giovedì 6 marzo 2008

Varie ed eventuali

Stasera, come già detto, sarò a Pratovecchio nella tana degli orsi, sabato sera invece a Perugia presso il circolo ARCI "Island" in via Magno Magnini , angolo via Gallenga. Inizio della degustazione alle ore 20.00. Il 15 marzo partirò per Dusseldorf dove si tiene la fiera Pro-Wein. Mi sembra di essere in tourneé, come una rockstar. Peccato che non ci siano groupies assatanate in circolazione... Nel frattempo siamo passati dai 25 gradi di lunedì ai 2 gradi di ieri. La Primavera è già qui. E poi dicono che non esistono più le mezze stagioni. Sto orecchiando via internet al nuovo dei Black Crowes che è uscito il 4 marzo. Credo che prenoterò il vinile, se esiste, e poi ve lo racconterò. Nel frattempo (numero 2) le date americane sono sold-out e in Europa per ora vengono solo ad Amsterdam (guardacaso!) e a Londra. Nel frattempo (numero 3) proseguo a correre, che la maratona si avvicina, 30 marzo, indeciso fra Treviso e Montecarlo, la prima fa molto Prosecco di Valdobbiadene, la seconda - ça va sans dire - Champagne millesimato. Chissà. Nel frattempo (numero 4) vi segnalo un produttore fra quelli incontrati nel giro in borgogna: Hubert Chavy Chouet. Il Mersault 2006 è acidissimo con sentori nitidi di crema pasticcera, scorza di limone, zucchero a velo. Un vino che terrà la schiena dritta per anni e anni. Il Pommard 2006 ha un naso pulitissimo, fresco, fragrante. Sentori di fragolina di bosco e lampone conducono a un ingresso in bocca che racconta di una acidità fissa micidiale e di tannini potenti e ancora astringenti che necessiteranno di molto tempo per esprimersi al meglio. Ma c'è un grande potenziale.

venerdì 29 febbraio 2008

Giovedì 6 marzo

Giovedì prossimo sarò ospite del Ristorante "La tana degli orsi" di Pratovecchio (Arezzo) per una degustazione di vini marchigiani. Sarà per me la prima visita nel locale di Caterina e Simone che in molti mi dicono sia un luogo di riferimento del mangiare e bere bene nel casentino.
Questo è ciò che hanno scritto per pubblicizzare l'evento, meglio non saprei fare:
Giovedì 6 Marzo 2008 “La Distesa , Malacari , Collestefano …. Le Marche nel bicchiere !!!” Una serata speciale in compagnia di Alessandro Starrabba dell’azienda Malacari, Corrado Dottori de La Distesa e Fabio Marchionni di Collestefano. Un’occasione unica per fotografare in maniera precisa il quadro dell’enologia marchigiana. Il Verdicchio di Matelica di Collestefano rispecchia fedelmente la tipicità del proprio territorio con una vitalità che a noi lo ha fatto amare da subito. Il Verdicchio dei Castelli di Jesi de La Distesa è un vino che ben si identifica con Corrado, con la sua forte personalità e trasmette in maniera netta il territorio e la naturalità con cui è prodotto. Il Rosso Conero di Malacari è vino di riferimento, è da sempre nella nostra carta e Alessandro è certamente tra i vignaioli del nostro cuore, appassionato e fedele interprete della sua terra. Un appuntamento dalle mille sfumature!

Ristorante Cantineria “La Tana degli Orsi”
Via Roma 1 , Pratovecchio AR
Tel. e Fax 0575 583377 Cell. 329.8981473
E.mail tana.orsi@aruba.it

lunedì 25 febbraio 2008

Global warming e Verdicchio

Lo scorso anno ci fu un pò di polemica fra il sottoscritto e alcuni bloggers enoici, primo fra tutti Franco Ziliani di Vinoalvino. La materia del contendere era l'eccessiva gradazione alcolica dei vini, da imputare - secondo alcuni - alla ricerca di concentrazione da parte dei viticoltori, dalla volontà, cioé, di seguire una certa moda impostasi negli anni passati. Io cercai di argomentare che vi è anche questo aspetto da tenere presente ma che ben più rilevante è, a mio avviso, il vero e proprio susseguirsi di annate sempre più anormali dal punto di vista metereologico. Ovviamente mi diedero del "catastrofista" e dell'ingenuo perché, si sa, per controllare le gradazioni alcoliche basta vendemmiare in anticipo... E chissenefrega dei tannini verdi, degli squilibri nelle acidità, della mancanza di armonia. Insomma se Gli Eremi riporta sempre 14° in etichetta, anche in annate fresche come il 2002 e il 2004, sarebbe perché voglio avere un vino alla moda, concentrato e marmellatoso...
Ho fatto questa introduzione perché vorrei condividere con voi i dati, scientifici in questo caso, del Centro Operativo di Agrometereologia della Regione Marche. Questi dati dicono chiaramente che, perlomeno nelle Marche, vi è stato nell'ultimo mezzo secolo un impressionante cambio di clima. Con temperature medie estive nettamente crescenti lungo tutto il periodo 1961-2007. Non solo. Se l'ultima estate può essere considerata come la terza più calda della storia, dopo l'inarrivabile 2003 e il 1994, nelle dieci più calde ci sono 1998, 2000, 2001, 2003 e 2007. Inoltre le dieci più calde vengono tutte dopo il 1985 e le annate 2002, 2004 e 2005 considerate "fresche" risultano comunque più calde della media del periodo 1961-2007. A questo va aggiunto il quasi costante deficit idrico, per cui ad esempio nella scorsa estate, a fronte di una media storica di 60,4 mm di pioggia nei mesi di giugno, luglio e agosto, sono caduti nella nostra regione 32,2 mm cioé quasi la metà. Così si spiega anche il forte calo delle rese. Perlomeno per i viticoltori onesti. Poiché a guardare le dichiarazioni di produzione si scopre che alcuni produttori hanno prodotto la stessa quantità di uva e sempre vicino ai massimi del disciplinare. Il che può avere solo due spiegazioni: o di solito queste aziende producono molto più del disciplinare (ovviamente senza dichiararlo) oppure esistono fenomeni microclimatici tipo vigna di Fantozzi che si sposta solo su certi produttori fortunati...
Inutile dire che questi dati confermano i trends presentati da Al Gore nel suo film documentario Una scomoda verità. Un film che, pur con alcuni limiti, denuncia una situazione-limite verso la quale si sta facendo ancora troppo poco, sia da parte del mondo politico, sia da parte dei normali cittadini.
Quanto alla gradazione alcolica dei vini, è evidente che con questi dati se si vogliono produrre vini equilibrati e strutturati da uve giunte a maturazione armonica, lo scotto da pagare sarà sempre una gradazione alcolica medio-alta. Con buona pace delle mode e degli stili aziendali.

lunedì 18 febbraio 2008

Sui lieviti indigeni

Ho già scritto che il 2007 è stata la prima annata in cui l'intero processo di vinificazione di tutti i vini da me prodotti è stato condotto con metodi naturali, ovvero con basse dosi di anidride solforosa, assenza di coadiuvanti di fermentazione, di tannini, enzimi, lieviti selezionati.
E' però già la quarta vendemmia che per i vini da "invecchiamento", cioé Gli Eremi e Nocenzio, utilizzo solo lieviti indigeni. Posso, quindi, iniziare a fare un bilancio provvisorio di questa esperienza, basato su prove dirette e non sulle esperienze e raccomandazioni altrui.
Inizio col dire che quest'anno ho avuto, e ho tuttora, seri problemi di fermentazione, con vini ancora dolci e acidità volatili mediamente più elevate rispetto al solito. Se l'ultimo aspetto, preoccupante, appare come tipico di questa annata, ed è legato probabilmente ad un uso troppo limitato di solforosa nella fase iniziale di selezione dei lieviti indigeni, la difficoltà nel portare a termine le fermentazioni non sono una novità per il vino bianco (situazione differente rispetto alle vinificazioni in rosso, sia di uve bianche che di uve rosse). Mai, però, era accaduto di avere a febbraio un residuo zuccherino come quello di quest'anno.
Una spiegazione plausibile è, a mio avviso, lo stress sopportato dalle piante durante le due ondate di caldo africano con temperature fino a 40° e mancanza di acqua. E' probabile che sia la flora batterica sia la carica di azoto in grado di nutrire i lieviti siano state in qualche modo stressate da una situazione simile. Ma è ovviamente solo una sensazione.
La domanda è: qual è la ragione per l'utilizzo di lieviti indigeni, posto che a livello di salute per il consumatore l'inoculo di lieviti selezionati è assolutamente senza problemi? Genericamente si sostiene che i lieviti indigeni esprimano meglio il terroir. Questa interpretazione è controversa. I sostenitori della moderna tecnica enologica sostengono che non è dimostrabile che le fermentazioni avvengano naturalmente grazie a lieviti propri della vigna, ma che avvengano invece in seguito ad una serie di contaminazioni microbiche pre-esistenti (nell'aria, in cantina, negli attrezzi, nelle botti, ecc.).
Gli studi di Jules Chauvet, grande enologo francese padre della viticoltura naturale, chiariscono come i lieviti indigeni, purché ben selezionati e gestiti, esprimano davvero qualcosa in più. In particolare, sostiene Chauvet, mentre la scelta dei lieviti non incide sul "carattere fondamentale del vino", cha nasce dall'interazione fra vitigno, suolo e condizioni meteo, essa risulta importante nella modulazione di "tonalità differenti", cioé di armonie e timbri che ampliano la qualità di un vino. Si potrebbe dire, cioé, che i diversi lieviti incidano nella creazione di una maggiore complessità.
Se, quindi, seguendo Chauvet, si può affermare che l'espressione del terroir non dipende direttamente dai lieviti indigeni, i quali semmai danno qualcosa in più alla complessità di un vino, dovrebbe apparire evidente come il loro uso ha senso nel momento in cui tale qualità aggiuntiva non viene compromessa da problematiche come l'acidità volatile alta o forme di inquinamenti batterici. I quali, giocoforza, deviano il vino dalle caratteristiche fondamentali tipiche dell'origine.
Applicando questo ragionamento alle mie esperienze, ciò significherebbe utilizzare i lieviti indigeni sempre e comunque sui vini macerati (bianchi e rossi); mentre solo nelle annate migliori per quanto concerne i bianchi a pressatura soffice, e solo dopo una accurata gestione del pied de cuveè con dosi adeguate di solforosa.
Questo approccio è certamente molto poco integralista, rispetto al mondo del vino naturale, ma certamente più coerente rispetto all'obiettivo di fare vini che esprimano al meglio il suolo e l'annata, senza distorsioni. Che siano esse correzioni di cantina o difetti più o meno evidenti.
Sono riflessioni da tenere ben presenti, soprattutto considerando come molti studi dimostrino che vi siano differenze notevoli, dipendenti da clima e geografie, nello sviluppo, nella diffusione e nella selezione della flora batterica (si pensi solo alla varianza dei pH) e che, quindi, ogni vignaiolo dovrebbe muoversi in base alle proprie esperienze e problematiche e non secondo rigidi dettami ideologici.

lunedì 11 febbraio 2008

American movies

Due grandi film americani: al cinema ho visto Into the wild di Sean Penn; in DVD, invece, Reign over me di Mike Binder.
Il primo, forse fin troppo osannato da certa critica, è un film di immagini e visioni, con una fotografia meravigliosa. E' un film forse difficile da capire per chi non conosce o non ama l'america, i miti della frontiera, della libertà assoluta, del grande Nord, di un "West" interiore prima ancora che geografico. E' un film estremo, come la storia del protagonista, lungo, difficile per certi versi. Con una colonna sonora esaltante a firma Eddie Vedder. Un film in cui libertà si declina come solitudine e rifiuto della società, con una serie notevole di riferimenti letterari (Thoureau e London, su tutti), musicali (tutto il rock americano), cinematografici (in qualche modo Easy rider, Il mucchio selvaggio, Balla coi lupi).
Il secondo è un film basato, invece, sulla sceneggiatura e gli attori. Un grande Adam Sandler nel ruolo di un vedovo dell'11 settembre incapace di metabolizzare il dolore. Un ottimo Don Cheadle nel ruolo dell'amico, a sua volta in crisi. Un cameo pazzesco di Donald Sutherland. Il tutto a servizio di una storia coerente e bella che si svolge attraverso dialoghi riusciti e toccanti sullo sfondo di una New York affascinante e reale. Cigliegina sulla torta la musica: unico rifugio del protagonista per sfuggire al dolore della perdita, il film è segnato dal rock più classico, come il titolo stesso, un pezzo degli Who, lasciava presagire. Stupenda la scena dei due amici che jammano su Out in the street di Springsteen, così come la scena madre del racconto catartico della perdita che si dissolve in modo straziante su Drive all night, sempre da The River, che appare quasi riferimento epico e generazionale dell'America di oggi.

mercoledì 6 febbraio 2008

Austria, Italia e altre cosette.

Appena tornato da una breve vacanza in Austria, sul lago di Ossiach. Nonostante il cattivo tempo abbiamo apprezzato la Carinzia, i suoi paesaggi boschivi, i suoi laghi, le sue montagne. Nulla in confronto alle nostre bellezze italiche. Ma i sentieri nei boschi sono segnalati in modo incredibile, vi sono piste ciclabili ovunque, alberghi e attrattive turistiche sono a misura di bambino, pulizia e ordine regnano sovrane, il servizio è ovunque gentile, il rispetto per l'ambiente pare sacro. Insomma il turista, a differenza che da noi, ritrova un territorio integro e ben organizzato. Che non è poco. Un unico appunto: si fuma ovunque nei locali pubblici, ed è l'unico esempio di superiore civiltà italiana. Addirittura, nonostante fosse consentito, alcuni italiani sono usciti dall'albergo per fumare. Mi sono sentito orgoglioso.
Degustato un ottimo Gruner Veltliner Holzgasse 2006 dell'azienda Buchegger: al naso, su fondo nettamente minerale, spiccate note di lievito e crosta di pane e finissime sensazioni agrumate (cedro, lime) e di fiori bianchi; in bocca molto sapido, freschissimo, con esaltante acidità di mela verde e chiusura tostata di nocciola, di lunga persistenza.
Nel frattempo, fra saune, corse nei boschi e cambi di pannolini, ho letto un libro stupendo. Senior Service di Carlo Feltrinelli è la biografia del padre Giangiacomo, l'editore. E' una biografia approfondita, basata su ricerche d'archivio e ricostruzioni storiche, poiché Carlo aveva solo dieci anni quando il padre morì, nel 1972, ucciso dalla sua folle lotta per un mondo più giusto. Il fatto è che Giangiacomo Feltrinelli ha vissuto una vita tale e in un periodo tale della storia d'Italia che il libro risulta avvicente, profondo, carico di suggestioni. Specie nella parte che va dal primo dopoguerra ai primi anni sessanta emerge il ritratto di un paese dalla incredibile vivacità intellettuale e culturale. Di una politica fatta di grandi scontri ideologici ma anche di splendide storie quotidiane. Che stride fortemente con la realtà attuale, lasciando quello stesso amaro in bocca, per ciò che siamo stati e che non siamo più, che mi aveva lasciato un altro bellissimo libro, in qualche modo parallelo a questo, ovvero La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda.
Consoliamoci con l'Italia del pallone. Adoravo Donadoni da giocatore. Ma devo ammettere che non pensavo sarebbe riuscito a creare una Nazionale così bella da vedere, che gioca a memoria e non ha paura di attaccare. Piena finalmente di giovani che hanno una voglia pazza di spaccare le zolle del campo e non di vecchie glorie stanche pronte alla pensione. Mi aspetto un ottimo europeo in Svizzera e... Austria.

lunedì 28 gennaio 2008

Ci sono giorni...

...In cui tutto è semplicemente perfetto. La luce nitida del sole che sfiora le colline, l'aria fredda dell'inverno che ti spazza il viso, i vigneti addormentati in attesa della potatura. Allora ti senti leggero, ogni movimento pare lieve, e ti abbandoni alla potenza cristallina della natura. Conscio che fai il mestiere più bello del mondo, mentre poti quelle viti dormienti che fra un pò piangeranno e poi cacceranno tralci nuovi destinati a creare un nuovo frutto, un nuovo mosto, un nuovo vino. Un nuovo, diverso, complesso racconto di questa terra. Ogni potatura è un inizio, una nascita, una creazione.

sabato 26 gennaio 2008

Bye bye Prodi.

Sentimenti molto contrastanti si alternano dopo la caduta del governo Prodi. Chi mi conosce sa che non sono mai stato un sostenitore dell’ex Presidente del Consiglio, così come non sono mai stato un sostenitore de L’Ulivo o delle varie formule di Centrosinistra succedutesi in questi ultimi anni. Al tempo stesso, però, ero e sono convinto che questo fosse il miglior governo possibile in questo momento della nostra storia nazionale e che, in particolare, il ministro dell’economia fosse un ottimo tecnico. Non a caso era il ministro con la popolarità più bassa, secondo i sondaggi, a dimostrazione della scarsa consuetudine degli italiani con la buona economia politica.
E pure, nonostante alcune cose positive questo esecutivo le abbia fatte, la delusione per quello che non è riuscito a fare tende a dominare sopra ogni altra emozione. Non basta, quindi, la prospettiva di un ritorno della destra peggiore d’Europa al potere a smorzare le pessime sensazioni accumulatesi dopo mesi di riti, contrasti, compromessi, rinvii e omissioni, a cominciare dalla legge sul conflitto d’interessi e da quella sulle coppie di fatto.
Molte sono le ragioni della crisi che ha portato alla fine del secondo governo Prodi. Di fatto, è stato giustamente detto e ripetuto, il governo era già in crisi nella notte della vittoria. Di fatto, era apparso già in crisi durante la campagna elettorale, gettando al vento più di dieci punti di vantaggio sul centro-destra e tutto il dividendo incassato grazie a una fin troppo facile opposizione al tremendo governo Berlusconi.
La lezione da trarre da questa crisi, dunque, deve partire dalla analisi e dalla critica di un fatto che pareva, ai più, acquisito: che il centrosinistra, inteso nell’originaria formulazione di Ulivo, cioè l’unione di differenti culture politiche riformiste, cattoliche, laiche, socialiste, ambientaliste, fosse l’unico orizzonte possibile per la sinistra italiana. Quasi quindici anni dopo questa certezza viene meno in modo definitivo. Se nel 1998, infatti, fu parte della cosiddetta sinistra radicale a negare il sostegno esterno all’esecutivo Prodi, oggi sono quella parte dei “moderati” ingabbiati a forza in una coalizione di cui non condividevano fin dall’inizio valori e prospettive.
Ma non è solo questo. La formula del centrosinistra si conferma sempre più in crisi anche in quelle amministrazioni locali dove da molti anni governano, spesso in modo ininterrotto, giunte che vanno da Rifondazione sino all’Udeur. A parte il disastro clamoroso di Napoli e della Campania, arretramenti in fatto di voti e consenso, di cultura politica e di capacità di gestione del territorio avvengono dappertutto, dal nord, abbandonato da tempo completamente ai deliri della Lega e di Berlusconi, fino alle regioni rosse sempre più gestite secondo logiche di tipo corporativo, pseudo-clientelare, partitocratico.
La crisi, la degenerazione, la parabola discendente di questa idea di centrosinistra è legata da una parte alla incapacità di affrontare in modo innovativo le grandi sfide poste dalla globalizzazione e dall’era post-industriale; dall’altra da una lettura in qualche modo alterata della società italiana, per cui Berlusconi è stato elevato a unico “mostro”, da cui la forzata e per nulla scontata logica che di fronte al berlusconismo si dovesse necessariamente mettere insieme culture e pratiche molto differenti tra loro pur di impedirgli il governo; infine dal pensiero distorto, ma tipico di una certa sinistra leninista, che per cambiare le cose l’unica via sia “la presa del potere”, la possibilità di amministrare, di governare, nonostante tutto e nonostante tutti. Anche con Mastella e Dini, che furono ministri di Berlusconi, e che non hanno dubitato un secondo a far cadere un governo pur di salvare il salvabile, cioè qualche misera percentuale di voti che sarebbe stata spazzata via dal referendum o da una legge elettorale un po’ più seria di quella attuale. Con il mandato ben visibile delle gerarchie ecclesiastiche.
La costruzione de L’Ulivo, a suo tempo affascinante ed innovativa, così come quella del Partito Democratico hanno costretto la politica italiana in un bipolarismo distorto, inefficiente e spesso trasformista, con una operazione che, nel nome di generici e poco reali riferimenti a modernità e riformismo (rispetto a chi e a che cosa?), ha di fatto sottovalutato in modo clamoroso storia e stratificazione sociale di un paese che non è mai stato normale: a causa dell’importanza abnorme della Chiesa nel discorso politico, dell’esistenza di fortissime pressioni corporative, di una cultura economica largamente deficitaria, della contemporanea esistenza di spinte anti-stataliste e fortemente assistenzialiste, della presenza di una destra ben poco liberista e di una sinistra ben poco libertaria.
Soluzioni a questo punto del percorso ve ne sono poche a sinistra.
Non poteva essere, e non potrà essere, la legge elettorale a cambiare in un colpo l’antropologia dell’italiano medio, a spezzare i circoli viziosi creatisi durante tutti questi anni in cui le diverse anime della casta si sono confrontate col solo fine della propria sopravvivenza, garantendo libero sfogo di volta in volta alle proprie rispettive bande di furbetti, redditieri, imprenditori statalisti, finanzieri occulti, mafiosi camuffati, finti giornalisti, baroni, primari, nani, ballerine e subrettine.
Non lo può essere la società civile, malata almeno quanto lo Stato, caduta nelle bassezze di un qualunquismo e di un populismo che troppo spesso offuscano la ragione, e troppo frequentemente portata ad auto-assolversi a priori, quasi fosse per definizione un esempio di moralità pubblica. Quando è proprio una parte maggioritaria della società civile a vivere di raccomandazioni, evadere le tasse, implorare il potente di turno, assentarsi dal lavoro pubblico, consumare risorse e merci in modo inutile e dannoso, svalutare i beni comuni e l’ambiente.
Non lo potrà essere il Partito Democratico, così come è nato. Che anzi potrebbe costituire uno dei freni maggiori alla inevitabile dissoluzione del centrosinistra. Mentre ciò che servirebbe è proprio la certificazione della sua morte, in nome di una comprovata incomunicabilità di vedute, valori, politiche.
Fino a quando non si riconoscerà che in questo paese vivono almeno tre differenti culture politiche inconciliabili, quella socialista e comunista, quella di un onnivoro centro democristiano, e quella di una destra poco liberale e molto populista; fino a quando non si porrà al centro della questione politica, in modo trasversale, quella che Berlinguer aveva definito “la questione morale”; fino a quando ciascun cittadino di buona volontà non si impegnerà in prima persona, nell’ambito della propria cultura di riferimento, per innovare fortemente le classi dirigenti di questo paese; fino a quel giorno questo paese non avrà alcuna possibilità di eludere un declino lento ma inevitabile.
A sinistra tutto ciò significa porre, accanto alla questione morale, la questione della rottura con il centro, con i compromessi ad ogni costo, in nome del potere, con la paura dell’opposizione e del conflitto sociale, con l’attrattiva verso modelli di sinistra anglosassone che non appartengono alla storia di questo paese e, più in generale, alla storia delle sinistre europee. Ma significa anche rivisitare criticamente quella stessa storia, rompendo quel recinto ideologico nella quale una parte di essa pare ancora essere reclusa. Ricominciare a pensare, a sperimentare, a inseguire utopie, a negare dogmi e certezze, con l’assoluta convinzione che nulla sarà mai più come prima e che si deve navigare verso lidi nuovi, verso una nuova idea di sinistra e di socialismo che non sia, però, la rincorsa ai modelli liberisti del centro-destra. Tutto ciò può significare restare all’opposizione forse per molto tempo. Ma significa anche iniziare un viaggio per ritrovare se stessi, per ricostruire rapporti e relazioni sociali, per investire sul futuro, per lavorare dentro alle sempre più numerose contraddizioni del modello di sviluppo dominante. Concentrandosi non sulla crescita della ricchezza, né sulla sua redistribuzione, ma sul problema delle modalità della sua produzione e del suo consumo. Le ricerche, le teorie, i movimenti, gli intellettuali non mancano. Quello che serve è una nuova agenda che, assieme a protagonisti nuovi, riesca a costruire un percorso lucido, innovativo e coerente da proporre ai cittadini.

lunedì 14 gennaio 2008

Chablis, mon amour...

Aveva ragione Mario Soldati, quando paragonava i migliori Verdicchio ai vini di Chablis. Che eresia, sembrerebbe. E invece... Invece arriviamo in questo splendido paesino dove ogni cosa è al posto giusto, come in equilibrio con la propria storia, e dopo pochi assaggi capiamo che è proprio così. Che c'è una sorta di corrispondenza strana, nascosta, elettiva, un'affinità con certe sensazioni a me, a noi, famigliari. Una affinità fatta di acidità corrosive, troppo spesso dimenticate nei Verdicchio di nuova concezione; fatta di sale e minerale, di evoluzioni terrose, complesse, esaltanti.
Si parte con una cantina sociale che sarebbe un sogno dalle nostre parti, La chablisienne. Con vini puliti, dritti, fini, segnati da una tostatura che non è mai legno ma lievito, crosta di pane, mandorla e nocciola. Come il Prelude 2002 o La Sereine 2005. E poi il buonissimo Vielles Vignes 2002, finissimo, balsamico, quasi mentolato, dove la tostatura ha le note della nocciola (100% acciaio) e l'acidità conduce la bocca verso lidi di freschezza nordica. E ancora il premier cru Beauroy 2005, dove prevale la noce, dove la finezza prende le forme del fieno, e in bocca si allarga una cremosità non stancante. Poi, a salire, il premier cru L'homme mort 2005, decisamente una grande annata, da botte grande, fine, minerale, con accenni di agrume, nuovamente eleganti note balsamiche, sentori di mela cotogna. Etereo in bocca, leggero, equilibrato nella sua verticalità. Buonissimo. Note più dolenti per quanto concerne i vini più importanti, forse semplicemente ancora chiusi, scontrosi, adolescenti. Non ci è piaciuto il Grand crus Blanchot 2004 e nemmeno ci ha entusiasmato il Grand crus Grenouilles 2005, mentre il Grand crus Preuses 2001 si è aperto per noi su note di miele, mandorla, cedro, con una notevole tostatura, stavolta di legno, ma mai banale, e una acidità corrosiva e viva.
Assaggiamo e più assaggiamo più rafforziamo la nostra idea che Chablis sia un luogo dove lo Chardonnay è solo uno strumento al servizio del terroir, perché quasi mai sentiamo banane o ananassi o cocchi o vaniglie. Pochissimo si usa la barrique, a differenza della Cote d'or. Persino in aziende dall'impostazione "internazionale" come Albert Bichot, maison di media grandezza, con diverse cantine a coprire più denominazioni. Qui i vini base hanno un buonissimo rapporto qualità prezzo e una pulizia di esecuzione splendida e finissimi sentori floreali, di frutta fresca, di pera (il Petit chablis). Poi si fa sul serio, anche in fatto di prezzi. Col premier cru Vaucopin 2005 (10% di legno) ricco di sensazioni di erbe, fiori bianchi e pietra, con un ingresso in bocca morbido che si distende su una ottima e malica acidità per chiudersi su note di mandorla. Di nuovo lo spettro del Verdicchio. E si continua col Grand cru Le clos 2002: finezza allo stato liquido, fatta di cedro, fiori bianchi, pietra focaia. Gelsomino. Finissimo al naso, secco, asciutto, in bocca col classico finale tostato e una generale sensazione di ricchezza e cremosità e morbidezza dopo la deglutizione. Un grande. Infine il Grand cru Preuses 2002, dove predominano sentori più terziari, una evoluzione stupenda di terra umida, champignon, zolfo, muschio e cespugli aromatici. In bocca equilibratissimo, lungo, interminabile, con una tostatura da pane abbrustolito a prevalere sulla freschezza. Poco dopo ci attende il Domaine Oudin, vera sorpresa delle nostre degustazioni. Vignaiolo di razza, Oudin ha una cantina piccola ma pulitissima e che non manca di nulla. Vinifica solo in acciaio e ha i tratti del terroirista. Il suo Chablis 2006 sorprende immediatamente per note di idrocarburo, pesca bianca, mela acerba. Una acidità portentosa è bilanciata da una cremosità mirabile che ne fanno un esempio di stile e finezza. Al prezzo di 8 euro. Lo Chablis Le serres 2005, che è una cuveé rimasta sui lieviti un anno in più, appare all'inizio ridotto ma si apre immediatamente su note eleganti di cedro, limone, mela cotogna. E' minerale, lascia una bocca pulitissima. E' fragrante, lunghissimo nella ormai consueta chiusura tostata di mandorla e noce. Un bianco semplicemente superbo. Infine il premier cru Vaugirot 2004: un vino difficile, davvero chiuso, complesso. Sapidissimo, dritto, senza cedimenti morbidi, presenta note di funghi, tartufo, formaggio salato. Poi l'agrume, ma più scorze che frutto, e soprattutto limone.
Ed alla fine, che dire? Poche pippe, qui non si macera, non si copre di legni, non si fanno tagli strani. E ce ne andiamo di sera, in mezzo a un tramonto freddissimo, con la netta sensazione che Chablis sia davvero una delle Università del vino bianco.

lunedì 7 gennaio 2008

Il nuovo nato

Nur, che significa Luce in arabo ed è il secondo nome di mio figlio Giacomo, è ufficialmente in vendita. Alcuni amici e clienti già lo hanno assaggiato in anteprima a Vini di Vignaioli e a La Terra Trema e devo dire che i responsi sono stati lusinghieri.
Le uve provengono dalla sola vigna di contrada San Michele, la stessa de Gli Eremi. La vigna è condotta secondo il sistema guyot, con potatura corta e diradamento dei grappoli sino ad ottenere una resa per ettaro di circa 30 quintali (circa 25 Hl). La coltivazione secondo un rigido metodo biologico garantisce la massima espressione del terroir. Il vino verrà prodotto solo nelle annate in cui l'uva risulterà perfetta, soprattutto con riferimento alla buccia e alla maturazione fenolica. In questo senso il 2006 è stata la migliore annata che io ricordi nell'area dei Castelli di Jesi da quando ho iniziato a fare questo mestiere. Il vino proviene da una selezione di uve Trebbiano dorato, Malvasia toscana e Verdicchio vendemmiate in cassette in leggera surmaturazione. Il mosto fermenta insieme alle bucce in tini aperti, senza controllo di temperatura e con i propri lieviti, per circa una settimana. Dopo la svinatura la fermentazione termina in botti usate di rovere francese di piccola caratura per circa un anno. La vinificazione “in rosso” e la lunga permanenza sui lieviti apporta sentori evoluti di erbe, liquirizia, rabarbaro, sottobosco, funghi, miele. In bocca risulta morbido, caldo, con una sottile vena di tannino. La potenza alcolica viene equilibrata da una discreta acidità. Il prezzo sorgente sarà di 9 euro.

domenica 6 gennaio 2008

Obama e altro

L'Iowa, si sa, non conta granché. Ma un primo passo è stato compiuto. Credo che nessuno nel gruppo di Barack si faccia illusioni. Obama è un politico pragmatico e accorto, nonostante la giovane età, e sa che la strada è molto lunga, piena di insidie, e che la Storia non gioca certo a suo favore. Ma l'audacia della speranza può molto, per dirla col suo libro. E l'eventuale vittoria di Barack Obama alle primarie democratiche (non oso immaginare di più), sebbene ardua, è la cosa migliore che ciascuno di noi dovrebbe augurarsi per il 2008.
Poi vengo a sapere che Fabio Volo è lo scrittore più letto d'Italia. E che vuole un figlio, pur restando single. Ora, chi mi conosce sa che non sono propriamente un difensore della famiglia-borghese-cattolica. Ma che si possa volere un figlio restando single la trovo una delle affermazioni più schifosamente egoiste e irresponsabili che mi sia capitato di recente di ascoltare. Perlomeno la convivenza, cazzo. E chi ha un figlio sa di cosa sto parlando. Oltretutto mi sono volutamente fatto del male leggendo Un posto nel mondo, edito da Mondadori e acquistato senza farmi vedere in un Autogrill (con che faccia sarei andato dal mio libraio, infatti, a chiedere Fabio Volo?). Ora, il libro in sé io ci ho provato a trovarci dei pregi. Qualche bella frasetta, qua e là, c'é. Di quelle che strizzano l'occhio alle ragazzine. Ma è il libro di uno che è dieci anni che gli hanno detto di rappresentare la nostra generazione (quella nata negli anni settanta) e che non smette un attimo di provarci a farlo. Il fatto è che a me non mi rappresenta per un cazzo. E nemmeno a tutti i trentenni-sulla-via-dei-quaranta che conosco. E' un libro inutile e insipido. E pure è lo scrittore più letto d'Italia. Grazie Mondadori. Grazie Autogrill.

mercoledì 2 gennaio 2008

L'anno nuovo

Eccomi reduce dal consueto baccanale di fine anno, festeggiato con abbondanti libagioni in compagnia di amici amici e nonostante i molti virus in circolazione. Reduce, soprattutto, da un tour de force iniziato il 23 sera a Milano (Fedro ed io abbiamo finito col ritrovarci in Piazza Bologna alle tre e mezzo fra birre e salamelle, circondati da una città sempre più triste e vuota), continuato con pranzi e cene con famiglie più o meno allargate, proseguito con lunghe nottate musical/goliardiche e terminato l'uno mattina 2008 intorno all quattro e mezza. Ora, cosa ci spinga a tutto questo non l'ho mai capito fino in fondo. Ma ogni civiltà ha i propri riti e questo è uno dei nostri, dunque va bene così. Posso qui ricordare alcune delle cose che più mi son piaciute: il Montebianco della zia di Valeria (e relativo Sauternes 2003 non-ricordo-più-il produttore), i cappelletti in brodo di mia mamma, un ottimo Brunello di Montalcino Tenuta Caparzo 1986 dritto, asciutto, con sentori spiccati di cenere di tabacco e legno d'ebano, i classici peperoni della mia amica Marina, un coscio di agnello "asado", il mio brasato al Nocenzio, l'incredibile, vulcanico Pinot Nero Burlenberg 1999 di Marcel Deiss, e lo stupendo, salatissimo Champagne Brut Reserve non dosato di Raymond Boulard. Questo, ovviamente, oltre agli abbracci ed agli auguri delle persone che pù mi sono care. Detto questo, e in attesa di una stra-meritata vacanza, fra poco inizierò a programmare le potature. Ma un pensiero all'anno appena trascorso lo voglio fare. Prescindendo dalle felicità famigliari che sono mie e solo mie, voglio ricordare ciò che di buono è accaduto ai miei vini: la classifica stilata da Spirito di Vino che ha riconosciuto a Gli Eremi 2004 lo status di secondo miglior Verdicchio, la finale dei trebicchieri raggiunta dal Terre Silvate 2006, l'Etichetta assegnata dalla Guida al vino quotidiano sempre al Terre Silvate 2006. Ma soprattutto il giudizio e la soddisfazione dei miei clienti, quando mi chiamano o mi scrivono, per dirmi che hanno goduto. Perché per questo si fa il vino, per far godere la gente.
Concludo con i due dischi più belli del 2007 per il sottoscritto: Because of the times dei Kings of leon e Sky blue Sky dei Wilco. Diversissimi, ma entrambi dischi di grande rock. Il fatto che non sia l'unico a pensarlo dimostra che sono sempre più banale. Ma l'età è quella che è.

domenica 16 dicembre 2007

Ecco l'inverno

Questa è l'immagine con cui mi sono svegliato questa mattina. La Distesa sotto la neve è sempre molto affascinante, specie se non si ripetono nevicate storiche come quella del gennaio 2005. Ma l'immagine con cui chiuderò gli occhi stanotte sarà un'altra. Quella di capitan Maldini. Quando smetterà, fra poco, saremo tutti un pò più tristi e vecchi.


giovedì 13 dicembre 2007

Verso l'inverno


Giorni di pioggia, giorni sempre più freddi. Giorni di decomposizione, di ritorno alla terra, di forze discendenti. Ho sempre amato la fredda decadenza del tardo autunno, le giornate dalla luce scarsa ed evanescente, i primi freddi che poi non sono mai primi per davvero. Mi è sempre piaciuto l'odore di foglie bagnate, di terra umida, di sottobosco marcescente, di fuoco appena acceso, di cenere spenta, di legna affumicata.
In mezzo a tutto questo i vini nuovi fermentano ancora, lentissimamente, pericolosamente sul confine fra grandezza e perdizione. In mezzo a tutto questo In rainbows dei Radiohead è un disco contraddittorio, ma bellissimo nella parte finale, adattissimo alla stagione e a questi anni instabili. In mezzo a tutto questo c'è il Natale che arriva, inesorabile, noioso e sempre necessario a rinsaldare per un attimo appena comunità disperse, distratte, distrutte.

giovedì 6 dicembre 2007

Francia

Mancano ancora più di sei mesi agli Europei di calcio quando ci troveremo ancora di fronte i cugini francesi. Fino ad allora è possibile gridare "Vive la France!" bevendo i loro vini stupendi. D'altronde che siamo campioni del mondo non si discute. A pallone. Ma per quanto concerne i vini continuo a pensare che abbiamo ancora un pò di strada da fare, noi vignaioli italiani. Questione di terre ma anche di teste. Perché sui vitigni, non c'è storia; anche lì siamo campioni del mondo.
Sono tornato ancora una volta in quel di Beaune e Mersault, insieme alla solita compagnia di amici, ma orfani di Izio, sempre magico vice-segretario (in pochi sappiamo il significato recondito di questa carica onoraria).
In realtà stavolta la Cote d'or è stata solo un buon trampolino per conoscere realtà come lo Jura e Chablis, trovandosi più o meno a metà strada fra queste due regioni. Rimando ai prossimi giorni i commenti più precisi a vini e produttori. Oggi mi interessa soprattutto sottolineare come abbiamo assaggiato, con pochissime eccezioni, vini davvero superbi, anche in relazione al prezzo (certo scordiamoci i vini da 3 euro!). Vini con una identità spiccata e un eccezionale rapporto col territorio, sia che si fosse nella grande "tasting room" di una azienda da milioni di bottiglie, sia nello Chateau fico da centinaia di migliaia di bottiglie, sia nella grotta piena di muffe e ragnatele del piccolo vigneron. La sensazione, cioé, è che indipendentemente dalle dimensioni aziendali, queste regioni stiano resistendo in modo vigoroso e tangibile alla standardizzazione del gusto imposta negli ultimi anni, proseguendo sulla strada della tradizione.
In particolare Chablis, di cui conoscevo i vini ma non il territorio, è stata una rivelazione. Un luogo magico cui tornare in futuro. Un terroir fondamentale soprattutto per chi non si rassegna al dominio del "vino rosso" nell'immaginario collettivo. Abbiamo assaggiato vini davvero stupendi, dalla freschezza incredibile, dalla mineralità decisa, dalla vita lunghissima. Una qualità media impressionante, a fronte di prezzi molto elevati sui grand crus, ma decisamente alla portata per le denominazioni inferiori, specie nel confronto con certi bianchi di grido italiani.