martedì 22 maggio 2012

C’era una volta “Terra e Libertà” - Parte Prima


Ho passato l’ultimo anno senza partecipare a fiere e mercati con l’intenzione di riflettere un pò sulla questione “vini naturali” o “viticoltura artigiana” o “agricoltura critica”, chiamatela come vi pare. Ovviamente ho le idee più confuse di prima.
Nel frattempo Porthos ha chiuso i battenti, i biodinamici sono tornati al Vinitaly, si moltiplicano le fiere che fanno riferimento all’idea di “naturale o “biologico” o “biodinamico”. Spesso celando interessi o personaggi ben poco chiari.
Da tempo avevo l’impressione che quella grande rivoluzione che all’inizio dello scorso decennio ha innovato fortemente il mondo del vino stesse un pò franando sotto i colpi della reazione industriale. E’ tipico del capitalismo divorare ogni sussulto “alternativo” creando immediatamente gli anticorpi: ci abbiamo fatto l’abitudine. Ciò che stupisce, in qualche modo, è la velocità della reazione. Alcune aziende che solo nel 2002 erano uscite da Vinitaly tentando una qualche forma di alternativa solo dieci anni dopo vi rientrano, e con tutti gli onori della cronaca.
Sia ben chiaro: non ho nulla contro la partecipazione al Vinitaly di una azienda commerciale. L’ho fatto anche io e magari lo farò ancora.
Quello che stupisce sono le modalità: il grande ritorno non avviene singolarmente ma in gruppo, attraverso l’immagine di un movimento, o perlomeno di una sua parte. Questo è avvenuto senza alcun tipo di dibattito, di elaborazione, di partecipazione.
Sono il primo a congratularmi del successo commerciale di ViViT. Ma certo d’ora innanzi, a mio avviso, niente sarà più come prima. I due grandi filoni del nostro movimento, infatti, Vini Veri e Critical Wine condividevano almeno una cosa: che Vinitaly non era il luogo adatto per parlare di agricoltura contadina. Poi vennero Vinnatur, la TriplaA e compagnia bella. Ma l’intuizione iniziale restava piuttosto chiara: la rivoluzione del vino passava attraverso una critica culturale all’egemonia dei grandi gruppi industriali. Quelli che fanno le leggi, quelli che fanno i disciplinari, quelli che indirizzano il mercato.
In questo decennio le contaminazioni da noi portate, attraverso le fiere, i mercati, le assemblee ma anche attraverso i pezzi di movimento che ci sono stati a fianco, hanno seminato idee e pratiche nuove ma, ciò che è più importante, hanno educato un’intera fascia di cittadini co-produttori ad un nuovo modo di avvicinare il vino.
Senza tutto questo il famigerato claim “vino naturale” non avrebbe avuto il successo che giustamente ha. Di fatto abbiamo “creato” un mercato. Quello stesso “mercato” che ora distributori, agenti, rappresentanti, giornalisti, ecc. reclamano come fosse un proprio orticello: dieci anni fa era relegato ai margini. Ci sono voluti gli sforzi e le scelte spesso difficili di molti di noi, le intuizioni di un Gino Veronelli o di un Sandro Sangiorgi, l’impegno dei tanti che si sono sbattuti quando eravamo una minuscola nicchia di gente “strana”.
Ecco perché io credo che quando si fanno delle scelte che chiamano in causa un intero  movimento si debba pensare a questo “capitale sociale”, a questa credibilità collettiva, a questa “comunità” che si erano andati costruendo nel tempo.
Conosco perfettamente i ragionamenti fatti in questi mesi: l’uscire dalla nicchia, il parlare ad una platea più ampia, la voglia di crescere economicamente. Sono pure d’accordo, in linea di principio. Senza reddito l’agricoltura contadina è destinata a scomparire. Senza reddito, non ci può essere il ritorno alla terra che auspichiamo.
Il punto è: non eravamo già usciti dalla nicchia? Se vado in America, nelle liste di vino dei migliori ristoranti vedo un sacco di vini del “nostro giro”; in Giappone è boom di vini naturali; non c’è azienda che non abbia importatori in giro per il mondo; sui blog come sulle riviste mainstream non si parla d’altro che di biodinamica o di naturalità.
Non è che adesso vogliamo andare oltre? Che si vuole crescere e crescere e crescere e produrre di più e vendere di più, alla faccia di Latouche e della artigianalità?
Se, infatti, penso oggi ai “vini naturali” penso innanzitutto ad una grandissima operazione di marketing che ha creato un potentissimo strumento di attrazione commerciale. Un claim che mette assieme modernità e tradizione ma il cui potenziale è divenuto solo ed esclusivamente commerciale.
Il vino si deve anche vendere, si dice. La mia impressione è che ormai siamo arrivati (o tornati) al punto in cui “il vino si deve solo vendere”.
E allora qual è la differenza fra noi e gli altri? Non può essere semplicemente la sostenibilità o l’attenzione alla salute dei consumatori. Qui, nel giro di vent’anni, arriveranno tutti, volenti o nolenti. Il punto, semmai, è “come”.
La nuova legge sul biologico ci racconta il “come” ci si arriverà.
Aver abbassato la guardia sui contenuti culturali e politici ci rende vulnerabili e incapaci di trovare risposte. A breve saremo invasi da vini biologici con 150 mg/lt. di solforosa, enzimi e tannini enologici. E però… Tutti contenti al Vinitaly a spiegare che noi siamo diversi

A breve la seconda parte del ragionamento.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

La vera diversità la deve spiegare il bicchiere. Esso deve condensare il vostro modo di esser vignaioli. Il resto tende a essere, a diventare mera cornice.

Corrado Dottori ha detto...

Questa forma di riduzionismo è pericolosissima e non mi appartiene. Il bicchiere spiega le cose solo fino ad un certo punto.