ha iniziato a vacillare si è trovata di colpo senza riferimenti. (Perché vaglielo a dire all'abitante di una favela brasiliana, al residente di una bidonville africana, al ragazzo di un paesino di campagna dell'India, che il Coronavirus sta intaccando il loro stile di vita!)Quello che non è ben chiaro alle classi medie occidentali è che, se è vero che da anni esiste un effetto trascinamento verso il basso della propria condizione, è però altrettanto vero che esse sperimentano ancora livelli di vita molto superiori a quelle delle generazioni precedenti oltre che dei miliardi di altri abitanti del pianeta che in occidente non vivono.
Lo dimostrano in modo incontestabile alcune delle reazioni più assurde al virus, tipo le lacrime per le mancate vacanze sugli sci in piena seconda ondata: pensiamo per un istante all'Europa del 1918 e pensiamo agli effetti combinati di una orribile guerra mondiale e di una epidemia come la spagnola e proviamo a sovrapporre queste immagini alle fotografie di certe corse all'aperitivo o allo shopping natalizio. L'effetto è di puro straniamento. 
Per questo motivo trovo insopportabile questa ipocrisia diffusa per cui intere masse di individui che hanno per decenni vissuto sopra le proprie possibilità - a danno degli altri abitanti del globo e delle risorse naturali del pianeta - negli ultimi mesi si siano fondamentalmente lamentati per la limitazioni di alcune del tutto prescindibili libertà borghesi.
Una ipocrisia che si sostanzia poi in un altro modo: milioni e milioni di cittadini che negli ultimi decenni hanno voluto meno Stato e più Mercato, che hanno votato in modo coerente e convinto per partiti di destra e/o di sinistra tutti quanti in modo trasversale favorevoli alla riduzione delle tasse (e dunque alla riduzione di stato sociale), alla riduzione del debito, alle privatizzazioni, ecco questi stessi cittadini si sono messi a pretendere all'improvviso l'assunzione di medici e infermieri, la ri-apertura di ospedali, la garanzia di tracciamenti su larga scala, la sistemazione dei trasporti pubblici e l'erogazione di sussidi a pioggia. Così, di colpo.
Certo, la povertà sta aumentando a dismisura. E certo, ci sono intere fasce di popolazione che soffrono pesantemente: ma c'erano anche prima e a chi interessavano? Questa è l'ipocrisia di Dan Aycroyd: si accorge della povertà solo quando diventa povero, che è esattamente ciò che sta succedendo.


Così mi ritrovo a confrontare la gestione della pandemia di tutti i paesi del Sud-America con quella di Cuba e penso Cazzo, compagni, forse quella Rivoluzione non ha avuto tutti i torti a privare il popolo di qualche libertà civile se poi è riuscita a costruire e mantenere sistemi sanitari ed educativi di qualità per tutti! (che poi in realtà ci sarebbe da discutere - e molto - sui diritti garantiti a Cuba, chiedere ad esempio agli omosessuali). 
Ma non era questo, in fondo, quel che sognavano i comunisti? Uno scambio fruttuoso e sostenibile tra libertà personale e diffusione dei diritti? Ed è - me ne rendo conto - un ragionamento orribile perché da anarchico ho sempre sofferto questa scelta. Non dovremmo proprio arrivarci a uno scambio del genere. Ma nel guardarmi intorno non posso non notare come la stragrande maggioranza dei comportamenti individuali - sui quali volenti o nolenti poggia l'idea di autogestione - abbia in questi ultimi mesi delineato in occidente una inequivocabile scelta valoriale: mettere in conto la convivenza con il virus e la sua diffusione, e dunque un certo numero di vittime, per mantenere in piedi, anche se zoppicante, il nostro "stile-di-vita". 
Si dirà, come sempre, TINA: There Was No Alternative. 
Ma ne siamo proprio sicuri?
La domanda non è oziosa. E sì! Sottende un certo moralismo. Ma non c'è nulla di male nel moralismo: dipende dai valori cui si fa riferimento. Anche il privilegiare l'economia ad ogni costo è una scelta morale. Si tratta di privilegiare l'utilitarismo e, questo, come ben sappiamo, è la base di Homo oeconomicus: un attore razionale teso alla massimizzazione della propria utilità personale. È un cazzo di valore. Ed è, in definitiva, il valore che fonda il capitalismo. 
La domanda non è oziosa per il semplice fatto che questa pandemia può essere vista in qualche modo come una "prova generale": il cambiamento climatico ci obbligherà a rinunciare per sempre ad alcune libertà personali in cambio della sopravvivenza della specie. Passato questo virus, che prima o poi passerà, ce ne saranno forse altri più gravi - o forse no - ma in ogni caso dovremo fronteggiare un paio di verità incontestabili: 
1) il caos climatico che ci attende produrrà effetti profondi e strutturali sulle nostre vite sociali
2) non saremo mai in grado di vivere in dieci/undici miliardi di essere umani sul pianeta Terra e ottenere contemporaneamente benessere economico, salute ecologica e libertà personale.
È una visione troppo pessimista? Troppo Malthusiana? Forse.
Ma non dobbiamo sprecare l'unica nota positiva che la pandemia ci ha consegnato: la sperimentazione del mondo che verrà se non cambiamo rotta. Perché ciò che stiamo vedendo in larga parte non è altro che un mondo vecchio che prova a resistere nell'unico modo che conosce: garantire un livello di consumismo che possa salvaguardare la sopravvivenza del sistema. 
È questo che davvero vogliamo?
O forse è urgente mettere in conto un'alternativa sapendo fin d'ora ch'essa non potrà essere il migliore dei mondi, l'utopia degli anarchici? Che nella società dell'Antropocene dovremo tutti rinunciare a qualcosa (un po' di benessere economico? qualcuna delle tante libertà che gli ultimi decenni ci avevano regalato?) purché queste rinunce siano nel senso della sobrietà e, soprattutto, della eguaglianza? 
Non è socialismo questo?
E non appare come l'unica soluzione alla barbarie?

mercoledì 5 agosto 2020

Nuovi mondi e vecchie politiche

Faccio politica da quando mi ricordo.
Già 9 o 10 anni, nei prati del Parco Ravizza a Milano, quando si giocavano infinite partite a pallone, mi mettevo in mezzo ai litiganti - c'era sempre qualcuno che la voleva risolvere a botte - per tentare un approccio assembleare, democratico e pacifista ai problemi generati da un calcio di rigore o da una punizione. 
Negli anni della giovinezza ho attraversato la Milano da bere, la caduta del muro di Berlino, la prima guerra del golfo, Mani pulite, l'avvento di Berlusconi, la globalizzazione sempre con la convinzione che la Politica fosse una azione necessaria e in qualche modo anche sufficiente all'organizzazione della vita umana sulla Terra (e forse anche nello Spazio). Ho re-incontrato Valeria, per poi non lasciarla più, durante una campagna elettorale. Insieme abbiamo creato La Distesa che è in qualche modo un luogo estremamente intriso di Politica. Ci siamo candidati in varie elezioni, abbiamo frequentato circoli e sezioni, abbiamo discusso e litigato più o meno con tutto l'arco costituzionale dei partiti locali. Non abbiamo mai preso una tessera: io - figuriamoci - sono ancora l'anarchico che ero a diciassette anni, e Vale la comunista eretica espulsa dalla federazione dei giovani comunisti... Insomma un mezzo disastro...
La nostra generazione ha prodotto mostri come Matteo Renzi e Matteo Salvini.
Il che basterebbe a negare ai 40/50enni di oggi il diritto a fare Politica. 
La realtà è che si avvicinano le elezioni regionali nelle Marche - ma non solo - e molto semplicemente monta la totale disperazione sul "che fare?".
Siamo cresciuti con la narrazione del "meno-peggio", del "voto-utile", del "sennò-vince-tizio". Una storia figlia della fine delle ideologie e che ha radicalmente svuotato di contenuti ogni contenitore della ormai presunta sinistra, sia quella di lotta che quella di governo. Qualche volta si è votato, qualche volta no. Qualche volta più convintamente, qualche volta meno. Ma sempre con la certezza di essere minoranza di una minoranza, senza alcuna reale capacità di incisione sulla tela della storia. Piccola o grande che fosse.
Con gli amici dei centri sociali tante volte ci siamo amichevolmente scontrati sulla necessità - o meno - di un confronto istituzionale, di una "politica politicante" e non solo conflittuale, di una qualche forma organizzata di "rappresentanza". 
La sensazione sempre più netta, più cogente, più dolorosa, è che il quadro odierno (che sì! È anche figlio di COVID ma è soprattutto il frutto di una dinamica storica che viene da lontano) sia del tutto mutato. 
Ci troviamo di fronte a mondi totalmente nuovi e sconosciuti e la sensazione è quella di affrontarli, viverli, utilizzando strumenti vecchi e superati. 
Come se navigassimo in Internet oggi ma con la connessione di venti anni fa.
Come se affrontassimo un esercito perfettamente equipaggiato con archi e frecce.
Il dibattito internazionale sui Fondi Europei, il dibattito nazionale (ma anche globale) sull'immigrazione, la reazione internazionale alla Pandemia... Tutto appare ridicolo, fuori luogo, stonato.
Abbiamo istituzioni e regole pensate in un novecento che non esiste più. Che è stato semplicemente spazzato via. A partire dal feticcio "Stato-Nazione".
Ci troviamo a parlare di liste, listini e listarelle per una Regione che non ha ancora minimamente superato i problemi della crisi 2008/2012, che non ha saputo affrontare il terremoto, che ha fatto fallire attività produttive e aeroporti, che ha tagliato la sanità in lungo e in largo salvo poi chiedere fondi per aprire un ospedale COVID da dodici milioni di euro rimasto vuoto, che non ha alcun tipo di visione per il futuro che non sia la Sagra del Prodotto Tipico di 'staminchia.
Sono oramai trent'anni che la politica non è altro che l'affannato tentativo di gestire vecchi centri di potere - di destra e di sinistra - nel tentativo di mantenere un instabile consenso elettorale. Un consenso il cui unico fine è la gestione delle infinite emergenze cui gli amministratori di ogni livello sono tenuti a rispondere. La questione della "casta" si è risolta semplicemente nel tentativo di sostituzione di ceti politici ed il populismo altro non è se non il cavallo di Troia di chi vuole affrontare il tema della globalizzazione attraverso la costruzione di nuovi rifugi indentitari. Ci siamo già passati e non è finita bene.          
Per questo ci sembra assurdo parlare di candidature, alleanze, accordi, dialoghi col territorio, e tutto l'armamentario di una retorica politichese fuori tempo massimo. Ci sono dinamiche là fuori che stanno sgretolando il nostro vecchio mondo e l'unica risposta sensata sarebbe quella di una rinnovata carica utopista. Perché quando la distanza tra istituzioni e mondo reale si fa incolmabile, quello è il momento che precede le rivoluzioni.

lunedì 27 gennaio 2020

Cupramontana, di nuovo capitale

Uno dei regali più belli per il ventesimo anniversario de La Distesa è certamente quel che sta succedendo a Cupra.
Entrando in paese in automobile da sempre si viene accolti da un cartello che recita "Benvenuti a Cupramontana, capitale del Verdicchio". Il riferimento è a una dicitura "ufficiale" risalente al 1939 che - ben prima dell'avvento della DOC - formalizzava la centralità del Comune nel contesto della produzione vitivinicola marchigiana.
Qui d'altronde ebbe sede una delle cattedre ambulanti di enologia (fine ottocento), qui nacque la famosa Fazi-Battaglia, qui venne istituita una delle più storiche cooperative vinicole (la Colonnara).
Negli anni sessanta si contavano una trentina di imbottigliatori (le cantina Aurora di mio nonno era fra queste).
Poi cominciò la crisi. Complici la fine della mezzadria, e la conseguente emigrazione, e una qualità media dei vini decisamente in caduta libera.
Quando nel 2000 cominciammo a imbottigliare come La Distesa in paese erano rimasti solo la cantina sociale, l'azienda Bonci e un paio di piccole realtà principalmente legate al commercio di vino sfuso.
C'era un solo produttore bio, ovviamente bistrattato da tutti, che imbottigliava pochissime bottiglie.
Dopo venti anni il panorama è completamente cambiato. Tanto che la guida "L'Italia di vino in vino" edita da AltraEconomia a firma di Luca Martinelli, Sonia Ricci e Diletta Sereni (con la prefazione di Armando Castagno) dedica a Cupra un intero capitolo. È una scelta rilevante dato che gli altri capitoli sono dedicati a interi distretti vinicoli (le Langhe, il Collio, l'Etna, la Valpolicella, ecc.) e a realtà ben più conosciute ed estese (il Carso, il Chianti senese, ecc.)


Quello che è stato colto è probabilmente la vitalità di una scena che negli ultimi anni è letteralmente esplosa. "La piccola comunità di vignaioli artigiani-naturali" recita il sottotitolo. Ed è così. Capita spesso, quando giro per fiere o chiacchiero con colleghi, che mi venga chiesto: "ma cosa succede a Cupra?" con un misto di ammirazione e stupore, soprattutto considerando il resto dei Castelli di Jesi o Matelica.
Oggi le cantine che imbottigliano a Cupra hanno abbondantemente superato la decina ma, soprattutto, va notato come le nuove realtà operino quasi tutte in regime biologico e/o in naturale. 
A fianco a noi c'è l'oramai storica Marca di San Michele con i suoi vini sempre di altissimo profilo; sempre a San Michele da qualche anno si è affermata Ca'Liptra che arricchisce il catalogo supernatural di Les Caves de Pyrene; non lontano la brava Giulia Fiorentini, i cui vini sono da poco entrati nel catalogo di Velier/Triple A. Senza dimenticare che, nel comune di Staffolo ma sul lato che guarda Cupra, e in linea d'aria davvero vicinissimi, ci sono aziende di grande valore di ispirazione naturale come La Staffa di Riccardo Baldi o biologiche come Antonio Failoni.
Ma è tutto il territorio a muoversi in questa direzione se si considerano anche i conferitori di uve: realtà di altissimo spessore come Pievalta (che ha appena impiantato vigne a cupra, lato monte Follonica) o Andrea Felici acquistano uva bio in contrada San Michele; la stessa Colonnara ha molti soci in regime biologico e da poco una linea bio. 
Nuovissime realtà artigiane e bio con vigneti a Cupra hanno iniziato da pochissimo: Colle Jano, Oppeddentro, mentre a breve sarà possibile assaggiare la prima annata di una nuovissima azienda completamente naturale con vecchie vigne nella zona di Manciano.
Inutile dire che tutto ciò ci riempie di gioia e anche - un pochino - di orgoglio per un effetto "trascinamento" che certamente abbiamo contribuito a scatenare. Così come è molto probabile che il lavoro di zonazione delle vigne cuprensi assieme all'apertura del complesso dei Musei In Grotta e agli annuali laboratori de Il Grande Verdicchio siano state iniziative importanti per il rilancio di questo territorio.
Se a questo si aggiungono un attivissimo Gruppo di Acquisto Solidale ed il progetto della Fornace del Gusto, gli spazi comunali a disposizione degli agricoltori per la trasformazione e il confezionamento a norma di prodotti locali, si capisce quanto questo paese sia in realtà cambiato a dispetto delle apparenze.     
Insomma, Cupramontana è di nuovo Capitale. Se non del Verdicchio perlomeno di una bella e sostenibile economia locale.

giovedì 10 ottobre 2019

Di catastrofi e civiltà decadute

Dall'introduzione di "Come vignaioli alla fine dell'estate" di Corrado Dottori
Ed. DeriveApprodi. Collana Habitus.

"...Siamo in mezzo alle rovine di Micene, in mezzo a grandi blocchi di pietra che testimoniano di una grande civiltà in frantumi. Ecco, proprio lì, in mezzo ad alcune pietre di una antica dimora devastata, cresce una vite. Una vite selvatica. Che prova a farsi strada e a sopravvivere là dove non c’è più nulla.
La vite. Pianta resiliente, testarda e ribelle. Unica forma di vita in mezzo al vuoto.
È un’immagine che mi fa riflettere sul movimento dei vignaioli naturali. Su quanto sia al centro del grande cortocircuito fra natura e cultura e su quanto poco stia facendo per prendere davvero posizione di fronte alla catastrofe ecologica.
La crisi ambientale che stiamo vivendo è in gran parte una crisi della Politica.
Nel 1975 Wallace Broecker pubblicava su «Science» un articolo dal titolo emblematico: Climatic Change: Are we on the Brink of a Pronounced Global Warming? L’insostenibilità del nostro modello di sviluppo è cioè cosa nota da sessant’anni almeno, eppure non è mai stata davvero al centro delle campagne elettorali o dei programmi politici di nessun grande partito politico di massa.
  Nella riedizione di Tempi storici Tempi biologici, nel 2005, Enzo Tiezzi affermava «con un misto di imbarazzo e di orgoglio che le previsioni di vent’anni fa si sono dimostrate fondate e scientificamente corrette». Nulla si crea e nulla si distrugge, la legge della termodinamica non fa sconti a nessuno: il ciclo del Carbonio sta alla base dell’aumento fuori controllo delle temperature del pianeta. I politici lo sanno da tempo. Ma nessuno ha mai davvero agito..."


In vendita nelle librerie, on-line e presso la casa editrice.

domenica 23 settembre 2018

Fra ottanta anni

Si tratta di fare un piccolo gioco mentale.
Provare a mettersi nei panni di uno storico del 2100 che studiasse le dinamiche sociali e politiche in atto in Italia durante questi ultimi tempi.
Gioco complicato. Potrebbe non esistere più alcun interesse per la storia. Potrebbe non esistere più l'interesse per il nostro paese. Potrebbero non esserci più le fonti in grado di ricostruire questi momenti. E senza fonti, senza documenti, non esiste la conoscenza storica come ci ha insegnato Henri-Irénée Marrou. In realtà potrebbe anche non esistere più il genere umano, perlomeno come lo abbiamo conosciuto fino a qui. O il pianeta Terra stesso, data l'insostenibilità sempre più evidente del nostro modello di vita predatorio.
Ma proviamoci lo stesso.
Questo eventuale storico si troverebbe di fronte ad alcune dinamiche ed alcuni eventi piuttosto chiari:
  1. Una democrazia che vede la sostanziale scomparsa, o estrema debolezza, dei corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni di categoria, giornali, ecc.), come mediatori di interessi e stabilizzatori delle relazioni istituzionali.
  2. Una mitizzazione del "popolo" inteso come massa indistinta di persone piuttosto indifferente alle provenienze di ceto, funzione e classe sociale ma compattata da un generale riferimento a confusi valori identitari e nazionali. 
  3. Un corpo sociale prostrato da una lunghissima crisi economica, con una intera generazione di giovani sostanzialmente "perduta", che avverte l'esigenza di guide forti e decisi cambi di rotta. 
  4. Una comunicazione politica sempre meno legata a statistiche e a dati di realtà e sempre più basata su costruzioni immaginarie, sull'uso della propaganda, sulla divisione binaria in "buoni" e "cattivi" e sul "noi" e "loro".
  5. Attacchi violenti sempre più frequenti, quasi quotidiani, contro migranti, omosessuali e oppositori politici di sinistra da parte di gruppi con evidenti riferimenti nazi-fascisti.
  6. Tentativi evidenti - e rivendicati come necessità primaria, salvifica - da parte della compagine governativa di epurare le burocrazie tecniche nei ministeri (funzionari scelti con concorso pubblico e non dipendenti dal potere politico).  
  7. Sostanziale chiusura delle frontiere. Limitazione delle prestazioni socio-assistenziali ai soli cittadini "italiani".
  8. Una politica estera orientata alla costruzione di alleanze con paesi con evidenti problemi di mancanza di democrazia e limitazione dei diritti civili.
  9. Uno scontro continuo e reiterato con gli organismi internazionali di qualunque tipologia e livello (Sostanziale rifiuto del multilateralismo e ritorno al sovranismo). 
  10. Progetti di legge che limitano i diritti delle donne, contrastano l'attivismo politico e i movimenti sociali, incentivano la vendita e l'uso delle armi.
Il gioco mentale per quanto mi riguarda finisce qui.
Nel senso che tutti questi dieci punti sono stati già sperimentati negli anni '30 del novecento.
La storia  non si ripete mai nello stesso modo. Ma è fatta di cicli con similitudini evidenti. I famosi "corsi e ricorsi". Nel 2100 lo storico che si trovasse di fronte a questi "fatti stilizzati" saprebbe anche come è andata a finire.
Noi, nel 2018, possiamo solo pensare, vigilare e agire.
Che è sempre meglio che credere, obbedire, combattere.


mercoledì 28 febbraio 2018

Dichiarazione di voto

Straziato da una campagna elettorale devastante nella sua mediocrità (detto da uno che non guarda neppure la televisione da sei anni), avevo deciso di non votare. Non che fosse una novità, mi è successo spesso, di non votare.
Stavolta l'avrei fatto con ancora più convinzione del solito, visto l'orrore in campo.
Quello che, però, sta accadendo nel ventre più profondo delle società italiane ed europee (verrebbe da dire: mondiali) necessita di una presa di posizione.
Serve a niente. Ma voterò antifascista. Come segnale, come inutile atto di resistenza (peraltro la mia intera esperienza politica è stata sotto questo segno, dunque ci sono piuttosto abituato. Con l'età nemmeno ci soffro più).
Voterò, però, con in mente due figure fondamentali - ed ovviamente sempre più dimenticate - dell'Italia e dell'Europa del passato recente: Alex Langer e Lucio Magri.
A loro voglio dedicare il mio "voto situazionista", il mio gesto inutile dentro una democrazia svuotata. A loro che molto avevano capito. A loro che sono morti entrambi suicidi perché gli era insopportabile vivere in un mondo che andava in una direzione opposta e contraria a quella del loro impegno politico e civile.
Ad Alex Langer, pacifista, verde, cattolico illuminato, che aveva visto chiaramente nel risorgere dell'odio etnico in Jugoslavia (e più in generale in Europa) e nella critica di un sistema economico inumano ed insostenibile i semi di una nuova crisi europea.
E a Lucio Magri, comunista libertario, che aveva perfettamente intuito la parabola finale di quel Partito Comunista Italiano, dal quale era stato prima espulso, poi riaccolto e infine disconosciuto nella corsa a perdifiato di PDS, DS, PD verso l'omologazione ed il centrismo interclassista.
In particolare mi piace ricordare, ai tanti di sinistra che ancora insistono nell'affermazione tatcheriana che "non c'era alternativa" (al mondo ad una dimensione, al pensiero unico, alla globalizzazione, al Mercato, alle "riforme", a "questa" Europa), che qualcuno, con grande lucidità e con un linguaggio ed un pensiero che dovrebbero appartenere sempre alla parola "politica", qualcuno aveva intravisto il percorso e l'approdo.
Per cui abbiate pazienza ancora un po' e leggete qui di seguito l'intervento di Lucio Magri contro la ratifica del Trattato di Maastricht nella seduta della Camera del 29 ottobre 1992.
Perché quel voto fu uno dei nodi di svolta della nostra storia recente. E piaccia o non piaccia, molti dei protagonisti di quella svolta siedono ancora in Parlamento (o ci vogliono rientrare), spesso raccontando le stesse balle a gli stessi illusi elettori di sinistra.
Le parole di Magri - ventisei anni dopo - sembrano scritte oggi e prevedevano con una lucidità disarmante  il diluvio che stava per arrivare.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Magri. Ne ha facoltà.

Lucio MAGRI. Signor Presidente, i deputati del gruppo di rifondazione comunista voteranno contro il disegno di legge di ratifica del trattato di Maastricht. In questa scelta siamo, qui ed ora, molto isolati, una esigua minoranza a fronte di uno schieramento quasi unanime.

Ancora qualche mese fa la nostra sarebbe apparsa una scelta di pura testimonianza, rilevante solo per chi la compie. Ma ora non è più così, anche se nel Parlamento, che su questo tema è avaro non solo di presenze ma anche di pensiero e di analisi non retoriche, si stenta a prenderne atto. Maastricht è infatti diventato all’improvviso un problema aperto. La Danimarca ha detto «no» al trattato; in Francia metà del paese ha fatto altrettanto; in Inghilterra la maggioranza degli elettori, se potesse esprimere il proprio parere, direbbe di no ed anche il parlamento, in questi giorni, traballa; in Germania l’opposizione è estesa, così come in Spagna.

D’altro canto, proprio nel momento in cui si decide di accelerare l’unità europea partendo dalla moneta unica e dalle banche centrali, esplode la crisi dello SME: le banche centrali vanno ognuna per la propria strada e le loro scelte vengono aspramente contestate. Solo l’arroganza del potere, che si coniuga al luogo comune e determina la stupidità come prezzo necessario, e solo l’opportunismo che ciò genera negli oppositori benpensanti possono dunque spiegare il fatto che le nuove evidenze degli accadimenti non abbiano prodotto, qui e nel paese, quanto meno una riflessione nuova, un’articolazione reale di atteggiamenti. A noi, al contrario, questi fatti impongono e permettono di chiarire meglio le ragioni razionali del nostro «no» e di considerarlo l’inizio di una battaglia che diventerà rapidamente incisiva e che può conquistare forze nuove.

Quali sono dunque, in sintesi, le ragioni del nostro «no»? Innanzi tutto, il rifiuto di una Europa che nasca con un segno marcatamente autoritario. L’unità nazionale è nata in connessione con i primi passi della democrazia moderna; non vogliamo che l’unità continentale corrisponda al suo declino.

Ma è questo che sta accadendo, già nel modo in cui il trattato è stato discusso e definito — un accordo cioè tra Governi rispetto al quale i parlamenti nazionali possono solo dire «sì» o «no» —, ma ancora di più nella struttura di potere reale che l’accordo produce. I veri centri promotori e regolatori del processo di unificazione sono e saranno il consiglio delle banche centrali e l’integrazione delle strutture militari. E, se mai, del tutto parzialmente, resta in campo una sede politica che può avere influenza su di loro, tale sede è quella del concerto dei Governi.

A questo punto, dunque, si ratifica e si conclude un processo che durava da anni, che è un processo di trasferimento di potere non solo dallo Stato nazionale al livello sovranazionale, ma, attraverso questo, dalle istituzioni direttamente legittimate dalla sovranità popolare ad istituzioni politiche auto nome o a puri poteri di fatto. Il ruolo di comparsa in cui è sempre più relegato il Parlamento europeo, proprio in quello che dovrebbe essere il passaggio dalla Comunità economica all’unione politica, simboleggia questa realtà rovesciata. E mi pare incomprensibile, anzi patetico, il discorso di chi vota il trattato augurandosi che si possa presto completarlo con istituzioni politiche democratiche: Maastricht va esattamente nella direzione contraria.

La seconda ragione del nostro voto non è meno importante, ma anzi lo è ancora più ed è soprattutto più trascurata. Il trattato non fissa solo delle regole e dei soggetti abilitati ad applicarle; fissa anche, direttamente e indirettamente, un indirizzo. L’indirizzo è definito in estrema sintesi così: il funzionamento pieno di una economia di mercato, ma non nel senso — badate — ovvio e banale del riconoscimento del mercato, bensì nel senso di una radicale e sistematica riduzione di ciò che sussiste di non mercantile, cioè di tutti quegli strumenti attraverso i quali le democrazie europee nell’epoca keynesiana, cioè dopo gli anni trenta e soprattutto dopo il 1945, avevano appreso a governare gli eccessi del gioco cieco del mercato.

Così è esplicitamente e rigorosamente stabilito che le banche centrali non possono finanziare il debito pubblico; che è vietato stabilire prezzi e tariffe privilegiate per imprese o amministrazioni pubbliche; infine, che si istituisce una moneta unica emessa da una banca centrale indipendente dalle istanze democratiche, così come lo erano prima della grande depressione o come lo è oggi la banca tedesca, di cui pure si critica l’ottusità deflazionistica. Ciò che si crea non è dunque solo un potere concentrato, ma un potere usabile in molte direzioni: è, nel contempo, una certa struttura ed una sua direzione di marcia.

Un discorso analogo, anche se meno pregnante, si potrebbe fare sull’unificazione militare. Anche qui, non c’è alcuna unificazione di progetti politico-economici, di politica estera, ma solo la creazione di un apparato che, per sua natura e composizione materiale, è rivolto a garantire possibilità di intervento per arginare crisi che nascono alla periferia dell’Europa e che non si sa come prevenire.

Non meno conta, però, l’indirizzo che si definisce in modo indiretto. Ad esempio, con la perdita dell’autonomia monetaria restano allo Stato nazionale gli strumenti della politica di bilancio, ma solo in parte ed apparentemente, perché le politiche fiscali non unificate sono vincolate, anzi, dalla circolazione libera dei capitali a farsi concorrenza nel senso di essere più permissive per attirare risorse. Vincoli monetari e vincoli fiscali si sommano così nell’imporre la via obbligata del contenimento strutturale e non congiunturale della spesa pubblica, degli investimenti sociali o comunque a lungo termine.

Tutto ciò ovviamente non è del tutto nuovo. Ieri il Presidente Amato ha riconosciuto con insolita franchezza che l’Italia vive ormai in un regime di sovranità limitata, e non solo l’Italia, se è vero, com’è evidente, che anche paesi come l’Inghilterra, che non hanno un grande disavanzo pubblico, o come la Svezia ormai sentono il peso di un potere esterno cui non riescono ad opporsi. Ma di questa sovranità limitata Maastricht è una sorta di ratifica, di legittimazione definitiva, e il prossimo prestito che l’Italia otterrà dalla Comunità comincerà a definire già il primo protocollo delle sue clausole. Non è allora esagerato dire che disoccupazione e taglio dello Stato sociale sono inerenti al contenuto del trattato; il prezzo scontato della linea di politica economica in esso implicita ma molto rigorosa.

Vengo così alla terza ed ultima ragione del nostro «no». Nella logica di questo tipo di unificazione europea (ecco il punto che si dimentica) è non solo prevedibile, ma fatale, la prospettiva dell’aggregazione selettiva delle aree forti e dell’emarginazione ed esclusione delle periferie e semiperiferie. Non è vero, e soprattutto non è vero in questa fase, che il gioco di mercato, la supremazia dei parametri finanziari, la priorità del cambio tendano a promuovere un allargamento della base produttiva. Anzi, è evidente proprio il contrario: in assenza di politiche attive di sviluppo, le aree più deboli, financo all’interno dello stesso paese, regrediscono.

E così, mentre si solidifica un centro forte che tende ad attrarre ed integrare regioni limitrofe anche fuori dalla Comunità, si emarginano interi paesi più deboli.

La linea di confine — lo sottolineo — tra i due processi attraversa nel profondo la realtà italiana, il nord e il sud. Cosicché, se da un lato è probabile che l’Italia nel suo insieme non sia in grado di rispettare gli esorbitanti vincoli posti da Maastricht per il 1997, e sarà dunque costretta ad una rincorsa insieme affannosa e perdente, dall’altro lato in questa prospettiva dell’Europa a due velocità troviamo una chiave di lettura ed un moltiplicatore travolgente delle spinte secessioniste nell’Italia, nel prossimo futuro.

Maastricht non promette allora l’unità dell’Europa, ma in compenso promuove la divisione dell’Italia e, più in generale, una moltiplicazione, che già si registra ovunque, di spinte, passioni, interessi localistici e di subculture nazionali. Non è un passo imperfetto e parziale verso l’unità europea, ma il rischio della sua crisi.

C’era e c’è un’altra strada? C’era, a mio parere, e c’è. È quella coraggiosa di una costituente politica europea che produca insieme istituzione e soggetti politici unitari e democratici. È quella, dall’altra parte, dell’unificazione delle politiche economiche effettive come strumento di sviluppo orientate sulla priorità dell’occupazione, del risanamento ambientale, dell’allargamento della base produttiva regionale. Ma per percorrerla occorrerebbe costruire una sinistra politica e sindacale, riconquistare un’autonomia culturale rispetto alla genericità retorica dell’europeismo degli ultimi anni.

Su questo terreno il ritardo è però grandissimo.

C’è, e opera, un soggetto politico culturale forte, organizzato nel capitale internazionale. Esso ha i suoi strumenti nella circolazione dei capitali, addirittura una lingua propria: l’inglese impoverito dei managers.

La sinistra invece, e in generale le forze politiche democratiche, come soggetto europeo quasi non esiste. L’Internazionale socialista è ormai un involucro in gran parte vuoto. L’Internazionale comunista non c’è più, quella verde non è decollata, un’Internazionale cattolica non è mai esistita. Ecco, a maggior ragione, occorre per questo trovare un punto di partenza da cui invertire una tendenza, da cui risalire una china che porta ad una unità dimidiata e ad un’unità dai contenuti che ho descritto.

Il problema, per noi, è allora proprio questo. Il «no» a Maastricht e la lotta contro le sue conseguenze nei prossimi anni saranno una battaglia che permetterà di cominciare a costruire un’Europa diversa, un Europa democratica nelle sue istituzioni, socialmente definita nei suoi traguardi e nei suoi obiettivi.

Le ragioni del nostro «no» sono dunque contestuali ad un «sì» per un’Europa diversa. E constatiamo con grande stupore come tanta parte della sinistra italiana, su questo terreno, non abbia saputo trovare quanto meno gli accenti di una diversità, di un’alternativa. Come si fa a volere un alternativa in Italia, con questa ammucchiata senza forma sui grandi temi delle prospettive dell’Europa?

lunedì 19 febbraio 2018

La Musica Vuota on tour

Qualche presentazione del mio romanzo è in cantiere.
Macerata, Ancona e Bologna con format differenziati e in luoghi del cuore.


Nel frattempo grazie a "LaFeltrinelli" per la bella sinossi/recensione.

"Edoardo Alessi è un broker o “private banker”, come recita la targhetta nel suo ufficio, diviso tra carriera e affetti (la compagna Raffaella e l’amante Maria). Una passione sfrenata per la musica – ascoltata e suonata – ormai messa da parte da una carriera nel settore finanziario, il rifiuto della sua provenienza contadina, la vita vuota milanese, domande che a tratti lo attanagliano del tipo “Chi sei diventato?”. Se lo chiede spesso e non sa darsi risposta. Forse la può trovare tra gli appunti, i ritagli di giornale e gli scritti di una vita, suoi e del padre, che di tanto in tanto rilegge e che sono dispersi per tutto il romanzo. Una digressione continua (o forse, meglio, un flusso di coscienza), alternando ricordi e presente, tra viaggi per lavoro – anche in California e Messico – sempre a cavallo e in bilico tra la presenza di Maria e Raffaella, l’amico Ceska e, nel finale, lo zio di Edoardo. Corrado Dottori, qui alla sua prima prova narrativa, ci racconta una storia di vita, come tante, ma sicuramente con il pregio, e non è poco, di evitare facili rassicurazioni e autoindulgenze, in una ricerca di senso che tenta, questo sì, di evitare, o magari soltanto dimenticare, che a un certo punto (di non ritorno), se non si accettano compromessi, la nostra “musica” diventa vuota, quasi sempre. (forse)".


martedì 6 febbraio 2018

Macerata, Italia.

Il terrore che sento in queste ore viene dall'abisso fra il virtuale ed il reale.
La distanza ormai incolmabile tra il racconto di una città, di una nazione, in preda ad una emergenza epocale, ad una apocalisse biblica, ad una invasione. E la realtà, invece, di una città meravigliosa, pacifica, che si sta candidando a capitale della cultura 2020; (e di un paese reale dove ci sono problemi e sofferenze ma dove la questione immigrazione non è certamente, da nessun punto di vista, il problema numero uno, su cui imbastire una intera campagna elettorale).
Viviamo in una specie di Truman Show, dove si è costruito un mondo parallelo, artefatto, distorto, in cui milioni di "barbari alloctoni" stanno sostituendo la razza autoctona italiana.
(Verrebbe da ridere se non fosse che questo è davvero ciò che si legge in giro e si ascolta per strada).
La realtà dei fatti è che gli immigrati dal 2013 a oggi nella Provincia di Macerata sono passati da 32.267 a 31.020. Se ne vanno anche gli stranieri, a causa della crisi. Lo sa bene chi lavora o ha lavorato nei Comuni.
Eppure anni, decenni, di narrazioni tossiche, di costante alterazione dei fatti, di giornalismo ignobile, di soluzioni facili, o non soluzioni di comodo, di propaganda, hanno liberato il mostro. Che c'era, c'è sempre stato, ci sarà sempre. Ma era in qualche modo tenuto a bada.
Ed è troppo tardi oggi.
Citare statistiche, rapporti, fonti di diritto, numeri. Ragionare, riflettere, approfondire.
Perché quando la narrazione tossica diventa mito allora si entra nel regno del simbolico e dell'irrazionale. Uno spazio pre-politico che fa appello all'istinto, a pulsioni che scatenano meccanismi devastanti per cui molto semplicemente si smette di essere umani. Quando ciò accade, quando individui "normali" diventano parte di una mitopoiesi collettiva, la banalità del male di Hannah Arendt, è già troppo tardi. Poiché quello è l'inizio di ogni fascismo.
Siamo a questo punto, di nuovo.
La mia generazione, cresciuta con la fine delle ideologie, pensava che tutto ciò fosse fuori dalla storia, definitivamente. Il concetto stesso di razza, l'odio su base etnica, la violenza fisica e morale contro lo "straniero". Invece eccolo di nuovo l'orrore nazionalista del Dio, Patria e Famiglia, dilagare sui social, perdersi far le righe dell'editorialista di turno, serpeggiare nei discorsi delle signore-bene al supermercato o esplodere brutalmente con gli episodi di Fermo e di Macerata.
Quando una narrazione diventa mitologica, cioè quando una ideologia si piega all'irrealtà, non c'è più democrazia che tenga, non c'è più mediazione, non c'è più il piano di un discorso logico.
Di fronte alla mitologia dello straniero violentatore, del nero spacciatore, del rom ladro, nulla può la memoria. Non quella lontana di nonni o bisnonni. E nemmeno la memoria recente di paesi dilaniati, smembrati, travolti: la Jugoslavia, il Ruanda, la Cecenia, con i loro "imbrogli etnici".
“Scimmia africana”: così Amedeo Mancini aveva chiamato una giovane nigeriana prima di sferrare un pugno contro il marito, uccidendolo. Succedeva il 5 luglio 2016, meno di due anni fa, vicino al belvedere di Fermo, una cittadina marchigiana a 45 chilometri da Macerata. Per l’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi, colpevole di aver reagito agli insulti rivolti alla sua compagna Chiniery, Amedeo Mancini, ultrà della Fermana vicino ad ambienti neofascisti, è stato condannato a quattro anni di carcere con il patteggiamento e rimesso in libertà nel maggio del 2017, a nemmeno un anno dall’omicidio". (https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/02/05/macerata-fascismo-luca-traini)
Gli episodi di attacchi di stampo neo-fascista e razzista si susseguono e si intensificano ma la matrice ideologica, nell'epoca del "non c'è differenza fra destra e sinistra", viene nascosta, alleggerita, negata.
È la politica del "ma": sono contro la guerra ma, non sono razzista ma, povera ragazza ma (...se l'è andata a cercare). La politica dei due pesi e delle due misure. Quella per cui basta frequentare una moschea per essere automaticamente un terrorista dell'Isis, e invece Luca Traini è solo un ragazzo un po' matto che ha sbagliato, sebbene abbia una svastica tatuata in fronte e il Mein Kampf sul comodino.
Il terrore che sento in queste ore viene da una "sinistra" che si è smarrita completamente. Una "sinistra" che ha responsabilità enormi in quello che è accaduto in questo paese. Che ha riempito la sua crisi ideologica e ideale solo di parole come "mercato", "globalizzazione", "sicurezza". Che ha contribuito a costruire e sostenere quell'Europa delle Nazioni che è il motore immobile - con le sue politiche tecnocratiche di austerità - dei populismi e dei neo-fascismi dilaganti.
Una "sinistra" che si è piegata alla narrazione altrui e ne ha rafforzato la tossicità, diluendo sempre di più il valore dell'esperienza partigiana a forza di equiparazioni e revisionismi. Dimenticando Piero Gobetti e il "fascismo come autobiografia della nazione".
Una "sinistra" che si è spostata talmente a destra da incentivare i campi di detenzione libici - campi di concentramento! - dove bloccare i migranti cattivi prima che arrivino a delinquere nel nostro paese.
Viviamo in un periodo per molti versi simile agli anni venti/trenta del secolo scorso. Speravamo che, a differenza di allora, le dinamiche economiche non producessero gli stessi mostri o, perlomeno, non così presto e non allo stesso modo. Ci sbagliavamo.
Il terrore che sento in queste ore è per la nuova traversata nel deserto che ci attende, senza bussole a indicarci una strada.
Non resta che stringerci, resistere, farci forza a vicenda. Non so chi... Noi... Gli umani?
Restiamo umani.

A Macerata manifestazione nazionale, sabato 10 febbraio alle 14.30.
https://www.facebook.com/events/1321613521317914/

martedì 21 novembre 2017

La Musica Vuota, dal 7 dicembre in libreria

Edoardo Alessi, consulente finanziario di successo in crisi di identità, ritrova sette scatoloni pieni di diari, fotografie e lettere, conservati nella casa di montagna dei nonni paterni. I suoi scritti di gioventù si mescolano con le memorie del padre adolescente e rivoluzionario a formare una strana commistione di storie mai raccontate, sensi di colpa e recriminazioni. Il racconto di una storia familiare complessa. L’assenza dei genitori, militanti di estrema sinistra negli anni di piombo, tormenta Edoardo spingendolo a ricostruire il proprio passato e quello di un padre poco conosciuto, a cui lo lega una passione sfrenata per la musica rock. Un album in particolare, Exile On Main Street dei Rolling Stones, ritorna in maniera circolare a scandire i momenti salienti del romanzo, potentissimo catalizzatore in grado di innescare una continuità culturale e politica tra due mondi. Perché Edoardo, dopo un’adolescenza da militante nei movimenti studenteschi, spesa tra contestazione nei centri sociali, feste e concerti rock, è diventato ciò che non avrebbe mai voluto essere, un private banker? Tra viaggi in California, Marocco e Messico, tra affetti del presente (il vecchio amore mai dimenticato Maria e l’attuale bellissima compagna Raffaella, l’amico di infanzia Ceska) e di un passato che a volte incombe (il padre morto, la madre latitante, i nonni che lo hanno cresciuto e infine Joe, suo zio), La Musica Vuota è una sorta di memoir di un’intera generazione a cavallo e in bilico tra due secoli.

Guarda qui il booktrailer:


martedì 26 settembre 2017

I nazisti dell'Illinois

Qualcuno di voi aveva veramente creduto alla rimonta di Martin Schultz che i vari giornali portavoce della ormai ex sinistra avevano paventato (qui uno dei pezzi più ridicoli)?

In questi giorni quegli stessi giornali non fanno che parlare di fascismo, xenofobia, razzismo. Uniche categorie per poter spiegare - dal loro punto di vista - come sia possibile che anche nella ricca, europeista e competitiva Germania le "masse" siano incazzate e i socialisti vengano sconfitti. Il problema sono ovviamente l'immigrazione - soprattutto i rifugiati siriani in questo caso - e il populismo. Lo stesso mantra ripetuto fino alla noia per #brexit #trump #lepen. Lo stesso mantra che Renzi ripete per convincere gli italiani a non votare M5S o Salvini: o me o i populisti. Chiaramente, di questo passo, gli italiani voteranno proprio per i populisti.
E la ragione è di una semplicità disarmante, chiara perfino ai miei figli di 9 e 11 anni: se per trent'anni fai politiche di destra alla fine favorisci la destra. Strano no?

Ora, lo so che gli italiani hanno nel loro DNA il fascismo ed una certa allergia per gli stranieri; e so altrettanto bene che in Germania i nazisti esistono ancora; e sono anche assolutamente consapevole che ingenti flussi migratori possano generare dei problemi di coesistenza.
Ma non è questo il punto.
La dinamica per cui la sinistra istituzionale sta perdendo e scomparendo in tutta europa (ma anche in USA non sta benissimo dopo il tracollo di Clinton) è essenzialmente legata al tradimento nei confronti dei propri elettori storici, all'assoluto fraintendimento della situazione storica attuale, ad errori clamorosi nelle politiche economiche. Provocando - ma neanche tanto - si può dire che la Brexit è figlia di Tony Blair, Trump del brusco risveglio dal sogno di Obama, Salvini e i 5S di una sinistra italiana che per vent'anni ci diceva "o noi o Berlusconi", salvo alla prima occasione utile farci un governo assieme. E si potrebbe continuare.

La realtà è invece ben rappresentata da questi due grafici, che raccontano cosa è capitato nel mondo negli ultimi sessanta anni (i grafici ritraggono la situazione americana ma non sarebbero molto diversi  in Europa).

Ed è una verità che fa male soprattutto a chi dalla fine del Muro di Berlino ha raccontato che la lotta di classe era finita e bisognava rifondare il socialismo (Che poi ha significato svenderlo). I due grafici, complementari, dicono una cosa semplice semplice: che dall'avvento del neoliberismo - segnata con la fine di Bretton Woods nel 1971 - i profitti delle aziende sono esplosi e i salari degli operai sono crollati.
Cosa c'entra questo con le elezioni tedesche? Se nelle vene delle classi dirigenti della sinistra scorresse ancora un briciolo di buon marxismo, capirebbe l'ovvio: le riforme strutturali tedesche, prese ad esempio in tutta l'Europa dell'austerità, Mario Monti in primis, hanno generato una macchina economica perfetta (il primo esportatore di merci al mondo) ma al prezzo di un aumento della precarietà, di lavori malpagati (i minijobs), di disuguaglianze mai sanate fra ovest ed est del paese. Una strisciante rabbia sociale cui i socialdemocratici hanno risposto con la grande coalizione, cioè con l'alleanza durata anni con la Merkel. Alleanza risultata ora fatale a Schulz.
Una workin' class che si sposta a destra è difficile da digerire ma questo è ciò che sta succedendo nel mondo occidentale: lo scrive bene Alberto Bagnai nel suo blog dove il grafico qui sotto vale più di mille peripezie verbali su quanto siano xenofobi i tedeschi: sono in grandissima parte le più povere aree della Germania Est ad avere votato l'estrema destra.

Ma questa "classe operaia allargata", questo neo-proletariato diffuso in tutti i paesi ad economie avanzate, non odia l'immigrato perché naturalmente portato a farlo: odia l'immigrato perché da trenta anni a questa parte gli è stato raccontato dai politici, dai media, dalle classi dominanti che il suo "nemico" non era più l'industriale (quello che a guardare il grafico sopra si prende la fetta più grande della torta) ma il suo omologo nei paesi emergenti, il suo pari grado in catena di montaggio o lo studente brillante arrivato da un altro posto a "rubargli il lavoro". Perché se non c'è "lotta di classe", cioè scontro fra capitale e lavoro, resta una cosa sola: la guerra fra poveri. Comprensibile che - per chi ha tradito - sia più facile dar la colpa ai barconi di migranti piuttosto che allo sfascio di un sistema economico che ha nell'Europa dell'Euro il suo basamento principale, ed aggrapparsi a Minniti invece che a Keynes.

Insomma, in questi anni che sembrano sempre più vicini agli anni trenta del secolo scorso, sembra davvero oramai troppo tardi per costruire una narrazione differente, che prescinda la contempo da questa Europa e da un nazionalismo fuori tempo massimo.
Ma intanto avere chiare le cause e gli effetti potrà servire, in qualche modo. Che quelli che arrivano non saranno i nazisti dell'Illinois. E li avrà generati l'Europa di cui ancora blaterano Scalfari e Prodi.

lunedì 6 marzo 2017

Il vino buono non si fa con la burocrazia

Tante volte mi sono trovato a spiegare come il sistema-vino non tenga conto delle realtà dei piccoli vignaioli. Finalmente qualcosa si muove. Dal basso. Mettendo da parte divisioni e incomprensioni. Saltando la rappresentanza di organismi e pseudo-sindacati che non rappresentano più nessuno. Questa è un primo passo.
Spero che a breve questo movimento si espanda a livello europeo, perché quello è il livello dove i piani e le strategie vengono elaborate. Dove si immagina un'agricoltura senza contadini, una terra senza custodi.


Al sig. Ministro dell'Agricoltura On. Maurizio Martina
Presso MIPAAF Roma

Italia, 05 marzo 2017

Oggetto: dematerializzazione registri vinicoli e burocrazia

Il vino buono non si fa con la burocrazia che uccide i piccoli produttori
Non accettiamo l'imposizione dei registri dematerializzati! Non vogliamo alimentare un'economia virtuale e parassitaria. E' necessaria un'inversione di tendenza, una rivoluzione delle norme; dobbiamo dire forte e chiaro che bisogna interrompere questo stillicidio di procedure, obblighi, corsi, patentini, registri che stanno strangolando le nostre aziende.

CHI SIAMO
Siamo duecento Vignaioli, agricoltori di ogni Regione. Siamo innamorati della terra, del cielo, delle piante e del nostro lavoro che vorremmo continuare a svolgere.

LA SITUAZIONE ATTUALE In Italia ci sono 52 mila produttori e di questi 48 mila imbottigliano meno di 1000 ettolitri, il 53% della produzione è ottenuta dalle cantine cooperative, mentre la superficie media è di soli 1,6 Ha. Rappresentiamo quindi circa il 90% dei produttori e non più del 30% della produzione totale. Perché allora non pensare un sistema adatto alle esigenze del maggior numero di produttori?   Siamo quelli che abitano e conservano i borghi rurali e i loro territori che, senza di noi, andrebbero irrimediabilmente in abbandono. La burocrazia sta uccidendo le nostre aziende e il nostro sistema agricolo, fatto  esclusivamente  di micro imprese.  Crediamo che si debba rallentare questa corsa alla burocratizzazione estrema, dove per ogni azione concreta sono richieste decine di pezzi di carta e gigabyte che tanti di noi non hanno la possibilità di seguire, di compilare e di pagare: i nostri piccoli numeri ci impongono delle scelte, e noi alla fine dobbiamo scegliere sempre la terra, la pianta, il vino. Inoltre, non siamo più disposti a dover pagare corsi e consulenti per poter fare il nostro lavoro. In pratica, non vogliamo mantenere un’economia virtuale e parassitaria, spesso rappresentata dalle associazioni di categoria, sindacati o società di consulenza.
Il tutto col beneplacito di chi avrebbe dovuto difendere la nostra vita e il nostro lavoro: si chiamino associazioni di categoria, sindacati o altro ancora, di antica o recente costituzione. Vogliamo reagire,rispondere, non per ottenere qualche mediocre compromesso, ma per imporre la nostra idea di lavoro, di rapporti umani; per riappropriarci del nostro tempo. A questo si aggiunge il fatto che delegare tutti gli adempimenti a servizi on line richiede una connessione potente e veloce e forse non ci si rende conto di quale sia lo stato delle ADSL nelle campagne italiane. Non si comprende perché le uniche esenzioni concesse siano a favore delle piccole produzioni che effettuano vendita diretta in azienda o per quelle fino a 1000/hl che non imbottigliano. Sembra che l'obiettivo sia quello di ostacolare la partecipazione delle piccole aziende al Mercato Globale, riservandolo così alle grandi imprese.

QUESTI GLI ENTI E ORGANISMI CHE CI CONTROLLANO
1- ICQRF
2- Guardia Forestale
3- Organismo controllo per certificazione Dop, Igp
4-Organismo controllo per certificazione Bio
5- HACCP controllo igiene in cantina
6- Sicurezza sul lavoro: organismi vari
7- Agea ed Enti regionali collegati./CAF.
8- Asl: normative sanitarie.
9- Province, esistono ancora e spesso hanno mantenuto le deleghe per la viticoltura.
10- Valoritalia, TCA, ecc.
 Organismi o Enti diversi che ci richiedono sempre le stesse cose, di produrre sempre gli stessi documenti .

QUESTI ALCUNI DEI VARI PATENTINI CHE DOBBIAMO CONSEGUIRE:
Alimentarista, HACCP, utilizzo fitosanitari. taratura botte irrorazione, patentino guida trattore…
Poi ci sono i Consorzi di Tutela, le Associazioni, i Sindacati ecc. Questo impegno corrisponde in termini temporali a quasi un mese di lavoro ed indicativamente a 2000-3000€ ogni anno, una cifra troppo importante per chi fattura poche decine di migliaia di euro.

 COSA CHIEDIAMO
E' urgente unificare quanto più possibile i vari Enti deputati al controllo: è auspicabile un unico organismo che esegua tutti i controlli. Per tutto ciò chiediamo:
1) Abolizione dei registri di cantina: ognuno di noi è obbligato a compilare ogni dicembre la denuncia di produzione delle uve e a fine luglio la dichiarazione di giacenza del vino. Se a questi due documenti affianchiamo le fatture di vendita, abbiamo tutte le informazioni necessarie per effettuareil controllo delle produzioni. Senza considerare che tutte queste informazioni vengono ripetute nei documenti del Sistema di Controllo del Biologico, nei manuali HACCP,Valor Italia, TCA ecc
Per i piccoli produttori (entro i 1000 Hl/anno) che non acquistano vino i registri non servono.
In subordine proponiamo di mantenere i registri cartacei ed agevolarne la tenuta al produttore che non acquista vino, posticipando il termine ultimo per la compilazione del registro di vinificazione al momento della dichiarazione di produzione; per imbottigliamento e tagli al momento della denuncia di giacenza. Proponiamo inoltre di eliminare l'obbligo di tenuta del registro di commercializzazione sotto i 1000 hl: è un duplicato del registro di vinificazione/imbottigliamento e dei movimenti già tracciati con altri documenti.
2) Anche per l'olio extra vergine di oliva chiediamo di portare il limite per l'esenzione dalla compilazione dei registri telematici dagli attuali 350 Kg a 3500 Kg/annui di produzione di olio.
3) Chiediamo per chi è Imprenditore Agricolo a titolo Professionale da almeno 5 anni di sostituire con un’autodichiarazione i corsi e i relativi patentini per guida trattori. Se lo scopo dichiarato è aumentare la sicurezza dei lavori in campagna, allora si diano contributi diretti per l'adeguamento delle macchine.
4) Esenzione totale dal patentino fitofarmaci nel caso in cui si utilizzino esclusivamente fitofarmaci a base di sali di rame e/o zolfo.
5) Eliminazione delle prestazioni viniche obbligatorie che sono misure anacronistiche. Inoltre, eliminando la distillazione obbligatoria delle vinacce (cioè regalare le vinacce alle distillerie) si creerebbe un valore di mercato per tutti i prodotti agricoli destinati alla distillazione. Proponiamo di eliminare l'obbligo di dichiarazione preventiva, incentivando il procedimento di smaltimento agronomico delle vinacce.
6) Proponiamo la semplificazione del modello INTRASTAT (basterebbe un elenco delle fatture inviate con PEC) e scadenza annuale per i vignaioli che producono meno di 1000 hl.
7) Chiediamo che in vendemmia e per la raccolta delle olive si possa ricorrere alla manodopera parentale e amicale con assicurazioni agevolate, con un forfettario assicurativo proporzionato alle dimensioni aziendali.
8) Chiediamo che su base volontaria e non obbligatoria sia possibile riportare nelle etichette del vino la lista degli ingredienti.

Comunichiamo che se  non otterremo quanto richiesto, avvieremo una Campagna di DISOBBEDIENZA CIVILE invitando tutti i vignaioli italiani a non ottemperare alle richieste di adeguamento ai registri telematici.

Il cuore della nostra protesta è comunque quello di mettere in evidenza il ruolo centrale che le piccole aziende svolgono nella salvaguardia dell’ambiente e del territorio nel suo complesso. Il soffocamento di queste piccole realtà non potrà che passare la mano ad un tipo di agricoltura che inevitabilmente distruggerà la risorsa primaria.

Egregio Ministro, in pochissimi giorni su questa proposta abbiamo raccolto 200 adesioni; con altrettanto poco tempo siamo certi di poter coinvolgere migliaia di agricoltori.

VIGNAIOLI UNITI contadinicritici@inventati.org
Seguono le adesioni dei titolari 200 aziende agricole



ABRUZZO
- Stefano De Fermo – Az. Agr. De Fermo
- Mariapaola Di Cato – Az. Agr Di Cato Francesco
- Lorenza Ludovico – Az. Agr. Ludovico
- Sofia Pepe – Az. Agr. Emidio Pepe
- Stefania Pepe – Az. Agr. Stefania Pepe
- Enrico Gallinaro – Az. Agricola E. Gallinaro
- Massimiliano D’Addario – Az. Agr. Marina Palusci
BASILICATA
- Antonio  Cascarano – Az. Agr. Camerlengo
- Elisabetta   - Az. Agr. Musto Carmelitano
CALABRIA
         -   Santino Lucà  -  Az. Agr. Cantine Lucà
        -    Luigi Viola -   Az. Agr. Cantine Viola
CAMPANIA
- Giovanni Ascione - Az. Agr. Nanni Copè
- Ennio Romano Cecaro – Az. Agr. Canlibero
- Elisabetta Iuorio – Az. Agr. Casebianche
- Raffaello Annicchiarico – Podere Veneri Vecchio
- Fortunato Rodolfo Arpino – Az. Agr. Montedigrazia
- Salvatore Magnoni – Az. Agr. Prima La Terra
- Diana Iannacone – Az. Agr. I Cacciagalli
- Sandro Lonardo – Az. Agr. Contrade di Taurasi
EMILIA ROMAGNA
- Alberto Carretti – Podere Pradarolo
- Laura Cardinali – Az. Agr. Cardinali
- Vittorio Graziano – Az. Agr. Graziano
- Mirco Mariotti – Az. Agr. Mariotti
- Elena Pantaleoni – Az. Agr. La Stoppa
- Federico Orsi – Vigneto S.Vito
- Denny Bini – Az. Agr. Podere Cipolla
- Francesco Torre – Az. Agr. Il Maiolo
- Marco Cordani – Az. Agr. Cordani
- Stefano  Malerba - Az. Agr. Gualdora
- Vanni Nizzoli – Az. Agr. Cinque Campi
- Katia Babini – Az. Agr. Vigne dei Boschi
- Paolo Francesconi – Az. Agr. Francesconi
- Roberto Maestri – Az. Agr. Quarticello
- Andrea Cervini – Az. Agr. Il Poggio
- Massimiliano Croci – Az. Agr. Tenuta Croci
- Flavio Cantelli – Az. Agr. Maria Bortolotti
- Erica Tagliavini –Soc. Agr. Bedogni Barbaterre
- Romano Mattioli – Az. Agr. Terraquilia
- Ettore Matarese – Az. Agr. Il Palazzo
- Gianni Storchi – Az. Agr. Storchi
- Paolo Crotti  -  Az. Agr. Podere Giardino
- Alberto Anguissola – Az. Agr. Casè
- Flavio Restani - Az. Agr. Il Farneto
- Antonio Ognibene – Az. Agr. Gradizzolo
- Manuela Venti – Az. Agr. Villa Venti
- Susanna Diamanti – Az. Agr. Oro di Diamanti
- Andrea Berti – Soc. Agr. Folesano
FRIULI
- Giovanni Foffani – Az. Agr. Foffani
- Gaspare Buscemi – Az. Agr. Buscemi
- Federica Magrini – Az. Agr. Vignai da Duline
- Franco Terpin – Az. Agr. Terpin
- Silvana Forte – Az. Agr. Le Due Terre
- Dario Princic – Az. Agr. Princic
- Fausto De Andreis – Az. Agr. Le Rocche del Gatto
- Fulvio L. Bressan – Az. Agr. Bressan Nereo
- Denis Montanar – Az. Agr. Denis Montanar
- Andrea Rizzo – Az. Agr. Feudo dei Gelsi
LAZIO
- Giuliano Salesi – Az. Agr.Podere Orto
- Andrea Occhipinti – Az. Agr. Occhipinti
- Chiara Bianchi – Az. Agr. Cantina Ribelà
- Daniele Manoni – Az. Agr. Il Vinco
- Marco Marrocco – Az. Agr. Palazzo Tronconi
- Antonio Cosmi – Az. Agr. Casale Certosa

LIGURIA
- Stefano Legnani – Az Agr. Legnani
- Andrea Marcesini – Az. Agr. La Felce
LOMBARDIA
- Emanuele Pelizzati Perego – Ar.Pe.Pe. srl
- Antonio Ligabue – Az. Agr. Ligabue
- Giacomo Baruffaldi – Az. Agr.Castello di Stefanago
MARCHE
- Alessandro Bonci – Az. Agr. La Marca di S. Michele
- Paolo  Beretta - Az. Agr. Fiorano
- Maria Pia Castelli – Az. Agr. Maria Pia Castelli
- Corrado Dottori – Az. Agr. La Distesa
- Rocco Vallorani – Az. Agr. Vigneti Vallorani
- Igino Brutti – Az. Agr. Fontorfio
- Enrico Gabrielli – Az. Agr. Aurora
- Natalino Crgnaletti – Az. Agr. Fattoria S. Lorenzo
MOLISE
- Rodolfo Gianserra – Az. Agr. Vinica
PIEMONTE
- Guido Zampaglione – Tenuta Grillo
- Paolo Laiolo – Az. Ag. Laiolo Reginin
- Alessandro Barosi – Az. Agr. Cascina Corte
- Nicoletta Bocca – Az. Agr. San Fereolo
- Stefano Marelli e Enzo Kizito Volpi -Az. Agr. Corte Solidale
- Eleonora  Costa  - Az. Agr. Crealto
- Ezio Trinchero – Az. Agr. Trinchero
- Nadia Verrua – Cascina Tavijn
- Lucesio             Az. Agr. Rocca Rondinaria
- Carlo Daniele Ricci – Az. Agr. Cascina S. Leto
- Paola e Elena Conti – Cantine del Castello Conti
- Andrea Fontana – Az. Agr. Platinetti Guido
- Claudio Rosso – Az. Agr. Cascina Roera
- Daniele Oddone – Az. Agr. Cascina Gentile
- Paolo Malfatti – Az. Agr. Cascina Zerbetta
- Daniele Saccoletto – Az. Agr. Saccoletto
- Fabrizio Iuli – Az. Agr. Iuli Fabrizio
- Rizzolio Giovanna – Az. Agr. Cascina delle rose
- Stefania Carrea – Az. Agr. Terre di Matè
- Paolo     Veglio  - Az. Agr. Cascina Roccalini
- Chiara Penati – Az. Agr. Oltretorrente
- Marta Rinaldi – Az. Agr. Rinaldi
-
PUGLIA
- Natalino Del Prete – Az. Agr. Natalino Del Prete
- Francesco Marra – Az. Agr. Francesco Marra
- Marta Cesi – Az. Agr. Dei Agre
- Mimmo            - Az. Agr. Pantun
SARDEGNA
- Alessandro Dettori – Tenute Dettori
- G. B. Columbu – Az. Agr. Malvasia Columbu
- Giovanni Montisci – Az. Agr. Cantina G. Montisci
- Francesco Sedilesu – Az. Agr. Giuseppe Sedilesu
- Maurizio Altea – Az. Agr. Altea Illotto
SICILIA
- Pierpaolo Badalucco – Az. Agr. Dos Tierras
- Gianfranco Daino – Az. Agr. Daino
- Guglielmo Manenti – Az. Agr. Manenti
- Giovanni Gurreri – Cantina Gurrieri Az. Agr. Battaglia Graziella
- Marco Sferlazzo – Az.Agr.Porta del Vento
- Alice Bonaccorsi – Az. Agr. A. Bonaccorsi
- Bruno Ferrara Sardo – Az. Agr. Bruno Ferrara
- Davide Bentivegna – Az. Agr. Etnella
- Paola Lantieri – Az. Agr. Punta dell’Ufala
- Nino Barraco – Az. Agr. Barraco
- Giovanni Scarfone – Az. Agr. Bonavita Faro
- Francesco Guccione – Az. Agr. Guccione
- Francesco Fenech – Az. Agr. F. Fenech

TOSCANA

- Antonio Giglioli – Az Agr Casale Giglioli
       -     Giovanni Borella – Az. Agr. Casale
- Valentina Baldini Libri – Fattoria Cerreto Libri
- Arnaldo Rossi – Taverna Pane e Vino
- Stefano Gonnelli – Az. Agr. Borgaruccio
- Giovanna Tiezzi – Az. Agr. Pacina
- Gabriele Buondonno – Az. Agr. Casavecchia alla Piazza
- Gabriele Da Prato- Az. Agr. Podere Concori
- Giuseppe Ferrua – Az. Agr. Fabbrica di S. Martino
- Francesco Carfagna – Az.Agr. Altura
- Stella di Campalto – Az. Agr. Podere S.Giuseppe
- Francesca Padovani - Az. Agr.Podere Fonterenza
- Marzio   Politi  - Coop. Agr. Voltumna
- Olivier Paul Morandini – Az. Agr. Fuorimondo
- Paolo Marchionni – Az. Agr. Vigliano
- Alessio Miliotti – Az. Agr. Tenuta di Sticciano
- Fabrizio Zanfi – Podere La Mercareccia
- Paolo Giuli – Az. Agr. Al Podere di Rosa
- Riccardo Papni – Az. Agr. La Pievuccia
- Francesco De Filippis – Az. Agr. Cosimo Maria Masini
- Sergio Falzari – Az. Agr. Il Giardino
- Carlo Parenti – Az. Agr. Macchion de Lupi
- Stefano Amerighi – Az. Agr. Amerighi
- Umberto Valle – Az. Agr. Poggio Trevvalle
- Francesco Anichini – Az. Agr. Vallone di Cecione
- Roberto Bianchi – Az. Agr.Podere Val delle Corti
- Luca Orsini – Az. Agr. Le Cinciole
- Monica Raspi – Az. Agr. Fattoria Pomona
- Patrizia Bruni – Az. Agr. Villa Bruni
- Marco Tanganelli – Az. Agr. Tanganelli
- Susanna Grassi – Az. Agr. I Fabbri
- Nadia  Riguccini  - Az. Agr. Campinuovi
- Maurizio Comitini  - Az. Agr. Croce di Febo
- Luca Tomassini – Az. Agr. Sangervasio
- Paolo Socci – Az. Agr. Fattoria di Lamole
- Rossella   Bencini   - Az. Agr. Terreamano
- Massimo Pasquetti – Az. Agr. I Mandorli
- Michele Braganti – Az. Agr. Monteraponi
- Paolo Cianferoni – Az. Agr. Caparsa
- Jacy Farrel – Az. Agr. Monte Bernardi
- Moreno Panattoni – Az. Agr. Montechiari
- Giorgio Secchi – Az. Agr. Palmo di Terra
- Piero Tartagni – Az. Agr. Fattoria Colleverde
- Michele   Guarino - Az. Agr. Tenuta Lenzini
- Stefano Grandi – Az. Agr. Canneta
- Emilio Falcione – Az. Agr. La Busattina
TRENTINO
- Stefano Bailoni – Az. Agr. Cantina Bionatura
VENETO
- Maurizio Donadi – Casa Belfi Donadi
- Maia Gioia Rosellini – Az. Agr. Ca’ Orologio
- Carlo Venturini – Az.Agr. Monte Dall’Ora
- Giovanni   Masini - Az. Agr. Cà de Noci
- Franco Masiero – Az. Agr. Masiero Verdugo
- Daniele Piccinin -  Az. Agr. Le Carline
- Marinella Camerani – Az. Agr. Corte Sant’Alda
- Daniele D. Delaini – Az. Agr. Villa Calicantus
- Ernesto Cattel -  Az. Agr. Costadilà
                                   
UMBRIA
- Paolo Bolla – Az Agr. Fontesecca
- Rocco Trauzzola – Fattoria Mani Luna di
- Jacopo Battista – Az. Agricola Ajola
- Clelia Cini – Az. Agr. La Casa dei Cini