L’agricoltura contadina è stata, da sempre, custode dei saperi e sapori della terra. Con l’avvento della società dei consumi, imperniata sull’industria e sullo sviluppo urbano, essa è rimasta un presidio fondamentale del territorio e del gusto, l’ultimo baluardo per la salvaguardia di antichi saperi, di tradizioni eno-gastronomiche, di varietà e specie locali, di beni collettivi, di territori e paesaggi agricoli.
Questo mondo, nonostante la dilagante retorica dei "prodotti tipici", è oggi fortemente attaccato da ogni parte e paga una profonda subalternità nei confronti della società urbanizzata.
In primo luogo, infatti, vi è un esproprio di valore che la distribuzione commerciale compie quotidianamente nei confronti del lavoro agricolo, grazie a consumatori oramai sempre più addomesticati dai messaggi del marketing.
In secondo luogo vi è il tentativo dell’agro-industria di modificare i prodotti stessi della terra, attraverso l’omologazione del gusto, la selezione e modificazione delle sementi e delle specie (fino agli OGM), la rottura del legame col territorio attraverso la negazione dell’origine e la preferenza per il concetto di "ultima trasformazione sostanziale".
Infine, come ultimo atto di questo accerchiamento, l’industria e lo Stato approfittano della dissoluzione delle comunità agricole per sferrare l’attacco al territorio in termini di sfruttamento dei suoli e devastazione ambientale a fini urbanistici, industriali e speculativi.
In Europa ogni tre minuti scompare un’azienda agricola, circa 600 ogni giorno, 250.000 ogni anno. Nel nostro Paese, i dati dell’ultimo censimento ISTAT, mostrano come siano in diminuzione il numero totale delle aziende a vantaggio delle dimensioni delle aziende superstiti. Si va sempre di più verso un’agricoltura industrializzata, con pochi addetti occupati e un enorme uso di mezzi tecnici e chimici, macchinari, energia; quindi enormemente più inquinante e dissipatrice di energia della tradizionale azienda contadina.
Oggi l’agricoltura industriale non produce per nutrire le popolazioni, ma per alimentare l’industria ed il commercio connesso. Il maggior profitto dell’industria agro-alimentare avviene nel processo di trasformazione, confezionamento e commercializzazione del prodotto.
Le quotazioni all’origine della frutta sono calate, nel 2005 rispetto al 2004, del 7,9%, mentre quelle di verdure ed ortaggi del 6,8%; complessivamente i listini dei prodotti agricoli sono scesi negli ultimi dodici mesi del 4%. In una regione ad agricoltura "ricca" come l’Emilia Romagna, si è calcolato che il reddito delle aziende agricole si è dimezzato negli ultimi 5 anni, ossia diminuisce del 10% l’anno. Per ogni euro di spesa in consumi alimentari, più della metà è assorbito dalla distribuzione finale.
In questo contesto si collocano le politiche di stampo corporativo e neo-liberista sviluppate dall’Unione Europea in questi ultimi anni. La legislazione europea in fatto di PAC, leggi igienico-sanitarie, certificazioni BIO, marchi e disciplinari di qualità, ha rafforzato le dinamiche di dissoluzione dell’organizzazione sociale contadina a vantaggio delle grandi industrie agro-alimentari (si ricorda che l’80% dei sussidi comunitari è andato al solo 20% delle aziende più grandi). Questo è avvenuto con il benestare di tutte le associazioni di categoria cui è interessato semplicemente che arrivassero finanziamenti da gestire, indipendentemente da ogni ragionamento sull’agricoltura di tipo sociale, culturale, ambientale.
Il risultato di queste dinamiche è oggi sotto gli occhi di tutti: i casi della mucca pazza e di Parmalat dimostrano che non sappiamo cosa mangiamo e che cosa ci sia dietro i bilanci delle grandi aziende; DOP, IGP, Presidi, marchi di qualità servono fondamentalmente alla vorace agro-industria ad occupare ogni pur piccola nicchia di mercato; l’omologazione dei gusti imposta dal grande commercio porta all’omologazione dei modi di produrre e delle varietà utilizzate; l’industrializzazione delle campagne ha creato un legame perverso con l’industria chimica producendo una incredibile perdita di fertilità dei suoli, oltre all’inquinamento dei terreni e delle acque; la proposta di riforma dell’Organizzazione Comune di Mercato, per quanto riguarda il settore vinicolo, sostanzialmente ha l’obiettivo di ridurre il vino a mera bevanda industriale, in nome della competizione (di prezzo) sui mercati globali.
Ogni realtà contadina vive oggi sulla sua pelle le contraddizioni di legislazioni fatte su misura per l'agro-industria: HACCP, tracciabilità, controlli per le DOC, certificazioni Bio, PAC, tutto quanto si tiene insieme per coalizzare le grandi industrie, raccogliere sussidi, creare problemi di natura burocratica, fiscale e sanitaria di ogni genere. Per quanto riguarda specificatamente il mondo del vino, ad esempio, la creazione dei Consorzi di tutela con compiti di controllo erga omnes (decreti attuativi della legge 164 del 1992) è l’ultimo esempio di questa politica perversa e corporativa. Consorzi di Tutela divenuti strumenti di coercizione in mano alle lobby dell’industria vinicola.
Vi sono una serie di rivendicazioni che vengono oggi dal mondo agricolo che coinvolgono il sistema dei prezzi e della distribuzione commerciale ma che si caricano di valenze sociali e culturali molto più vaste e che devono in qualche modo farsi resistenza. Tale resistenza implica un nuovo protagonismo contadino, oggi molto più attivo nei paesi del terzo mondo che in Europa.
Questo mondo, nonostante la dilagante retorica dei "prodotti tipici", è oggi fortemente attaccato da ogni parte e paga una profonda subalternità nei confronti della società urbanizzata.
In primo luogo, infatti, vi è un esproprio di valore che la distribuzione commerciale compie quotidianamente nei confronti del lavoro agricolo, grazie a consumatori oramai sempre più addomesticati dai messaggi del marketing.
In secondo luogo vi è il tentativo dell’agro-industria di modificare i prodotti stessi della terra, attraverso l’omologazione del gusto, la selezione e modificazione delle sementi e delle specie (fino agli OGM), la rottura del legame col territorio attraverso la negazione dell’origine e la preferenza per il concetto di "ultima trasformazione sostanziale".
Infine, come ultimo atto di questo accerchiamento, l’industria e lo Stato approfittano della dissoluzione delle comunità agricole per sferrare l’attacco al territorio in termini di sfruttamento dei suoli e devastazione ambientale a fini urbanistici, industriali e speculativi.
In Europa ogni tre minuti scompare un’azienda agricola, circa 600 ogni giorno, 250.000 ogni anno. Nel nostro Paese, i dati dell’ultimo censimento ISTAT, mostrano come siano in diminuzione il numero totale delle aziende a vantaggio delle dimensioni delle aziende superstiti. Si va sempre di più verso un’agricoltura industrializzata, con pochi addetti occupati e un enorme uso di mezzi tecnici e chimici, macchinari, energia; quindi enormemente più inquinante e dissipatrice di energia della tradizionale azienda contadina.
Oggi l’agricoltura industriale non produce per nutrire le popolazioni, ma per alimentare l’industria ed il commercio connesso. Il maggior profitto dell’industria agro-alimentare avviene nel processo di trasformazione, confezionamento e commercializzazione del prodotto.
Le quotazioni all’origine della frutta sono calate, nel 2005 rispetto al 2004, del 7,9%, mentre quelle di verdure ed ortaggi del 6,8%; complessivamente i listini dei prodotti agricoli sono scesi negli ultimi dodici mesi del 4%. In una regione ad agricoltura "ricca" come l’Emilia Romagna, si è calcolato che il reddito delle aziende agricole si è dimezzato negli ultimi 5 anni, ossia diminuisce del 10% l’anno. Per ogni euro di spesa in consumi alimentari, più della metà è assorbito dalla distribuzione finale.
In questo contesto si collocano le politiche di stampo corporativo e neo-liberista sviluppate dall’Unione Europea in questi ultimi anni. La legislazione europea in fatto di PAC, leggi igienico-sanitarie, certificazioni BIO, marchi e disciplinari di qualità, ha rafforzato le dinamiche di dissoluzione dell’organizzazione sociale contadina a vantaggio delle grandi industrie agro-alimentari (si ricorda che l’80% dei sussidi comunitari è andato al solo 20% delle aziende più grandi). Questo è avvenuto con il benestare di tutte le associazioni di categoria cui è interessato semplicemente che arrivassero finanziamenti da gestire, indipendentemente da ogni ragionamento sull’agricoltura di tipo sociale, culturale, ambientale.
Il risultato di queste dinamiche è oggi sotto gli occhi di tutti: i casi della mucca pazza e di Parmalat dimostrano che non sappiamo cosa mangiamo e che cosa ci sia dietro i bilanci delle grandi aziende; DOP, IGP, Presidi, marchi di qualità servono fondamentalmente alla vorace agro-industria ad occupare ogni pur piccola nicchia di mercato; l’omologazione dei gusti imposta dal grande commercio porta all’omologazione dei modi di produrre e delle varietà utilizzate; l’industrializzazione delle campagne ha creato un legame perverso con l’industria chimica producendo una incredibile perdita di fertilità dei suoli, oltre all’inquinamento dei terreni e delle acque; la proposta di riforma dell’Organizzazione Comune di Mercato, per quanto riguarda il settore vinicolo, sostanzialmente ha l’obiettivo di ridurre il vino a mera bevanda industriale, in nome della competizione (di prezzo) sui mercati globali.
Ogni realtà contadina vive oggi sulla sua pelle le contraddizioni di legislazioni fatte su misura per l'agro-industria: HACCP, tracciabilità, controlli per le DOC, certificazioni Bio, PAC, tutto quanto si tiene insieme per coalizzare le grandi industrie, raccogliere sussidi, creare problemi di natura burocratica, fiscale e sanitaria di ogni genere. Per quanto riguarda specificatamente il mondo del vino, ad esempio, la creazione dei Consorzi di tutela con compiti di controllo erga omnes (decreti attuativi della legge 164 del 1992) è l’ultimo esempio di questa politica perversa e corporativa. Consorzi di Tutela divenuti strumenti di coercizione in mano alle lobby dell’industria vinicola.
Vi sono una serie di rivendicazioni che vengono oggi dal mondo agricolo che coinvolgono il sistema dei prezzi e della distribuzione commerciale ma che si caricano di valenze sociali e culturali molto più vaste e che devono in qualche modo farsi resistenza. Tale resistenza implica un nuovo protagonismo contadino, oggi molto più attivo nei paesi del terzo mondo che in Europa.
In questi ultimi anni alcuni semi sono stati lanciati, ad esempio dal progetto Terra e Libertà/Critical Wine, dalla Associazione Contadinicritici o dal Foro Contadino. Ma anche dalle associazioni di produttori naturali o biologici, da gruppi di contadini impegnati per un’altra agricoltura, da progetti per la costruzione di filiere corte, dai numerosi gruppi di acquisto solidale nati in questi anni. Si tratta ora di tirare le fila, di riunire le istanze e le rivendicazioni intorno a una piattaforma condivisa.
Vi sono alcuni punti irrinunciabili: l’origine; l’autocertificazione; il prezzo sorgente; i mercati contadini, intesi come immediata realizzazione della “filiera corta”.
In primo luogo bisogna affermare con forza che i prodotti agro-alimentari non sono merci come le altre. Per questo non è possibile accettare la logica delle certificazioni di qualità applicate ai prodotti industriali ma, viceversa, va invocato il principio dell’origine, cioè del legame assoluto col territorio. Questo è il solo principio valido nell’identificare un prodotto agricolo poiché ne valorizza il territorio e le genti che vi abitano e che hanno contribuito alla evoluzione di una determinata qualità/specie.
In secondo luogo va ricostruito un rapporto diretto fra produttori e consumatori, un rapporto completamente sconvolto dalla logica dei “centri commerciali”: vanno proposti e creati Mercati Contadini autonomi ed auto-gestiti, ove non vi siano spazi fissi assegnati, ma dove ad ognuno sia consentito anche saltuariamente o stagionalmente proporre le proprie produzioni. Vanno incentivate tutte le forme possibili di distribuzione diretta, come i Gruppi di Acquisto Solidali o la produzione per famiglie su prenotazione.
In terzo luogo il rapporto fra produttori e consumatori oltre che diretto deve essere trasparente. Ma nessuna certificazione è più utile e responsabile di una auto-certificazione in cui venga dichiarato come si lavora la terra, quali sono i rapporti con il lavoro ed il capitale, come vengono trasformati i prodotti. Pensiamo a una bottiglia di vino: è sottoposta a una miriade di controlli ma nessun consumatore può davvero sapere, ad oggi, che cosa sia contenuto nel vino. L’auto-certificazione implica una assunzione di responsabilità. Ed obbliga i controllori a verificare il prodotto piuttosto che a controllare le carte e a moltiplicare la burocrazia.
Infine, il prezzo sorgente. O prezzo alla fonte. Il consumatore deve poter conoscere i prezzi medi cui l’agricoltore vende i propri prodotti. Immediatamente sarebbero visibili i ricarichi e l’estrazione del plusvalore da parte della filiera distributiva nei suoi passaggi. Il prezzo sorgente non è contro il mercato. E’ per un mercato più trasparente ed equo.
Su questi punti essenziali si gioca la partita per la costruzione dell’agricoltura del futuro: una agricoltura sana, naturale, sostenibile. Praticata da contadini che presidiano il territorio, ne difendono le specificità, ne custodiscono la storia e le tradizioni. Una agricoltura opposta da quella immaginata a Bruxelles o nelle stanze dell’attuale Ministero dell’Agricoltura.
Vi sono alcuni punti irrinunciabili: l’origine; l’autocertificazione; il prezzo sorgente; i mercati contadini, intesi come immediata realizzazione della “filiera corta”.
In primo luogo bisogna affermare con forza che i prodotti agro-alimentari non sono merci come le altre. Per questo non è possibile accettare la logica delle certificazioni di qualità applicate ai prodotti industriali ma, viceversa, va invocato il principio dell’origine, cioè del legame assoluto col territorio. Questo è il solo principio valido nell’identificare un prodotto agricolo poiché ne valorizza il territorio e le genti che vi abitano e che hanno contribuito alla evoluzione di una determinata qualità/specie.
In secondo luogo va ricostruito un rapporto diretto fra produttori e consumatori, un rapporto completamente sconvolto dalla logica dei “centri commerciali”: vanno proposti e creati Mercati Contadini autonomi ed auto-gestiti, ove non vi siano spazi fissi assegnati, ma dove ad ognuno sia consentito anche saltuariamente o stagionalmente proporre le proprie produzioni. Vanno incentivate tutte le forme possibili di distribuzione diretta, come i Gruppi di Acquisto Solidali o la produzione per famiglie su prenotazione.
In terzo luogo il rapporto fra produttori e consumatori oltre che diretto deve essere trasparente. Ma nessuna certificazione è più utile e responsabile di una auto-certificazione in cui venga dichiarato come si lavora la terra, quali sono i rapporti con il lavoro ed il capitale, come vengono trasformati i prodotti. Pensiamo a una bottiglia di vino: è sottoposta a una miriade di controlli ma nessun consumatore può davvero sapere, ad oggi, che cosa sia contenuto nel vino. L’auto-certificazione implica una assunzione di responsabilità. Ed obbliga i controllori a verificare il prodotto piuttosto che a controllare le carte e a moltiplicare la burocrazia.
Infine, il prezzo sorgente. O prezzo alla fonte. Il consumatore deve poter conoscere i prezzi medi cui l’agricoltore vende i propri prodotti. Immediatamente sarebbero visibili i ricarichi e l’estrazione del plusvalore da parte della filiera distributiva nei suoi passaggi. Il prezzo sorgente non è contro il mercato. E’ per un mercato più trasparente ed equo.
Su questi punti essenziali si gioca la partita per la costruzione dell’agricoltura del futuro: una agricoltura sana, naturale, sostenibile. Praticata da contadini che presidiano il territorio, ne difendono le specificità, ne custodiscono la storia e le tradizioni. Una agricoltura opposta da quella immaginata a Bruxelles o nelle stanze dell’attuale Ministero dell’Agricoltura.
2 commenti:
Buongiorno,lei scrive:''Nel nostro Paese, i dati dell’ultimo censimento ISTAT, mostrano come siano in diminuzione il numero totale delle aziende a vantaggio delle dimensioni delle aziende superstiti......Si va sempre di più verso un’agricoltura industrializzata, con pochi addetti occupati e un enorme uso di mezzi tecnici e chimici, macchinari, energia; quindi enormemente più inquinante e dissipatrice di energia della tradizionale azienda contadina''
Premetto che in famiglia abbiamo 50 e rotti ettari con 10 vitigni diversi impiantati.Penso che un po' di concentrazione faccia bene,per l'efficienza del mercato e soprattutto per le tasche dei poveri contadini che di sicuro da anni non guadagnano il giusto.Ma dire che un vigneto di 50 ettari(il nostro lo è,ma su 5 corpi distinti in 2 comuni non distanti tra loro)inquina piu' di 50 ettari singoli condotti da 50 vignaioli diversi mi pare arduo da dimostrare,se non altro per il numero dei trattori.E se fosse di 100 ettari il rendimento di scala sarebbe ancora maggiore.
Mio nonno,contadino veneto alla vecchia maniera,per i suoi 3,5 ettari ha 2 trattori e 2 rimorchi,noi per tutti i nostri 50 solo 4 trattori e 4 rimorchi.Dov'è lo spreco di energie e macchinari?
Stessa cosa per parecchie attrezzature di contorno.
A Valdobbiadene c'è chi ha il trattore per entita' inferiori all'ettaro,basta chiedere al bar del paese.
Io i contadini un po' li ho conosciuti,garantisco che tanti han per il trattore lo stesso amore che ha l'imprenditorotto per la Mercedes e280cdi.
E anche sull'uso di chimici credo che siamo inferiori noi,per unita' di superficie ovviamente.
Quanto agli occupati i nostri sono tutti in regola,a differenza dei vendemmiatori dei tanti piccoli agricoltori,i vouchers non hanno avuto un grande successo.
Purtroppo a questo mondo ci sono Cile Argentina Australia e altri che si son messi in testa di esportare vino,e con le loro enormi estensioni monovarietali ultra sponsorizzate ed efficienti noi possiamo solo adeguarci.
Saro' illiberale,ma per salvarsi servono sia i dazi che aziende di dimensioni minime efficienti.
Inoltre ho l'impressione che tutto questo surplus di vino italiano vada a vantaggio solo dei grossi imbottigliatori puri,tipo la F.lli Martini(100 milioni di bottiglie per 110 milioni di fatturato,e prodotti di basso livello di doc e igt che vanno dal Piemonte al Veneto alla Sicilia al Lazio all'Emilia)che vanno solo nella GDO all'estero a ''far fare bella figura all'Italia vinicola''.
Penso quindi che se si espianta un po' di EmiliaRomagna,Puglia,Sicilia e Veneto probabilmente si sta meglio tutti.
Cordiali saluti e auguri per il blog
necessita di verificare:)
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