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sabato 26 febbraio 2022

La guerra in Ucraina vista da una vigna

Riporto uno stralcio da "Come vignaioli alla fine dell'estate" che mi sembra particolarmente calzante rispetto a quanto succede in Ucraina, soprattutto pensando alla questione energia/clima/stati-nazione.


Da una vigna puoi capire molto bene alcune questioni del contemporaneo.

Le vigne hanno dei confini naturali o artificiali molto netti. Spesso quelle storiche, soprattutto in Borgogna, sono dei clos, cioè degli spazi delimitati da muretti a secco. Altre volte a far da limite sono viottoli o fossi o canneti oppure file di alberi (si pensi ai cipressi toscani). Spesso questi confini delimitano, se crediamo al principio del terroir, identità ben precise e differenti. Ma anche delle «sovranità»: i proprietari del fondo determinano cosa piantare, chi far lavorare, quando raccogliere, ecc. E spesso accade che tra un clos e l’altro non sia solo la natura a far la differenza, ma anche l’uomo.

Il momento che stiamo vivendo è l’onda lunga delle prime recinzioni di terre comunitarie, le enclosures che furono alla base del capitalismo moderno e della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni sono state anche alla base della Grande Trasformazione (1) e, dunque, anche di quello Stato-Nazione che oggi viene richiamato da destra e da certa sinistra come salvifico gommone di salvataggio contro la globalizzazione cattiva. Senza accorgersi, invece, che proprio come le enclosures furono incentivate dallo Stato per facilitare la ricca aristocrazia rurale inglese, così la globalizzazione si è ser- vita degli Stati nazionali per imporre la sovranità della finanza sul mondo reale.

È l’assurdo di un mondo capovolto, nel quale la Cina comunista vuole apparire come «aperta» al commercio e l’America di Trump diventare protezionista. Dov’è la sovranità? Nei parlamenti nazionali o nei consigli di amministrazione delle multinazionali? Nelle deboli, e spesso corrotte, strutture sovra-nazionali o nella liquida ed efficiente intelligenza del Capitale contemporaneo?

Perché la verità è che lo scontro tra globalisti e sovranisti è solo un altro modo per fottere quello che rimane della working class. Che ci perde in ogni caso.

Tutto questo lo puoi vedere da una vigna.

Che cos’è la sovranità d’altronde se non il potere su di un territorio? Potere e territorialità. La terra è da sempre anzitutto una geografia su cui instaurare un potere. Nella mia vigna, all’interno di confini ben delimitati sulle mappe catastali, c’è la mia sovranità di proprietario, ma essa coesiste con una legisla- zione regionale, statale, europea e persino globale che rendono il mio potere su quella porzione di terra fortemente limitato: non posso, ad esempio, impiantare una vigna nuova senza aver ottenuto diritti di impianto; non posso impedire ai cacciatori di passare e cacciarci dentro; non posso usare alcuni pro- dotti chimici, giustamente vietati; oppure sono costretto a usarne alcuni in casi di emergenze fitosanitarie.

Quello che è accaduto nel nostro pianeta sotto la spinta della tecno-scienza e delle trasformazioni dei modi di produzione degli ultimi decenni è anche, e soprattutto, la riduzione dello spazio geografico, antropologico e sociale. Nel villaggio globale l’Homo oeconomicus è specie dominante uguale a se stessa indipendentemente da ogni particolarismo. Siamo consumatori globali, ma non siamo cittadini del mondo. C’è una scissione tra bisogni, aspirazioni, immaginari globali e diritti e sovranità locali e limitati. Da questo punto di vista siamo o potremmo essere tutti migranti economici: di fronte al movi- mento libero del capitale, ai disastri ambientali sempre piùfrequenti, alle guerre delle quali perdiamo memoria, a distanze sempre meno rilevanti, di fronte a immaginari reali e virtuali sempre più condivisi e attesi che si scontrano con confini sempre più stringenti.

La forzatura di massa dei confini nazionali potrebbe essere una delle cifre maggiori del prossimo futuro, una forza prepotente di cambiamento che correrà parallela alla forza naturale/artificiale del cambiamento climatico: ecco perché meticciato e libertà di movimento sono diventate «la» prima emergenza per i difensori di un presunto conservatorismo oramai fuori tempo massimo.

Viviamo una cesura storica senza precedenti. La terza rivoluzione industriale ci consegna un mondo che è solo un lontano parente di quello esistente 250 anni fa. Dopo la Prima rivoluzione industriale, basata sulla forza motrice dei «carburanti», dopo la Seconda rivoluzione industriale incentrata sulla chimica, la rivoluzione digitale, con tutte le sue applicazioni diffuse, ha stravolto non solo le economie ma anche le relazioni spazio-temporali tra gli umani. Eppure cerchiamo di governare questo mondo attraverso infrastrutture istituzionali vecchie e superate, pensate per abitare una realtà che non esiste più.

Si potrebbe, invece, guardare alle piante. Alla loro capacità di decentrare le decisioni: «in generale, le piante distribuiscono sull’intero corpo le funzioni che gli animali concentrano in organi specifici (...). In un certo senso la loro organizzazione è il segno stesso della modernità: hanno un’architettura modulare, cooperativa, distribuita e senza centri di comando, in grado di sopportare alla perfezione predazioni catastrofiche e ripetute» (2). Al contrario di quanto si pensa, in natura le gerarchie sono rare e funzionano male. Le complessità vengono risolte non attraverso logiche di potere, ma attraverso i principidi un’intelligenza collettiva. Nella loro storia evoluzionistica i vegetali hanno risolto i problemi posti dall’ambiente in modo molto diverso dagli animali. Radicamento profondo in un luogo e capacità di vagabondare pressoché illimitata di semi e spore: le piante possono apparire davvero come un modello per le comunità umane del futuro alle prese con un pianeta sempre più piccolo.

Oggi la potenza e la velocità del cambiamento in atto condurranno al dissolvimento delle vecchie strutture «sovraniste», non al loro consolidamento. «L’antropocene richiede un mutamento delle visioni consolidate del governo e della legittimità (...) Il vecchio modo di vedere la responsabilità e l’impatto dell’azione individuale non è più adatto all’Antropocene per via degli aspetti collettivi, sistematici e permanenti della nuova interazione fra umanità e natura» (3). Come la Grande Accumulazione sfociata nella Prima rivoluzione industriale ha portato alla fine del feudalesimo e alla costruzione di nuove istituzioni politiche, così la Grande Accelerazione, prodromo alla rivoluzione digitale, non potrà che mettere sempre più in sofferenza l’intero impianto normativo contemporaneo. Costringendoci a rivederne «le sue vecchie fondamenta politiche se non vogliamo vedere il nostro sistema globale spinto a forme di collasso sempre più estreme. Questo non è un piccolo sforzo: occuperà la parte maggiore di questo secolo. Non sappiamo ancora dove porterà» (4).

Niente sarà più come prima nell’Antropocene.

Nemmeno la vigna che ho davanti agli occhi. Nemmeno i vini che ne verranno fuori. Non ci sarà alcun grand-cru classé a poter resistere a questa sovversione e qualunque idea di un terroir immobile, cristallizzata dentro disciplinari, pensata per la protezione di vitigni o parcelle indifendibili, è destinata a franare. Con buona pace di ogni sovranità immaginata dentro ai muretti a secco dei clos.

Note:

1)    Karl Polanyi, "La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca", Einaudi, Torino 2010.

2)    Stefano Mancuso, "Plant revolution", Giunti, Firenze 2017, p. 145.

3)    Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, "Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo", DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 190 e 191.

4)    Rana Dasguspta, "The demise of the nation state", The Guardian, 05/04/2018.

domenica 18 luglio 2021

Come vignaioli alla fine dell'estate: l'introduzione

C’è questo primo fermo immagine dell’estate 2019 che continua a passarmi per la mente.
 

Una slitta trainata da cani, un cielo azzurro e luminosissimo, una linea di montagne sullo sfondo. La slitta e i cani viaggiano sospesi sull’acqua. Camminano letteralmente sulle acque. 

La foto è stata scattata in Groenlandia e mostra lo scioglimento del permafrost: appena sotto il pelo dell’acqua c’è il ghiaccio che si sta sciogliendo e sul quale i cani e la slitta stanno scivolando, generando l’incredibile effetto ottico (1)

C’è poi una seconda immagine molto potente in questa estate a tratti surreale: si tratta di una foto satellitare che mostra gli incendi scoppiati in Siberia. Si stima che tre milioni di ettari fra boschi e tundra siano andati in fumo, rilasciando 140 milioni di tonnellate di CO2, una cifra assolutamente gigantesca che ci racconta di una dinamica climatica totalmente fuori controllo.

Infine c’è un’ultima fotografia che rincorre nella mia mente le altre due, provando in qualche modo a cancellarle. Siamo in mezzo alle rovine di Micene, in mezzo a grandi blocchi di pietra che testimoniano di una grande civiltà in frantumi. Ecco, proprio lì, in mezzo ad alcune pietre di una antica dimora devastata, cresce una vite. Una vite selvatica. Che prova a farsi strada e a sopravvivere là dove non c’è più nulla.

La vite. Pianta resiliente, testarda e ribelle. Unica forma di vita in mezzo al vuoto. 

È un’immagine che mi fa riflettere sul movimento dei vignaioli naturali. Su quanto sia al centro del grande cortocircuito fra natura e cultura e su quanto poco stia facendo per prendere davvero posizione di fronte alla catastrofe ecologica.

 


La crisi ambientale che stiamo vivendo è in gran parte una crisi della Politica.

Nel 1975 Wallace Broecker pubblicava su Science un articolo dal titolo emblematico: Climatic Change: Are we on the Brink of a Pronounced Global Warming?” (2). L’insostenibilità del nostro modello di sviluppo è cioè cosa nota da sessant’anni almeno, eppure non è mai stata davvero al centro delle campagne elettorali o dei programmi politici di nessun grande partito politico di massa.

Nella ri-edizione di “Tempi storici Tempi biologici”, nel 2005, Enzo Tiezzi affermava “con un misto di imbarazzo e di orgoglio che le previsioni di vent’anni fa si sono dimostrate fondate e scientificamente corrette”. Nulla si crea e nulla si distrugge, la legge della termodinamica non fa sconti a nessuno: il ciclo del Carbonio sta alla base dell’aumento fuori controllo delle temperature del pianeta. I politici lo sanno da tempo. Ma nessuno ha mai davvero agito.

 

Eppure, se una speranza esiste, questa risiede ancora una volta proprio nella politica. 

In una nuova rotta.

Veniamo da anni, decenni, dominati dalla cieca fede in una dimensione globale sbagliata che ha prodotto danni sociali ed ambientali devastanti. La reazione è stata peggiore del male: una tendenza a rifugiarsi nell’identità locale e in un nuovo nazionalismo escludente. 

Dobbiamo cambiare immaginari, utilizzare nuove parole, pensare nuovi attori. Delineare i protagonisti della nuova lotta che si muovano in un terzo orizzonte, al contempo locale e globale.

“Ci vuole un termine che raccolga la stupefacente originalità (la stupefacente antichità) di questo agente. Chiamiamolo per il momento il Terrestre, con la T maiuscola per evidenziare che si tratta di un concetto; e, anche, per precisare in anticipo dove ci si dirige: il Terrestre come nuovo attore politico” (3).

 

Ho scritto questo libro con tutta l’urgenza che un mondo arrivato al capolinea può generare. Con gli occhi di un agricoltore che vede la natura cambiare giorno dopo giorno, immerso in una pratica quotidiana che dipende spesso da variabili incontrollabili. 

Ho scritto questo libro nella speranza che possa informare, angosciare, sensibilizzare. Che possa convincere almeno un solo lettore della necessità di un attivismo concreto e radicale contro il riscaldamento globale.

Il pessimismo della ragione mi porta a pensare che sia già troppo tardi. Al tempo stesso credo che non si debba lasciare nulla di intentato. 

Lo dobbiamo ai nostri figli cui lasciamo un pianeta in fiamme. 

 

 




(1) Sono 290 i miliardi di tonnellate di ghiaccio fuso che si sono riversate nell’Atlantico nei primi sette mesi dell’anno e certamente il record del 2012 verrà superato.

(2) https://blogs.ei.columbia.edu/files/2009/10/broeckerglobalwarming75.pdf

(3) Bruno Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.
Pagg. 55 e 56

 

domenica 27 giugno 2021

Socialismo o barbarie: i dubbi di un anarchico di fronte al futuro

Ci ho messo un anno a scrivere questo post "sulla pandemia".
Stava lì nelle "bozze". Cancellato e ricominciato mille volte. Ad ogni chiusura e a ogni riapertura. A ogni nuova notizia o polemica. A ogni commento di Tizio o di Caio che mi parevano aver torto o ragione. 
Ora nelle Marche siamo in una situazione di siccità estrema e ci sono temperature che in giugno non si erano quasi mai viste. E penso che tutto si tiene, che tutto è correlato. E allora ci riprovo.
Da dove posso cominciare?
Forse dal riso amaro che mi ritrovo stampato in faccia da mesi scorrendo i social media e i giornali on-line, alla ricerca di opinioni che mi aiutino a capire e ad approfondire i temi di questa pandemia. 
Il riso amaro di fronte allo stato di questo paese e di questo nostro occidente.
Siamo bombardati da opinioni e informazioni di ogni tipo. E la pioggia torrenziale di questa inesauribile comunicazione si fa subito fango, pantano dove è impossibile trovare una via percorribile verso una qualche forma di conoscenza stabile, sicura, definita.
Vorrei allora provare un ragionamento differente. Che abbracci uno sguardo da lontano. Che metta da parte l'informazione singolare e immediata cui ci stiamo abituando sempre più, e provi a collocare questi giorni nella loro complessità plurale.
Stiamo assistendo ad una violentissima accelerazione della Storia.
Parlando coi miei figli ho provato a spiegarglielo. Tutte le generazioni vivono almeno un momento storico fondamentale, decisivo. Per la mia generazione - ad esempio - è stato il crollo del muro di Berlino, nella sua dimensione ideologica prima che fisica. Per la generazione precedente certamente il ciclo di movimenti sessantotto/settantasette. 
Questa pandemia sarà molto probabilmente il "loro" evento: qualcosa che sposta i destini e muta le dinamiche sociali e politiche. Non fraintendetemi. Non sono così naif da pensare al singolo evento (la scoperta dell'America, l'invenzione della macchina a vapore...) come unica determinante della Storia: la storiografia moderna, marxista e non, ha da tempo mostrato l'importanza delle "derive", dei tempi lunghi, delle accumulazioni, dei movimenti sotto-traccia, delle dialettiche sociali ed economiche, spesso invisibili, che incidono sui grandi fatti.
È incontestabile, però, che l'arrivo di questo virus - uno shock esogeno direbbero gli economisti - sta mettendo sotto pressione tutte le delicate strutture con cui le moderne democrazie occidentali più o meno liberali avevano provato a mantenere un fragile equilibrio: quello tra benessere economico, coesione sociale e libertà personali. Non solo. L'arrivo del virus ha rimesso di colpo in discussione paradigmi che sembravano inscalfibili.
Si pensi, ed è l'esempio più clamoroso, all'Europa: nel giro di pochi mesi il COVID-19 ha raso al suolo decenni di pensiero ordo-liberale basato sull'austerità. Nemmeno la crisi finanziaria ci era riuscita: solo il governo italiano negli ultimi mesi ha speso decine e decine di miliardi di euro in deficit, qualcosa di inimmaginabile anche solo un anno fa. 
E ovviamente ci sarà un prezzo da pagare. Ma non è questo davvero il punto... 
Si tratta di una sensazione prima che di una ragionamento limpido.
Come posso spiegarlo?


Avete presente "Una poltrona per due"?
Ecco, è successo proprio quel che succede a Dan Aycroyd quando da ricco diviene povero: una certa parte del mondo (Principalmente nell'emisfero nord, principalmente in occidente, principalmente di pelle bianca) non era più abituata, da tempo, da almeno tre generazioni, a vivere in certe condizioni di estrema precarietà e insicurezza. E quando all'improvviso la propria Comfort Zone ha iniziato a vacillare si è trovata di colpo senza riferimenti. (Perché vaglielo a dire all'abitante di una favela brasiliana, al residente di una bidonville africana, al ragazzo di un paesino di campagna dell'India, che il Coronavirus sta intaccando il loro stile di vita!)Quello che non è ben chiaro alle classi medie occidentali è che, se è vero che da anni esiste un effetto trascinamento verso il basso della propria condizione, è però altrettanto vero che esse sperimentano ancora livelli di vita molto superiori a quelle delle generazioni precedenti oltre che dei miliardi di altri abitanti del pianeta che in occidente non vivono.
Lo dimostrano in modo incontestabile alcune delle reazioni più assurde al virus, tipo le lacrime per le mancate vacanze sugli sci in piena seconda ondata: pensiamo per un istante all'Europa del 1918 e pensiamo agli effetti combinati di una orribile guerra mondiale e di una epidemia come la spagnola e proviamo a sovrapporre queste immagini alle fotografie di certe corse all'aperitivo o allo shopping natalizio. L'effetto è di puro straniamento. 
Per questo motivo trovo insopportabile questa ipocrisia diffusa per cui intere masse di individui che hanno per decenni vissuto sopra le proprie possibilità - a danno degli altri abitanti del globo e delle risorse naturali del pianeta - negli ultimi mesi si siano fondamentalmente lamentati per la limitazioni di alcune del tutto prescindibili libertà borghesi.
Una ipocrisia che si sostanzia poi in un altro modo: milioni e milioni di cittadini che negli ultimi decenni hanno voluto meno Stato e più Mercato, che hanno votato in modo coerente e convinto per partiti di destra e/o di sinistra tutti quanti in modo trasversale favorevoli alla riduzione delle tasse (e dunque alla riduzione di stato sociale), alla riduzione del debito, alle privatizzazioni, ecco questi stessi cittadini si sono messi a pretendere all'improvviso l'assunzione di medici e infermieri, la ri-apertura di ospedali, la garanzia di tracciamenti su larga scala, la sistemazione dei trasporti pubblici e l'erogazione di sussidi a pioggia. Così, di colpo.
Certo, la povertà sta aumentando a dismisura. E certo, ci sono intere fasce di popolazione che soffrono pesantemente: ma c'erano anche prima e a chi interessavano? Questa è l'ipocrisia di Dan Aycroyd: si accorge della povertà solo quando diventa povero, che è esattamente ciò che sta succedendo.


Così mi ritrovo a confrontare la gestione della pandemia di tutti i paesi del Sud-America con quella di Cuba e penso Cazzo, compagni, forse quella Rivoluzione non ha avuto tutti i torti a privare il popolo di qualche libertà civile se poi è riuscita a costruire e mantenere sistemi sanitari ed educativi di qualità per tutti! (che poi in realtà ci sarebbe da discutere - e molto - sui diritti garantiti a Cuba, chiedere ad esempio agli omosessuali). 
Ma non era questo, in fondo, quel che sognavano i comunisti? Uno scambio fruttuoso e sostenibile tra libertà personale e diffusione dei diritti? Ed è - me ne rendo conto - un ragionamento orribile perché da anarchico ho sempre sofferto questa scelta. Non dovremmo proprio arrivarci a uno scambio del genere. Ma nel guardarmi intorno non posso non notare come la stragrande maggioranza dei comportamenti individuali - sui quali volenti o nolenti poggia l'idea di autogestione - abbia in questi ultimi mesi delineato in occidente una inequivocabile scelta valoriale: mettere in conto la convivenza con il virus e la sua diffusione, e dunque un certo numero di vittime, per mantenere in piedi, anche se zoppicante, il nostro "stile-di-vita". 
Si dirà, come sempre, TINA: There Was No Alternative. 
Ma ne siamo proprio sicuri?
La domanda non è oziosa. E sì! Sottende un certo moralismo. Ma non c'è nulla di male nel moralismo: dipende dai valori cui si fa riferimento. Anche il privilegiare l'economia ad ogni costo è una scelta morale. Si tratta di privilegiare l'utilitarismo e, questo, come ben sappiamo, è la base di Homo oeconomicus: un attore razionale teso alla massimizzazione della propria utilità personale. È un cazzo di valore. Ed è, in definitiva, il valore che fonda il capitalismo. 
La domanda non è oziosa per il semplice fatto che questa pandemia può essere vista in qualche modo come una "prova generale": il cambiamento climatico ci obbligherà a rinunciare per sempre ad alcune libertà personali in cambio della sopravvivenza della specie. Passato questo virus, che prima o poi passerà, ce ne saranno forse altri più gravi - o forse no - ma in ogni caso dovremo fronteggiare un paio di verità incontestabili: 
1) il caos climatico che ci attende produrrà effetti profondi e strutturali sulle nostre vite sociali
2) non saremo mai in grado di vivere in dieci/undici miliardi di essere umani sul pianeta Terra e ottenere contemporaneamente benessere economico, salute ecologica e libertà personale.
È una visione troppo pessimista? Troppo Malthusiana? Forse.
Ma non dobbiamo sprecare l'unica nota positiva che la pandemia ci ha consegnato: la sperimentazione del mondo che verrà se non cambiamo rotta. Perché ciò che stiamo vedendo in larga parte non è altro che un mondo vecchio che prova a resistere nell'unico modo che conosce: garantire un livello di consumismo che possa salvaguardare la sopravvivenza del sistema. 
È questo che davvero vogliamo?
O forse è urgente mettere in conto un'alternativa sapendo fin d'ora ch'essa non potrà essere il migliore dei mondi, l'utopia degli anarchici? Che nella società dell'Antropocene dovremo tutti rinunciare a qualcosa (un po' di benessere economico? qualcuna delle tante libertà che gli ultimi decenni ci avevano regalato?) purché queste rinunce siano nel senso della sobrietà e, soprattutto, della eguaglianza? 
Non è socialismo questo?
E non appare come l'unica soluzione alla barbarie?

mercoledì 5 agosto 2020

Nuovi mondi e vecchie politiche

Faccio politica da quando mi ricordo.
Già 9 o 10 anni, nei prati del Parco Ravizza a Milano, quando si giocavano infinite partite a pallone, mi mettevo in mezzo ai litiganti - c'era sempre qualcuno che la voleva risolvere a botte - per tentare un approccio assembleare, democratico e pacifista ai problemi generati da un calcio di rigore o da una punizione. 
Negli anni della giovinezza ho attraversato la Milano da bere, la caduta del muro di Berlino, la prima guerra del golfo, Mani pulite, l'avvento di Berlusconi, la globalizzazione sempre con la convinzione che la Politica fosse una azione necessaria e in qualche modo anche sufficiente all'organizzazione della vita umana sulla Terra (e forse anche nello Spazio). Ho re-incontrato Valeria, per poi non lasciarla più, durante una campagna elettorale. Insieme abbiamo creato La Distesa che è in qualche modo un luogo estremamente intriso di Politica. Ci siamo candidati in varie elezioni, abbiamo frequentato circoli e sezioni, abbiamo discusso e litigato più o meno con tutto l'arco costituzionale dei partiti locali. Non abbiamo mai preso una tessera: io - figuriamoci - sono ancora l'anarchico che ero a diciassette anni, e Vale la comunista eretica espulsa dalla federazione dei giovani comunisti... Insomma un mezzo disastro...
La nostra generazione ha prodotto mostri come Matteo Renzi e Matteo Salvini.
Il che basterebbe a negare ai 40/50enni di oggi il diritto a fare Politica. 
La realtà è che si avvicinano le elezioni regionali nelle Marche - ma non solo - e molto semplicemente monta la totale disperazione sul "che fare?".
Siamo cresciuti con la narrazione del "meno-peggio", del "voto-utile", del "sennò-vince-tizio". Una storia figlia della fine delle ideologie e che ha radicalmente svuotato di contenuti ogni contenitore della ormai presunta sinistra, sia quella di lotta che quella di governo. Qualche volta si è votato, qualche volta no. Qualche volta più convintamente, qualche volta meno. Ma sempre con la certezza di essere minoranza di una minoranza, senza alcuna reale capacità di incisione sulla tela della storia. Piccola o grande che fosse.
Con gli amici dei centri sociali tante volte ci siamo amichevolmente scontrati sulla necessità - o meno - di un confronto istituzionale, di una "politica politicante" e non solo conflittuale, di una qualche forma organizzata di "rappresentanza". 
La sensazione sempre più netta, più cogente, più dolorosa, è che il quadro odierno (che sì! È anche figlio di COVID ma è soprattutto il frutto di una dinamica storica che viene da lontano) sia del tutto mutato. 
Ci troviamo di fronte a mondi totalmente nuovi e sconosciuti e la sensazione è quella di affrontarli, viverli, utilizzando strumenti vecchi e superati. 
Come se navigassimo in Internet oggi ma con la connessione di venti anni fa.
Come se affrontassimo un esercito perfettamente equipaggiato con archi e frecce.
Il dibattito internazionale sui Fondi Europei, il dibattito nazionale (ma anche globale) sull'immigrazione, la reazione internazionale alla Pandemia... Tutto appare ridicolo, fuori luogo, stonato.
Abbiamo istituzioni e regole pensate in un novecento che non esiste più. Che è stato semplicemente spazzato via. A partire dal feticcio "Stato-Nazione".
Ci troviamo a parlare di liste, listini e listarelle per una Regione che non ha ancora minimamente superato i problemi della crisi 2008/2012, che non ha saputo affrontare il terremoto, che ha fatto fallire attività produttive e aeroporti, che ha tagliato la sanità in lungo e in largo salvo poi chiedere fondi per aprire un ospedale COVID da dodici milioni di euro rimasto vuoto, che non ha alcun tipo di visione per il futuro che non sia la Sagra del Prodotto Tipico di 'staminchia.
Sono oramai trent'anni che la politica non è altro che l'affannato tentativo di gestire vecchi centri di potere - di destra e di sinistra - nel tentativo di mantenere un instabile consenso elettorale. Un consenso il cui unico fine è la gestione delle infinite emergenze cui gli amministratori di ogni livello sono tenuti a rispondere. La questione della "casta" si è risolta semplicemente nel tentativo di sostituzione di ceti politici ed il populismo altro non è se non il cavallo di Troia di chi vuole affrontare il tema della globalizzazione attraverso la costruzione di nuovi rifugi indentitari. Ci siamo già passati e non è finita bene.          
Per questo ci sembra assurdo parlare di candidature, alleanze, accordi, dialoghi col territorio, e tutto l'armamentario di una retorica politichese fuori tempo massimo. Ci sono dinamiche là fuori che stanno sgretolando il nostro vecchio mondo e l'unica risposta sensata sarebbe quella di una rinnovata carica utopista. Perché quando la distanza tra istituzioni e mondo reale si fa incolmabile, quello è il momento che precede le rivoluzioni.

lunedì 6 aprile 2020

The past is finished, the future is unknown


Io non riesco ad odiarlo questo Virus.
Dopo un mese di quarantena questo è l'unico pensiero che mi viene.
Sarà che la nostra è una quarantena dorata, privilegiata. Come agricoltori abbiamo spazi e possibilità che altri si possono solo sognare in questo momento.
Eppure non credo sia questo il punto.
Non riesco a odiare questo virus perché non è un "nemico" e perché non siamo in "guerra". Certo, lo dobbiamo isolare, ne dobbiamo mitigare gli effetti, lo dovremo mettere in un angolo e "sconfiggere" come l'umanità ha fatto con altri patogeni, alcuni ben più gravi, altri meno. Ma il fatto è che si tratta di una forma di vita terrestre e naturale che, in quanto tale, ci mette di fronte a quel che siamo come umanità, come specie, come abitanti della Terra. Non è una guerra. Si chiama evoluzione. Ogni forma di vita compete per trovare il suo posto in questo meraviglioso pianeta. Nel fare questo evolve, muta, trova soluzioni e antidoti. Quel che abbiamo chiamato Scienza non è un'arma in una guerra. È una risposta. Che la nostra intelligenza di specie ha elaborato per consentirci di adattarci e di evolvere come comunità sociale.
Avremmo potuto, ad esempio, lasciar perdere e far sì che la pandemia seguisse il suo corso.
Sappiamo che il virus per una vastissima parte della popolazione produce effetti "leggeri", alcuni di noi sono addirittura "asintomatici". Eppure abbiamo bloccato le nostre economie e cambiato i nostri stili di vita in tutto il mondo per affrontare il virus. Miliardi di persone sono in quarantena.
Perché?
Molto semplicemente perché la gran parte degli esseri umani, una netta maggioranza, ritiene che la nostra umanità consista proprio nel non abbandonare i più deboli: gli anziani, i malati, i disabili, gli immuno-depressi e così via. Si tratta, in definitiva, di una scelta morale. Che ci definisce in quanto uomini indipendentemente da qualsiasi appartenenza identitaria: etnica, nazionale o religiosa.
In questa scelta siamo cioè tutti meticci e a-polidi. Sarà forse per questo che i più titubanti, i più restii alla quarantena - va sottolineato e andrà ricordato ai posteri! - sono stati i rappresentanti di una certa destra populista reazionaria e anti-umanista (i Bolsonaro, i Johnson, i Trump...) oltre ai rappresentanti di certi potentati industriali.
Dunque non posso odiare un patogeno che per la prima volta da decenni ci costringe ad ammettere che siamo ancora "uomini" e che l'economia è solo un mezzo, uno strumento, e non il fine ultimo della nostra azione, del nostro senso in quanto abitanti del Pianeta Terra.
La realtà è che gli esseri umani erano abituati fino a poco tempo fa a convivere con emergenze come questa. Si moriva presto. Si viveva male. La grande maggioranza degli esseri umani viveva in luoghi malsani, con poche risorse e nessuna comodità. Quel che chiamiamo "benessere" è una conquista recentissima se pensiamo ai tempi della Storia e, peraltro, ancora oggi una conquista diffusa in modo largamente diseguale.
Quel che abbiamo raggiunto lo dobbiamo a un mix esplosivo di conoscenza scientifica, organizzazione sociale e potenza economica. La globalizzazione degli ultimi decenni ha portato al dominio incontrastato della nostra specie sul pianeta. In qualche modo è stato l'apice della nostra evoluzione. Ci siamo sentiti invincibili.
Nel giro di un solo mese è cambiato tutto. Un microscopico essere sta rivelando, invece, tutte le nostre fragilità. Gli scenari che la questione del "cambiamento climatico" ci stava prospettando come imminenti - ma spalmati su un orizzonte di qualche decennio - si sono manifestati all'istante con una potenza di fuoco deflagrante.
Sono muto e incapace di riflessioni coerenti da settimane.
Quando ho finito il tour di presentazione di "Come vignaioli alla fine dell'estate" proprio in quel momento esplodevano i primi casi in Lombardia e Veneto. In pratica quel libro, che parla di estinzione di massa, decrescita e natura ibrida, è stato di colpo attualizzato da una realtà che è esplosa a velocità folle.
Ecco, io non lo so se andrà tutto bene.
Leggo decine di articoli su come sarà il mondo dopo il Coronavirus. Su come sarà l'economia, su come cambierà la politica, su come muteranno le nostre abitudini. E vedo un sacco di interventi sul "nostro" mondo, quello dell'enogastronomia e dell'agricoltura. Ristoranti che non riapriranno, distributori e importatori che falliranno, aziende vinicole che faranno fatica a stare in piedi.
Leggo, ascolto, rifletto. Ma resto muto.
Il mondo di prima è finito, dicono. Ma come sarà quello futuro nessuno può saperlo con certezza. E forse è proprio in questo assurdo e dilatato presente che può celarsi una strada: nei momenti di svolta le nostre scelte valgono doppio. Quel mondo che avevamo in mente e che ci sembrava impossibile, divorato dal Pensiero Unico, diventa una possibilità concreta e non solo utopistica.
Qualche volta penso che La Distesa potrebbe anche non esistere più, perlomeno nella sua forma attuale. Poi, subito dopo, penso: e chissenefrega. Se siamo custodi di un pezzo di t/Terra questo prescinde dall'essere una "azienda". Le nostre scelte del passato non sono state fatte in chiave economica. Ci adatteremo. Resistenza Naturale significa innanzitutto adattamento. Cambiare per continuare a fare parte della rete della vita, dell'ecosistema.
Non sappiamo ancora come farlo ma potrebbe anche rivelarsi un nuovo inizio.
E quindi Peace Love, Soul. And resistance!

giovedì 10 ottobre 2019

Di catastrofi e civiltà decadute

Dall'introduzione di "Come vignaioli alla fine dell'estate" di Corrado Dottori
Ed. DeriveApprodi. Collana Habitus.

"...Siamo in mezzo alle rovine di Micene, in mezzo a grandi blocchi di pietra che testimoniano di una grande civiltà in frantumi. Ecco, proprio lì, in mezzo ad alcune pietre di una antica dimora devastata, cresce una vite. Una vite selvatica. Che prova a farsi strada e a sopravvivere là dove non c’è più nulla.
La vite. Pianta resiliente, testarda e ribelle. Unica forma di vita in mezzo al vuoto.
È un’immagine che mi fa riflettere sul movimento dei vignaioli naturali. Su quanto sia al centro del grande cortocircuito fra natura e cultura e su quanto poco stia facendo per prendere davvero posizione di fronte alla catastrofe ecologica.
La crisi ambientale che stiamo vivendo è in gran parte una crisi della Politica.
Nel 1975 Wallace Broecker pubblicava su «Science» un articolo dal titolo emblematico: Climatic Change: Are we on the Brink of a Pronounced Global Warming? L’insostenibilità del nostro modello di sviluppo è cioè cosa nota da sessant’anni almeno, eppure non è mai stata davvero al centro delle campagne elettorali o dei programmi politici di nessun grande partito politico di massa.
  Nella riedizione di Tempi storici Tempi biologici, nel 2005, Enzo Tiezzi affermava «con un misto di imbarazzo e di orgoglio che le previsioni di vent’anni fa si sono dimostrate fondate e scientificamente corrette». Nulla si crea e nulla si distrugge, la legge della termodinamica non fa sconti a nessuno: il ciclo del Carbonio sta alla base dell’aumento fuori controllo delle temperature del pianeta. I politici lo sanno da tempo. Ma nessuno ha mai davvero agito..."


In vendita nelle librerie, on-line e presso la casa editrice.

sabato 28 aprile 2018

L'ebbrezza immaginifica di un vino paesaggio

Per una poetica oltre il feticcio "Natura".

Riporto qui il mio pezzo uscito per OperaViva Magazine: seguendo il link trovate l'intero focus sul libro di Simonetta Lorigliola edito da DeriveApprodi.


Se non è il vino dell’enologo, allora che cosa è? 
Un vino naturale? 
No, è un vino paesaggio! 


Nell’oceano sempre più vasto delle pubblicazioni – specialistiche e non – sul vino, il libro firmato da Simonetta Lorigliola spicca indubbiamente per importanza e profondità. C’è la storia dei Vignai da Duline, cioè di Lorenzo Mocchiutti e Federica Magrini. Ci sono la musica, i centri sociali, il vegetarianesimo come scelta politica, l’agricoltura come approdo di un percorso di biodiversità culturale. Ma anche – e soprattutto – c’è un arco narrativo in grado di mettere insieme il Dioniso crocifisso di Michel Le Gris, Terra e Libertà/Critical Wine (il libro manifesto) e, in modo tangenziale, Insurrezione culturale di Jonathan Nossiter. 

Nel pieno del dibattito estenuante e spesso stucchevole sul «vino naturale» e delle ipotesi su una legislazione in grado di «certificarne» l’essenza e rubarne lo spirito, Lorigliola scarta bruscamente di lato e torna in qualche modo all’origine. All’origine: cioè alla t/Terra. Ma anche all’origine, nel senso di inizio: il percorso con cui un vasto movimento, radicato nei centri sociali e promosso da un collettivo eterogeneo raccolto intorno alla figura di Gino Veronelli, riusciva a inserire il discorso sul vino (e dunque sull’agricoltura) all’interno di una più vasta riflessione politica e filosofica su origine, identità, globalismo, agro-ecologia, modelli di consumo e di sviluppo. 

E come dentro al percorso di Critical Wine raramente si faceva riferimento al vino «naturale», al vino «vero» e tantomeno al vino «biologico», essendo il problema tutt’altro, così dentro «è un vino paesaggio» questi stessi termini trovano ben poco spazio, e quando ne trovano è con una prospettiva piuttosto critica. D’altronde è la storia stessa dei Vignai da Duline a essere – essa stessa – «collaterale» a quella del movimento del vino naturale. 

Eppure, contemporaneamente, con una forza descrittiva ed una potenza evocativa non comuni, nel libro l’essenza di ciò che oramai è comunemente accettato come «vino naturale» in tutto il mondo emerge in modo affascinante, a partire dai nomi creativi dati alla pratica della non-cimatura (chioma integrale) e alla particolare forma di inerbimento/sovescio (mucca verde). Perché in definitiva Lorenzo Mocchiutti produce a tutti gli effetti del vino naturale! Allora dove sta la contraddizione? Dove l’incoerenza, se c’è? 

Essa è insita proprio nell’esigenza, classica di questi anni, di dover aggettivare (nominare, definire, esemplificare) ogni cosa, qualunque soggetto/oggetto. Ecco allora che il vino diventa «naturale», «vero», «biodinamico», «artigianale», «industriale», «convenzionale», ecc. Ma proprio queste definizioni complicano, anziché risolvere, il problema: perché in ultima istanza l’unica vera ragione di fondo non sta nell’identificazione di una pratica o di una coerente scelta produttiva, bensì nella creazione di una specifica nicchia all’interno di un altrettanto specifico mercato. 

Il capitalismo, ancora una volta! Per cui «l’agricoltura biologica, coi suoi prodotti, è divenuta una delle reginette più applaudite di una festa in declino che per decenni ha visto protagonisti la plastica e i derivati dal petrolio, oggi banditi dal consumo politicamente corretto» 1. Quella dinamica di sussunzione oramai nota per cui ogni alternativa, ogni salto in avanti, divengono slogan da televendita anni Ottanta o scatto super-cool sul profilo instagram: «Territorio e natura, insomma. Quasi un ossessivo richiamo al vino come elemento bucolico e baluardo di memorie perdute. Sono in crescita esponenziale coloro che dicono di produrre in questo modo. E soprattutto coloro che lo raccontano. Anche il vino ha le sue mode» 2. Fino all’assurdo – viene da aggiungere – di un Parco Divertimenti del Cibo Made in Italy come il farinettiano F.I.CO. di Bologna: il territorio e la natura si fanno Fabbrica Contadina. 

Dentro questa dinamica, volenti o nolenti, siamo inseriti tutti noi: chi produce, chi consuma e persino chi narra il vino (o l’agricoltura). Del vino naturale a breve si faranno un regolamento e un marchio, con tutto ciò che ne consegue in termini di valore (aggiunto). Ma possiamo immaginare la Rivoluzione francese senza la ghigliottina giacobina o la Rivoluzione d’ottobre senza il terrore rosso? E la realtà è che il solo uso dell’aggettivo «naturale» accostato alla parola vino, senza alcun dubbio, ha sancito un momento rivoluzionario. 

Come vignaioli non possiamo tirarci indietro. Dobbiamo accettare in pieno la responsabilità di aver usato il termine, di averne anzi abusato, di aver provato a scardinare un mondo del vino vecchio, putrido, insostenibile. Di averlo fatto attraverso teorie e pratiche agricole ma anche, e non se ne poteva fare a meno, attraverso lo spazio comunicativo che l’aggettivo «naturale» (insieme ai suoi tanti sinonimi) poteva e doveva aprire. Se oggi il vino naturale è divenuto solo marketing, solo nicchia di mercato, con tanto di lunga lista di vini mal fatti e di conseguenza poco piacevoli, non possiamo dimenticarne, però, l’effetto dirompente di decolonizzazione di un immaginario che in vent’anni aveva elevato l’enologo a nuovo Dio, la chimica a compagna di vita, un gusto piccolo borghese (di gomma e dopobarba firmato) a standard estetico. 

Era un passaggio ineliminabile, anche e soprattutto a livello concettuale, quello del vino naturale. Nell’epoca del dominio della tecno-scienza e nel momento della massima espansione/potenza planetaria dell’homo sapiens (in procinto di farsi homo deus 3), rimettere al centro del discorso sul vino la dialettica fra natura e cultura ha scatenato spazi giganteschi per una nuova ermeneutica. 

Ad esempio. Il vino non è un prodotto, è un testo. Ce lo suggerisce il filosofo Nicola Perullo: «il ruolo umano nella creazione del vino nella sua ultima fase – dalla vigna alla bottiglia, perché tutto ciò che vi è prima si perde in intrecci che non dipendono più direttamente da noi: progenie, elementi, antenati – è peculiare: è una maieutica. Chi fa vino è un maieuta…» 4

Molti studi antropologici ci hanno insegnato come il coltivare, l’allevare, il custodire appartengano alla storia evoluzionistica di homo sapiens; l’uso del fuoco per cucinare, del sale per dare gusto a certi alimenti 5, oltre che la costruzione stessa di utensili, hanno preceduto il vero sviluppo cognitivo e celebrale di homo erectus, smentendo il luogo comune per cui la tecnica sarebbe frutto di una intelligenza superiore. In questo senso «gli esseri umani sono una realtà bio-sociale molto più complessa della somma di due strati, uno naturale e uno culturale, e gran parte della nostra struttura fisica è in realtà il prodotto di un rapporto mai interrotto tra natura e cultura» 6

Il vino naturale (le sue pratiche agricole, il suo laissez-faire enologico, la sua ridondante aneddotica) è esploso a un certo punto come una supernova a ricordarci come «natura» e «cultura» siano in realtà il frutto di una classificazione tutt’altro che universale: sono astrazioni, e il concetto stesso di natura è sempre più costruzione culturale, non certo sinonimo di un’impossibile e oramai perduta wilderness. 

Vins nature, vins vivants: il fatto stesso della loro esistenza, della loro possibile grandezza – ancora oggi negata da molti – ha generato conflitto immediatamente, e lo genera di continuo: fra estremisti della tecno-scienza e bio-nazi, tra enologi di grido per cui tutto si risolve in molecole volatili e vecchi contadini resistenti, fra sommeliers dal gusto internazionale e giovani hipsters alla ricerca di odori e sensazioni forti. Ma come «superare il marketing del naturale. Andare oltre il vino naturale» 7

Nel saltare a piè pari il nodo del movimento «vinoverista», Simonetta Lorigliola – insieme ai protagonisti di questo libro – sembra indicarci il passo decisivo verso una possibile via di uscita. Il problema è la merce, ovviamente. Il vino viene aggettivato in quanto prodotto, merce, bene di consumo. Il vino naturale diventa subito feticcio, la biodinamica diventa brand, il biologico catena di supermercati. Tutto si risolve in comunicazione superficiale, facile, commerciale. 

Eppure chiunque abiti un vigneto, un ecosistema complesso, un paesaggio, sa che non funziona così. Alcuni dei capitoli più belli di È un vino paesaggio recitano: «Un territorio creativo», «Cervelli operai», «Cura e restauro», «Geografie immaginarie», «Sedimenti culturali». Una lingua del tutto diversa che spiega un lavoro completamente differente dalla catena della produzione/valore cui ci ha piegati il capitalismo lavorata. 

Si tratta, invece, del lavoro di un artigianista, come direbbe Jonathan Nossiter 8. E non è un caso che sia Federica, con lo sguardo delle scienze umane, a chiarire il punto: «Il vino è un contenitore in cui far confluire linguaggi diversi. Un territorio di sconfinamento. Un terreno di sperimentazione espressiva (…) Non mi interessa la banale accoppiata arte-vino, che non significa nulla. Per me è una esigenza psichica» 9

Dunque l’etica, certo (agro-ecologia, sostenibilità, biodiversità….). Ma anche, e direi soprattutto, l’estetica. Il piacere libero e gioioso. La creatività del tatto. L’ebbrezza immaginifica. Una critica del gusto che è anche critica dell’assaggio. Dopo Natura/Cultura la seconda diade, quindi: Etica/Estetica. A complessare ulteriormente il quadro. 

Serve davvero un nuovo linguaggio, un nuovo perimetro espressivo. Non bastano i passi già importanti compiuti dentro al movimento «naturalista», in qualche modo ancora inchiodati da una idea normativa – coercitiva – del prodotto finale. Qualcosa che spieghi, tutto quanto insieme, la mucca verde e il territorio, la geologia e la tecnica, il clima che cambia e le botti di quercia, la fermentazione spontanea e la selezione massale, il vignaiolo e il suo abitare un ambiente pulsante. Non un aggettivo. Un altro sostantivo, invece.  

Un vino paesaggio. Un vino che è geografia umana e storia naturale insieme. Un vino che è un’origine ben segnalata sulle mappe, ma che parla un linguaggio planetario. Un vino che è sì tecnica ma, in una elegia dell’ossimoro, si fa «tecnica naturale», processo infinito di dialogo fra processi biologici (la fotosintesi, la fermentazione) e gesti artigiani (la potatura, l’imbottigliamento). 

Un vino che è paesaggio, appunto: «Se è vero che in ogni atto di creazione è impossibile determinare quando cominci la tecnica e quando finisca la vita, quando il concerto trascorra nel viaggio, in quella creazione sempre rinnovata che si chiama paesaggio ciò è ancora più vero» 10. Non il paesaggio rurale toscano o provenzale a uso e consumo degli uffici turistici. No. Un paesaggio dell’anima che è politica ed estetica – insieme – nel suo stratificare secoli, millenni, milioni di anni di interazione tra animali (fra cui l’uomo) e ambiente. 

In questo senso, quindi, la storia ventennale dei Vignai da Duline, simbolo e paradigma di un intero movimento di vignaioli, insieme alle parole di Simonetta Lorigliola, sembra farsi primo Manifesto di questi vini paesaggio. Vini in grado di spezzare, in nome di una nuova libertà del gusto, il circolo vizioso dell’edonismo servile oggi dominante, per cui «Agli antipodi di qualunque forma di libertà, l’universo dell’edonismo moderno in realtà finisce con l’assomigliare al migliore dei mondi huxleyano, con i suoi piaceri ridotti al rango di sonniferi che irraggiano tutti i pori della società e mantengono i suoi membri all’interno di una servitù indolore» 11

Perché, come diceva una famosa battuta del film di Jonathan Nossiter Mondovino, «ci vuole un poeta per fare un buon vino». 

 NOTE
1. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, DeriveApprodi, Roma 2017, p. 75.
2. ↩ Ivi, p. 117.
3. ↩ Cfr. Y. Noah Harari, Homo Deus, Bombiani, Milano 2017.
4. ↩ N. Perullo, Epistenologia. Il vino e la creatività del tatto, mimesis, 2018 Milano, p. 34.
5. ↩ Cfr. R. Cavalieri, Gusto. L’intelligenza del palato, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 84-93.
6. ↩ M. Aime, Cultura, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 35.
7. ↩ C. Dottori, Non è il vino dell’enologo, DeriveApprodi, Roma 2012, p. 100.
8. ↩ Si veda J. Nossiter, Insurrezione Culturale, DeriveApprodi, Roma 2017.
9. ↩ S. Lorigliola, È un vino paesaggio, cit., p. 145.
10. ↩ M. Spanò, in Postfazione a È un vino paesaggio, cit., p. 186.
11. ↩ M. Le Gris, Dioniso Crocifisso, DeriveApprodi, Roma 2011, p. 167.

mercoledì 28 febbraio 2018

Dichiarazione di voto

Straziato da una campagna elettorale devastante nella sua mediocrità (detto da uno che non guarda neppure la televisione da sei anni), avevo deciso di non votare. Non che fosse una novità, mi è successo spesso, di non votare.
Stavolta l'avrei fatto con ancora più convinzione del solito, visto l'orrore in campo.
Quello che, però, sta accadendo nel ventre più profondo delle società italiane ed europee (verrebbe da dire: mondiali) necessita di una presa di posizione.
Serve a niente. Ma voterò antifascista. Come segnale, come inutile atto di resistenza (peraltro la mia intera esperienza politica è stata sotto questo segno, dunque ci sono piuttosto abituato. Con l'età nemmeno ci soffro più).
Voterò, però, con in mente due figure fondamentali - ed ovviamente sempre più dimenticate - dell'Italia e dell'Europa del passato recente: Alex Langer e Lucio Magri.
A loro voglio dedicare il mio "voto situazionista", il mio gesto inutile dentro una democrazia svuotata. A loro che molto avevano capito. A loro che sono morti entrambi suicidi perché gli era insopportabile vivere in un mondo che andava in una direzione opposta e contraria a quella del loro impegno politico e civile.
Ad Alex Langer, pacifista, verde, cattolico illuminato, che aveva visto chiaramente nel risorgere dell'odio etnico in Jugoslavia (e più in generale in Europa) e nella critica di un sistema economico inumano ed insostenibile i semi di una nuova crisi europea.
E a Lucio Magri, comunista libertario, che aveva perfettamente intuito la parabola finale di quel Partito Comunista Italiano, dal quale era stato prima espulso, poi riaccolto e infine disconosciuto nella corsa a perdifiato di PDS, DS, PD verso l'omologazione ed il centrismo interclassista.
In particolare mi piace ricordare, ai tanti di sinistra che ancora insistono nell'affermazione tatcheriana che "non c'era alternativa" (al mondo ad una dimensione, al pensiero unico, alla globalizzazione, al Mercato, alle "riforme", a "questa" Europa), che qualcuno, con grande lucidità e con un linguaggio ed un pensiero che dovrebbero appartenere sempre alla parola "politica", qualcuno aveva intravisto il percorso e l'approdo.
Per cui abbiate pazienza ancora un po' e leggete qui di seguito l'intervento di Lucio Magri contro la ratifica del Trattato di Maastricht nella seduta della Camera del 29 ottobre 1992.
Perché quel voto fu uno dei nodi di svolta della nostra storia recente. E piaccia o non piaccia, molti dei protagonisti di quella svolta siedono ancora in Parlamento (o ci vogliono rientrare), spesso raccontando le stesse balle a gli stessi illusi elettori di sinistra.
Le parole di Magri - ventisei anni dopo - sembrano scritte oggi e prevedevano con una lucidità disarmante  il diluvio che stava per arrivare.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Magri. Ne ha facoltà.

Lucio MAGRI. Signor Presidente, i deputati del gruppo di rifondazione comunista voteranno contro il disegno di legge di ratifica del trattato di Maastricht. In questa scelta siamo, qui ed ora, molto isolati, una esigua minoranza a fronte di uno schieramento quasi unanime.

Ancora qualche mese fa la nostra sarebbe apparsa una scelta di pura testimonianza, rilevante solo per chi la compie. Ma ora non è più così, anche se nel Parlamento, che su questo tema è avaro non solo di presenze ma anche di pensiero e di analisi non retoriche, si stenta a prenderne atto. Maastricht è infatti diventato all’improvviso un problema aperto. La Danimarca ha detto «no» al trattato; in Francia metà del paese ha fatto altrettanto; in Inghilterra la maggioranza degli elettori, se potesse esprimere il proprio parere, direbbe di no ed anche il parlamento, in questi giorni, traballa; in Germania l’opposizione è estesa, così come in Spagna.

D’altro canto, proprio nel momento in cui si decide di accelerare l’unità europea partendo dalla moneta unica e dalle banche centrali, esplode la crisi dello SME: le banche centrali vanno ognuna per la propria strada e le loro scelte vengono aspramente contestate. Solo l’arroganza del potere, che si coniuga al luogo comune e determina la stupidità come prezzo necessario, e solo l’opportunismo che ciò genera negli oppositori benpensanti possono dunque spiegare il fatto che le nuove evidenze degli accadimenti non abbiano prodotto, qui e nel paese, quanto meno una riflessione nuova, un’articolazione reale di atteggiamenti. A noi, al contrario, questi fatti impongono e permettono di chiarire meglio le ragioni razionali del nostro «no» e di considerarlo l’inizio di una battaglia che diventerà rapidamente incisiva e che può conquistare forze nuove.

Quali sono dunque, in sintesi, le ragioni del nostro «no»? Innanzi tutto, il rifiuto di una Europa che nasca con un segno marcatamente autoritario. L’unità nazionale è nata in connessione con i primi passi della democrazia moderna; non vogliamo che l’unità continentale corrisponda al suo declino.

Ma è questo che sta accadendo, già nel modo in cui il trattato è stato discusso e definito — un accordo cioè tra Governi rispetto al quale i parlamenti nazionali possono solo dire «sì» o «no» —, ma ancora di più nella struttura di potere reale che l’accordo produce. I veri centri promotori e regolatori del processo di unificazione sono e saranno il consiglio delle banche centrali e l’integrazione delle strutture militari. E, se mai, del tutto parzialmente, resta in campo una sede politica che può avere influenza su di loro, tale sede è quella del concerto dei Governi.

A questo punto, dunque, si ratifica e si conclude un processo che durava da anni, che è un processo di trasferimento di potere non solo dallo Stato nazionale al livello sovranazionale, ma, attraverso questo, dalle istituzioni direttamente legittimate dalla sovranità popolare ad istituzioni politiche auto nome o a puri poteri di fatto. Il ruolo di comparsa in cui è sempre più relegato il Parlamento europeo, proprio in quello che dovrebbe essere il passaggio dalla Comunità economica all’unione politica, simboleggia questa realtà rovesciata. E mi pare incomprensibile, anzi patetico, il discorso di chi vota il trattato augurandosi che si possa presto completarlo con istituzioni politiche democratiche: Maastricht va esattamente nella direzione contraria.

La seconda ragione del nostro voto non è meno importante, ma anzi lo è ancora più ed è soprattutto più trascurata. Il trattato non fissa solo delle regole e dei soggetti abilitati ad applicarle; fissa anche, direttamente e indirettamente, un indirizzo. L’indirizzo è definito in estrema sintesi così: il funzionamento pieno di una economia di mercato, ma non nel senso — badate — ovvio e banale del riconoscimento del mercato, bensì nel senso di una radicale e sistematica riduzione di ciò che sussiste di non mercantile, cioè di tutti quegli strumenti attraverso i quali le democrazie europee nell’epoca keynesiana, cioè dopo gli anni trenta e soprattutto dopo il 1945, avevano appreso a governare gli eccessi del gioco cieco del mercato.

Così è esplicitamente e rigorosamente stabilito che le banche centrali non possono finanziare il debito pubblico; che è vietato stabilire prezzi e tariffe privilegiate per imprese o amministrazioni pubbliche; infine, che si istituisce una moneta unica emessa da una banca centrale indipendente dalle istanze democratiche, così come lo erano prima della grande depressione o come lo è oggi la banca tedesca, di cui pure si critica l’ottusità deflazionistica. Ciò che si crea non è dunque solo un potere concentrato, ma un potere usabile in molte direzioni: è, nel contempo, una certa struttura ed una sua direzione di marcia.

Un discorso analogo, anche se meno pregnante, si potrebbe fare sull’unificazione militare. Anche qui, non c’è alcuna unificazione di progetti politico-economici, di politica estera, ma solo la creazione di un apparato che, per sua natura e composizione materiale, è rivolto a garantire possibilità di intervento per arginare crisi che nascono alla periferia dell’Europa e che non si sa come prevenire.

Non meno conta, però, l’indirizzo che si definisce in modo indiretto. Ad esempio, con la perdita dell’autonomia monetaria restano allo Stato nazionale gli strumenti della politica di bilancio, ma solo in parte ed apparentemente, perché le politiche fiscali non unificate sono vincolate, anzi, dalla circolazione libera dei capitali a farsi concorrenza nel senso di essere più permissive per attirare risorse. Vincoli monetari e vincoli fiscali si sommano così nell’imporre la via obbligata del contenimento strutturale e non congiunturale della spesa pubblica, degli investimenti sociali o comunque a lungo termine.

Tutto ciò ovviamente non è del tutto nuovo. Ieri il Presidente Amato ha riconosciuto con insolita franchezza che l’Italia vive ormai in un regime di sovranità limitata, e non solo l’Italia, se è vero, com’è evidente, che anche paesi come l’Inghilterra, che non hanno un grande disavanzo pubblico, o come la Svezia ormai sentono il peso di un potere esterno cui non riescono ad opporsi. Ma di questa sovranità limitata Maastricht è una sorta di ratifica, di legittimazione definitiva, e il prossimo prestito che l’Italia otterrà dalla Comunità comincerà a definire già il primo protocollo delle sue clausole. Non è allora esagerato dire che disoccupazione e taglio dello Stato sociale sono inerenti al contenuto del trattato; il prezzo scontato della linea di politica economica in esso implicita ma molto rigorosa.

Vengo così alla terza ed ultima ragione del nostro «no». Nella logica di questo tipo di unificazione europea (ecco il punto che si dimentica) è non solo prevedibile, ma fatale, la prospettiva dell’aggregazione selettiva delle aree forti e dell’emarginazione ed esclusione delle periferie e semiperiferie. Non è vero, e soprattutto non è vero in questa fase, che il gioco di mercato, la supremazia dei parametri finanziari, la priorità del cambio tendano a promuovere un allargamento della base produttiva. Anzi, è evidente proprio il contrario: in assenza di politiche attive di sviluppo, le aree più deboli, financo all’interno dello stesso paese, regrediscono.

E così, mentre si solidifica un centro forte che tende ad attrarre ed integrare regioni limitrofe anche fuori dalla Comunità, si emarginano interi paesi più deboli.

La linea di confine — lo sottolineo — tra i due processi attraversa nel profondo la realtà italiana, il nord e il sud. Cosicché, se da un lato è probabile che l’Italia nel suo insieme non sia in grado di rispettare gli esorbitanti vincoli posti da Maastricht per il 1997, e sarà dunque costretta ad una rincorsa insieme affannosa e perdente, dall’altro lato in questa prospettiva dell’Europa a due velocità troviamo una chiave di lettura ed un moltiplicatore travolgente delle spinte secessioniste nell’Italia, nel prossimo futuro.

Maastricht non promette allora l’unità dell’Europa, ma in compenso promuove la divisione dell’Italia e, più in generale, una moltiplicazione, che già si registra ovunque, di spinte, passioni, interessi localistici e di subculture nazionali. Non è un passo imperfetto e parziale verso l’unità europea, ma il rischio della sua crisi.

C’era e c’è un’altra strada? C’era, a mio parere, e c’è. È quella coraggiosa di una costituente politica europea che produca insieme istituzione e soggetti politici unitari e democratici. È quella, dall’altra parte, dell’unificazione delle politiche economiche effettive come strumento di sviluppo orientate sulla priorità dell’occupazione, del risanamento ambientale, dell’allargamento della base produttiva regionale. Ma per percorrerla occorrerebbe costruire una sinistra politica e sindacale, riconquistare un’autonomia culturale rispetto alla genericità retorica dell’europeismo degli ultimi anni.

Su questo terreno il ritardo è però grandissimo.

C’è, e opera, un soggetto politico culturale forte, organizzato nel capitale internazionale. Esso ha i suoi strumenti nella circolazione dei capitali, addirittura una lingua propria: l’inglese impoverito dei managers.

La sinistra invece, e in generale le forze politiche democratiche, come soggetto europeo quasi non esiste. L’Internazionale socialista è ormai un involucro in gran parte vuoto. L’Internazionale comunista non c’è più, quella verde non è decollata, un’Internazionale cattolica non è mai esistita. Ecco, a maggior ragione, occorre per questo trovare un punto di partenza da cui invertire una tendenza, da cui risalire una china che porta ad una unità dimidiata e ad un’unità dai contenuti che ho descritto.

Il problema, per noi, è allora proprio questo. Il «no» a Maastricht e la lotta contro le sue conseguenze nei prossimi anni saranno una battaglia che permetterà di cominciare a costruire un’Europa diversa, un Europa democratica nelle sue istituzioni, socialmente definita nei suoi traguardi e nei suoi obiettivi.

Le ragioni del nostro «no» sono dunque contestuali ad un «sì» per un’Europa diversa. E constatiamo con grande stupore come tanta parte della sinistra italiana, su questo terreno, non abbia saputo trovare quanto meno gli accenti di una diversità, di un’alternativa. Come si fa a volere un alternativa in Italia, con questa ammucchiata senza forma sui grandi temi delle prospettive dell’Europa?

martedì 6 febbraio 2018

Macerata, Italia.

Il terrore che sento in queste ore viene dall'abisso fra il virtuale ed il reale.
La distanza ormai incolmabile tra il racconto di una città, di una nazione, in preda ad una emergenza epocale, ad una apocalisse biblica, ad una invasione. E la realtà, invece, di una città meravigliosa, pacifica, che si sta candidando a capitale della cultura 2020; (e di un paese reale dove ci sono problemi e sofferenze ma dove la questione immigrazione non è certamente, da nessun punto di vista, il problema numero uno, su cui imbastire una intera campagna elettorale).
Viviamo in una specie di Truman Show, dove si è costruito un mondo parallelo, artefatto, distorto, in cui milioni di "barbari alloctoni" stanno sostituendo la razza autoctona italiana.
(Verrebbe da ridere se non fosse che questo è davvero ciò che si legge in giro e si ascolta per strada).
La realtà dei fatti è che gli immigrati dal 2013 a oggi nella Provincia di Macerata sono passati da 32.267 a 31.020. Se ne vanno anche gli stranieri, a causa della crisi. Lo sa bene chi lavora o ha lavorato nei Comuni.
Eppure anni, decenni, di narrazioni tossiche, di costante alterazione dei fatti, di giornalismo ignobile, di soluzioni facili, o non soluzioni di comodo, di propaganda, hanno liberato il mostro. Che c'era, c'è sempre stato, ci sarà sempre. Ma era in qualche modo tenuto a bada.
Ed è troppo tardi oggi.
Citare statistiche, rapporti, fonti di diritto, numeri. Ragionare, riflettere, approfondire.
Perché quando la narrazione tossica diventa mito allora si entra nel regno del simbolico e dell'irrazionale. Uno spazio pre-politico che fa appello all'istinto, a pulsioni che scatenano meccanismi devastanti per cui molto semplicemente si smette di essere umani. Quando ciò accade, quando individui "normali" diventano parte di una mitopoiesi collettiva, la banalità del male di Hannah Arendt, è già troppo tardi. Poiché quello è l'inizio di ogni fascismo.
Siamo a questo punto, di nuovo.
La mia generazione, cresciuta con la fine delle ideologie, pensava che tutto ciò fosse fuori dalla storia, definitivamente. Il concetto stesso di razza, l'odio su base etnica, la violenza fisica e morale contro lo "straniero". Invece eccolo di nuovo l'orrore nazionalista del Dio, Patria e Famiglia, dilagare sui social, perdersi far le righe dell'editorialista di turno, serpeggiare nei discorsi delle signore-bene al supermercato o esplodere brutalmente con gli episodi di Fermo e di Macerata.
Quando una narrazione diventa mitologica, cioè quando una ideologia si piega all'irrealtà, non c'è più democrazia che tenga, non c'è più mediazione, non c'è più il piano di un discorso logico.
Di fronte alla mitologia dello straniero violentatore, del nero spacciatore, del rom ladro, nulla può la memoria. Non quella lontana di nonni o bisnonni. E nemmeno la memoria recente di paesi dilaniati, smembrati, travolti: la Jugoslavia, il Ruanda, la Cecenia, con i loro "imbrogli etnici".
“Scimmia africana”: così Amedeo Mancini aveva chiamato una giovane nigeriana prima di sferrare un pugno contro il marito, uccidendolo. Succedeva il 5 luglio 2016, meno di due anni fa, vicino al belvedere di Fermo, una cittadina marchigiana a 45 chilometri da Macerata. Per l’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi, colpevole di aver reagito agli insulti rivolti alla sua compagna Chiniery, Amedeo Mancini, ultrà della Fermana vicino ad ambienti neofascisti, è stato condannato a quattro anni di carcere con il patteggiamento e rimesso in libertà nel maggio del 2017, a nemmeno un anno dall’omicidio". (https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/02/05/macerata-fascismo-luca-traini)
Gli episodi di attacchi di stampo neo-fascista e razzista si susseguono e si intensificano ma la matrice ideologica, nell'epoca del "non c'è differenza fra destra e sinistra", viene nascosta, alleggerita, negata.
È la politica del "ma": sono contro la guerra ma, non sono razzista ma, povera ragazza ma (...se l'è andata a cercare). La politica dei due pesi e delle due misure. Quella per cui basta frequentare una moschea per essere automaticamente un terrorista dell'Isis, e invece Luca Traini è solo un ragazzo un po' matto che ha sbagliato, sebbene abbia una svastica tatuata in fronte e il Mein Kampf sul comodino.
Il terrore che sento in queste ore viene da una "sinistra" che si è smarrita completamente. Una "sinistra" che ha responsabilità enormi in quello che è accaduto in questo paese. Che ha riempito la sua crisi ideologica e ideale solo di parole come "mercato", "globalizzazione", "sicurezza". Che ha contribuito a costruire e sostenere quell'Europa delle Nazioni che è il motore immobile - con le sue politiche tecnocratiche di austerità - dei populismi e dei neo-fascismi dilaganti.
Una "sinistra" che si è piegata alla narrazione altrui e ne ha rafforzato la tossicità, diluendo sempre di più il valore dell'esperienza partigiana a forza di equiparazioni e revisionismi. Dimenticando Piero Gobetti e il "fascismo come autobiografia della nazione".
Una "sinistra" che si è spostata talmente a destra da incentivare i campi di detenzione libici - campi di concentramento! - dove bloccare i migranti cattivi prima che arrivino a delinquere nel nostro paese.
Viviamo in un periodo per molti versi simile agli anni venti/trenta del secolo scorso. Speravamo che, a differenza di allora, le dinamiche economiche non producessero gli stessi mostri o, perlomeno, non così presto e non allo stesso modo. Ci sbagliavamo.
Il terrore che sento in queste ore è per la nuova traversata nel deserto che ci attende, senza bussole a indicarci una strada.
Non resta che stringerci, resistere, farci forza a vicenda. Non so chi... Noi... Gli umani?
Restiamo umani.

A Macerata manifestazione nazionale, sabato 10 febbraio alle 14.30.
https://www.facebook.com/events/1321613521317914/

martedì 29 novembre 2016

Io voto No!

Non ho scritto granché finora sul referendum costituzionale del 4 dicembre.
Volutamente.
Mi pare evidente che si sia raggiunto uno dei punti più bassi nella storia del dibattito politico pubblico in Italia. Gli schieramenti in campo hanno dato sfogo a tutto l’armamentario retorico della politica 2.0; la comunicazione interna e internazionale ci ha messo del suo a confondere e incasinare ulteriormente le cose; e si è pure ottenuto il risultato non trascurabile di riesumare salme della prima e della seconda repubblica che si credevano sepolte per sempre (i nomi li tralascio, tanto li sapete).

Oggi mi sembrava giusto, però, a pochi giorni dal voto, esprimermi pubblicamente, sia per il ruolo di piccolo amministratore pubblico ricoperto per 5 anni, sia per continuare la tradizione che mi ha visto commentare in modo netto gli accadimenti della società, dell’economia e della politica degli ultimi anni.
Io voterò no e invito tutti a farlo in modo convinto, sebbene moltissimi fattori remino contro: non tanto al “no” in sé, quanto alla voglia di votare e/o di farlo convintamente. Me ne rendo conto.
Eppure.

Eppure questa “riforma” va respinta con forza. Non per lanciare un messaggio contro Renzi o contro “i poteri forti” o a favore della Costituzione nata dalla Resistenza (che già non è più tale da un po’ o meglio non è mai stata).
Il mio “no” è un no tutto politico, ma molto diverso da quello di una sinistra-non-sinistra (D’Alema e Bersani) che fino a ieri ha fatto di peggio (cioè votare la riforma costituzionale di Monti) o di una destra-non-destra (Berlusconi) che in Parlamento ha votato quasi fino alla fine la riforma di Renzi, in virtù del patto del Nazareno, salvo poi - come sempre - sfilarsi all’ultimo metro.
Mi si dirà che allora è un “no” salviniano e grillino. Populista.
Ed io allora incasso e faccio spallucce, ridendo. Perché mi pare del tutto evidente che sia la lega-lepenista che i grillini-no-a-tutto hanno trovato nel referendum semplicemente l’occasione d’oro di travolgere Renzi e di sfruttare l’onda brexit/trump. A loro, in fondo in fondo, della Costituzione frega poco nulla.

E allora?
E allora credo che il “no” debba molto semplicemente essere come era stato l’oxi in Grecia: un sussulto di indignazione, un segnale popolare contro la deriva tecnocratica degli ultimi anni, un “no” della cittadinanza alla oligarchia europea. Con buona pace di Scalfari.
Come ho già avuto modo di ricordare, questo referendum non è il referendum di Renzi ma quello di Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica ha nominato prima Letta e poi Renzi a patto di realizzare ciò che era contenuto nella lettera della Commissione Europea dell’estate 2011. Quella che scatenò la speculazione “telefonata” contro il governo Berlusconi  (Monti già allertato da tempo col beneplacito del PD di Bersani che ora fanno “quelli di sinistra”). Da quel “vulnus” nasce il pantano politico degli ultimi anni in cui sia Renzi che Grillo che Salvini hanno sguazzato allegramente, unica vittima una vera sinistra anti-sistema (scomparsa).
E dunque prima il Fiscal Compact (pareggio di bilancio, riforma costituzionale votata da tutti, Lega compresa – governo Monti), poi la riforma del lavoro (Jobs act, votata da larga parte del PD, compresi molti dissidenti odierni – governo Renzi), infine la riforma costituzionale destinata alla “governabilità”. Tutte riforme fortemente ideologiche e fortemente volute dal Capitale.

Ecco perché come dice Ida Dominijanni in questo pezzo di rara lucidità http://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2016/11/29/referendum-costituzionale-si-no “il sì chiude un ciclo, mentre è solo il no, con tutti i suoi imprevisti, che può aprirne uno nuovo”.    

Mi piacerebbe che i molti – nei movimenti – che sono propensi a non votare cogliessero questo passaggio cruciale.