Visto che il mio ultimo post "si è fatto sentire" e che a La Terra Trema si discute dei "Cosiddetti", posto un contributo che avevo scritto (con l'editing di A. Morichetti che ringrazio) per Intravino sette mesi fa e che pare "profetico" (non certo perché lo abbia scritto io bensì perché è la questione ad essere centrale). Di fatto la questione è:
1) Se la mettiamo solo sul piano delle sostanze che possono finire in un vino nel giro di qualche anno l'industria replicherà in laboratorio i vini "naturali" e ci sbatterà fuori dal mercato.
2) Se noi vignaioli continuiamo a dividerci e a fare percorsi differenti siamo più deboli.
3) Come diceva Gino: La terra, la terra, all'infinito la Terra.
Il vicolo cieco
Forse non tutti sanno che” sarebbe un inizio niente male. Sentite che bel titolo ha questa recente ricerca dell’Università di Sassari: “Individuazione di ceppi di Saccharomyces cerevisiae medio-basso produttori di etanolo” . Traduco in italiano lo scopo: isolare lieviti da vino che producano poco alcol. Curioso, no?Ricordo male io o fino a ieri l’altro la ricerca microbiologica faceva l’esatto contrario – cioé selezionare ceppi in grado di garantire una più elevata resa alcolica? Partiamo da qui per continuare la discussione iniziata con alcuni interessanti articoli di Intravino.
Leggendo tra le righe, la ricerca menzionata ci comunica qualcosa di importante. In ambito agronomico ed enologico si tende continuamente a sperimentare tecniche, tecnologie e prassi in grado di seguire il Mercato. Oggi il Mercato chiede vini più “leggeri”? Messaggio ricevuto, il “sistema-vino” si adegua. Come ieri si era adeguato ai vini-frutto. Purtroppo, ho la brutta sensazione che la discussione sui “vini naturali” stia prendendo la stessa piega. Oramai si parla apertamente di moda, le fiere ed i saloni alternativi riscuotono successo e i produttori di questa nicchia paiono risentire meno della crisi rispetto ai “convenzionali”. Si arriva ad ipotizzare un padiglione comune al prossimo Vinitaly.
Sarà mica che il percorso “naturale” sta finendo in un pericoloso vicolo cieco? Quando ci si relaziona al vino naturale adottando le medesime modalità con cui si era cavalcata l’onda modernista del vino-frutto, il rischio è serio e non possiamo negarlo. Quando la bottiglia di vino naturale diventa merce esattamente come fu il Supertuscan costruito in laboratorio con vitigni pompati, la deriva commerciale e mediatica è dietro l’angolo. Sono solo cambiate le parole d’ordine: il vino non deve più essere morbido, opulento e fruttoso bensì “sano”, genericamente “eco-compatibile” e magari “misterioso” o comunque bioqualcosa. Concordo con Porthos quando parla di implosione dell’avanguardia naturale.
Fare vino seguendo le (presunte) richieste del mercato significa negare l’essenza del movimento “naturale”, che sintetizzo in 3 punti: critica radicale al modo con cui oggi l’umanità si relaziona alla natura, visione totalmente alternativa dell’agricoltura, lotta ai processi socio-economici dominanti. Oggi è impossibile parlare di “vino naturale” senza affrontare i nodi legati al sistema industriale di produzione, accumulazione e commercio ma soprattutto senza un approccio organico – che partendo dal vignaiolo arriva fino al consumatore, inteso come co-produttore (termine figlio della riflessione di Terra e Libertà/Critical Wine). È altrettanto necessario contestualizzare vino, cibo e agricoltura in orizzonti socio-culturali irriducibili ad una certa idea di Mercato. Valutare i “vini naturali” solo in base a caratteristiche sensoriali è limitante e ingeneroso nei confronti di chi da anni lavora ad un’idea integralmente diversa del vino e, oserei dire, della vita stessa.
Stiamo assistendo a un fenomeno enorme, cioé al totale sovvertimento del paradigma agronomico-enologico cui si era approdati negli anni ‘80/’90. Questo grazie agli studi di Claude e Lydia Bourguignon e di Jules Chauvet, grazie ai testi classici della biodinamica, antichi e moderni (Rudolf Steiner, Ehrenfried E. Pfeiffer, Alex Podolinsky, Nicholas Joly), e alle prassi dei pionieri del vino naturale (Lapierre, Overnoy, Breton, Binner, ecc). E il fermento è tutt’altro che terminato.
In questo contesto è stato meno appariscente, ma non meno rilevante, il cambio di approccio in termini di vendita e commercializzazione. Si ricorre sempre meno a grandi distribuzioni, grandi agenzie di rappresentanza e catene commerciali, ma sempre di più al rapporto diretto col co-produttore (attraverso vendita diretta, fiere, gruppi di acquisto) o con piccoli operatori specializzati, locali ed esteri. Diventano centrali un approccio differente al settore agricolo e l’interazione tra vignaiolo – artigiano/artista – e consumatore finale. Nella bottiglia di vino naturale, così come in un’opera d’arte, si cercano magia e piacere estetico, materiale ed intellettuale, dove il bello e il buono divengono fenomeno culturale e presidio etico. Altro che merce. Altro che banale e brutale bene di consumo. Altro che status symbol.
Se tutto ciò è vero – e può benissimo non esserlo – apparirà chiaro quanto sia delicata e complessa la questione dell’eventuale partecipazione del “movimento dei vini naturali” al Vinitaly. Personalmente, non sono nemmeno contrario per principio e non rinnego la mia passata partecipazione. Credo però che una scelta simile possa avere un senso solo in quanto gesto politico di rottura rispetto alle problematiche odierne in agricoltura: la sovrapproduzione, denominazioni di origine, certificazioni, burocrazia, uso sfrenato di chimica e tecnologia, standardizzazione del gusto e via dicendo. Dubito che allo stadio attuale il movimento naturale abbia la forza di proporsi compatto con un’identità forte e determinata. Dubito inoltre che il Sistema-vino – rappresentato dal Vinitaly – abbia davvero interesse ad accogliere dentro al “palazzo” il dissenso e l’alternativa. Temo, invece, che le sirene del marketing e dell’industria stiano già lavorando per concentrarsi su nuove forme e nuove apparenze, tralasciando ancora una volta la sostanza.
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