giovedì 23 giugno 2011

Piccolo giochino irriverente

E' passato qualche giorno da quando la Commissione Assaggio che rilascia le certificazioni per le DOC ha bocciato un campione che avevo mandato in degustazione. Non è la prima volta. Non sarà l'ultima. Ho già ripetuto diverse volte certe considerazioni in merito al sistema delle denominazioni in Italia. A questo punto mi sento di proporre a chi verrà nei prossimi mesi a trovarmi in cantina o nelle fiere a cui parteciperò un piccolo gioco innocente: farò assaggiare il vino in questione, chiaramente senza dire prima di cosa si tratti, in modo da farsi un'idea precisa se siamo noi vignaioli che non sappiamo fare il vino o se siano le commissioni assaggio a non saperlo giudicare. Senza polemica, eh?!
Sulla questione ecco il pensiero illuminato di Sandro Sangiorgi (sull'ultima miniatura):


"La denominazione d’origine è ormai un contenitore vuoto?
Non è una novità che molti vini italiani stimati dagli enofili di mezzo mondo non rientrino in una denominazione di origine o, pur essendo in regola, vengano sottratti al disciplinare. Numerosi produttori preferiscono che sulle loro migliori bottiglie appaia la dizione “vino da tavola” o “vino da tavola a indicazione geografica tipica”, mentre altri, che credono ancora nel significato della denominazione, si vedono respingere i campioni dalle commissioni perché colpevoli di eccesso di originalità. Nella miniatura vorrei riflettere solo su quest’ultimo aspetto, visto che il rapporto tra denominazione di origine e fisionomia del vino è così articolato e complesso da meritare un saggio a sé stante.
È sempre più ampia la forbice tra la concezione e la percezione di territorialità delle commissioni d’assaggio e le sensazioni espresse da molti vini dotati di personalità, sia quelli realizzati con un metodo totalmente organic, sia quelli concepiti in modo convenzionale ma prodotti con cura naturale. È impressione diffusa che i giudici-degustatori emettano le proprie sentenze basandosi su parametri sempre più ristretti ed elementari. Tale approccio favorisce il lato pratico di chi coordina l’assegnazione delle denominazioni e deve sveltire le pratiche, poiché i disciplinari doc e docg crescono in proporzione ai vini che ne fanno richiesta e dunque aumenta il numero delle commissioni. Inoltre, le poche regole necessarie a una prima sfoltitura sono accessibili anche a chi non ha la vocazione all’assaggio comparato e degusta come un fiscalista. A rimetterci sono i vini meno immediati, quelli dal primo impatto silente e un poco oscuro, capaci però di trasformarsi e durare nel bicchiere, quelli dotati di un equilibrio dinamico e di una partecipazione gustativa graduale, coinvolgente e, per questi motivi, non canonica. Vittime di un modo unilaterale di considerare il vino che premia sensazioni stabili e rassicuranti e penalizza un effluvio imprevedibile e una sana emotività. Alcuni osservatori pensano che l’origine del danno perpetrato dalle commissioni d’assaggio nasca all’interno dei licei di Enotecnica e nelle facoltà di Agraria dove ci si specializza in Enologia. Il circolo vizioso è evidente. Attraverso quali vini si esercitano gli alunni nelle lezioni dedicate all’esame organolettico? Naturalmente con quelli “canonizzati” dalle commissioni d’assaggio. Per chi studia e pratica la scienza enologica la degustazione è uno strumento fondamentale, perché permette di leggere e comprendere il liquido odoroso al di là delle pur dettagliate risultanze chimiche. Alcuni studenti mi hanno confermato che, purtroppo, accade il contrario di quello che sarebbe corretto aspettarsi: sono i collaudati profili chimici a delineare la gerarchia qualitativa. Così, appena un vino non corrisponde al modello indicato – vedi, ad esempio, quando si avverte un’ossidazione inattesa o una volatile superiore alla media tecnicamente accettabile – viene considerato difettoso e, di conseguenza, da respingere. Magari era un esemplare virtuoso, dotato di una promettente complessità, dinamico e godibile da un palato attento. Eppure, viene autorizzata la fascetta a prodotti che sin dal colore non appaiono autentici – ci sarebbe da chiedersi se sono stati realizzati con le uve previste dal disciplinare – oppure a liquidi che finiranno in bottiglie vendute sullo scaffale del supermercato a un prezzo improbabile. È più facile valutare vini semplici o molto schematici perché non pongono dubbi, non suscitano riflessioni; più difficile cogliere la bellezza nelle sensazioni desuete".

9 commenti:

Carolina l'enologa ha detto...

mi è capitata la stessa roba per il prosecco 2010, la prima partita che ho imbottigliato a marzo. secondo loro al limite del limite del limite. sempre più mi chiedo se ha senso dichiararlo doc, o se forse mi conviene semplicemente declassarlo ad igt così non devo fare discussioni con chi degustando non capisce che non esistono solo i parametri numerici ma che il vino è altro. misteri delle commussioni caro Corrado.... carolina.

Gianpaolo Paglia ha detto...

Sulle Denominazioni in generale c'e' molto da dire, a partire dal fatto che parecchie sono inutili o persino illegali perche' non rivendicate, contribuendo cosi' ad aumentare il "rumore di fondo". Sulla mia in particolare, il Morellino, ho scritto un post la settimana scorsa chiamando il Consorzio ad assumere un ruolo diverso, ovvero che possa finalmente diventare il luogo di confronto e di elaborazione di quelli che devono essere i canoni del nostro vino [ http://www.poggioargentiera.com/2011/06/morellino-cambiare-si-puo-e-si-deve/ ]. Oggi ovviamente non avviene, essendo i Consorzi perlopiu' i luoghi dell'elaborazione della burocrazia del vino, se non dei piccoli centri di esercizio di potere.
Per quanto riguarda le commissioni di assaggio, chi non ha avuto problemi e non ha constatato quello che dici? io credo che si dovrebbero eliminare, facendo solo rimanere l'analisi chimico-fisica, oggi sempre piu' capace di discriminare eventuali furbate. Solo cosi' si potrebbe avere dei parametri oggettivi, e non essere alla merce' di degustatori non sempre all'altezza.

giovanni scarfone ha detto...

Caro Corrado, e se tutti noi, piccoli vignaioli che cerchiamo di fare il nostro lavoro in maniera seria, senza scorciatoie, magari anche a discapito del numero di bottiglie prodotte, uscissimo dalle rispettive doc? ci penso e ripenso da tempo...

Paola Lantieri ha detto...

Credo che l'unicita' di un vino fatta nel rispetto del vino stesso edella terra che lo produce sia lontana mille miglia dai consorzi e dalle commissioni di degustazione delle Doc, il cui unico compito sembra essere quello di decidere se quel vino sia o no assimilabile agli altri della stessa DOC. Per quanto riguarda il passaggio ad IGT, e' vero, noi continueremmo a fare lo stesso vino, ma sarebbe poi possibile -faccio il mio esempio- proporlo allo stesso prezzo della DOC o quasi, visto che di Malvasia delle LIpari (soi-disant) ce ne sono a 7 euro/litro?
Io poi dovrei togliere ogni accenno a Vulcano, il che in questo momento in cui sono l'unica dell'isola a imbottigliare, non e' proprio il massimo.
La verita' e' che tutto l'insieme dei consorzi, delle Doc e dei suoi disciplinari dovrebbe essere totalmente rivista, specialmente qui da noi in Sicilia dove molte DOC hanno un'apparenza lobbystica, almeno a guardarle sulla carta geografica.

RoVino ha detto...

Sottoscrivo tutto quello che, con la consueta saggezza, Sandro ha espresso su questo tema.
I disciplinari sembrano costituiti da ragionieri, con formule generalizzate che hanno sempre meno senso. Come si fa a rifiutare un vino solo perché ha un colore più scuro del previsto? Eppure accade, mentre allo stesso tempo si allarga la possibilità di utilizzo di uve presenti in tutta una regione. Che senso ha allora stabilire come deve essere un vino organoletticamente, dal momento che ciascun produttore può differenziarne l'uvaggio in modo significativo?
In realtà la denominazione di origine (che si tratti di vino o cibo) dovrebbe garantire, oltre ad una qualità superiore, una chiara appartenenza ad un territorio vocato, rese nettamente più basse, l'utilizzo di uve tipiche della zona (salvo in zone nuove che non hanno una storia, ma in quel caso la doc dovrebbe arrivare dopo parecchi decenni, sempre se rispondesse qualitaativamente ai canoni previsti). Le caratteristiche organolettiche, invece, lasciano il tempo che trovano, perché hanno poco senso, c'è una netta differenza fra un vino filtrato e uno no, tra uno fermentato con le bucce e uno no, tra uno che ha fatto legno e uno no ecc.
E poi stiamo per raggiungere le 350 DOC e presto supereremo le 60 DOCG, molte sono repliche di altre, molte non hanno mai prodotto un vino, molte sono nate per puro fine commerciale.
Se vogliamo affossare definitivamente il vino italiano, questa è la strada giusta.

RoVino ha detto...

@Paola Lantieri
temo che il problema delle lobby non tocchi solo la Sicilia, ma quasi l'intero sistema. In ogni regione si trovano più o meno gli stessi problemi e le stesse difficoltà. Ma mentre chi fa Barolo e Barbera, se poi fa un vino da tavola (non ci sono le igt in Piemonte) per lui è un problema relativo, per una produttrice come te che ha un solo vino, il problema è totalmente diverso. Uscire dalla Doc Malvasia delle Lipari senza danno è quasi impossibile, almeno per ora. Negli anni, raggiunta notorietà e una clientela mista, allora si può anche ipotizzare di uscire dalla Doc senza dover scendere di prezzo.

RoVino ha detto...

Corrado,
da un certo punto di vista il tuo potrebbe anche essere un motivo di orgoglio, se non fosse che una bocciatura significa un sacco di problemi.
Ne sa qualcosa Susanna Crociani, che per anni si è vista bocciare il suo Nobile, o addirittura quel "mostro sacro" di Gianfranco Soldera...

Michele ha detto...

Credo che un po' tutte le persone interessate e appassionate riescano a cogliere, in parte o in toto, la distanza che c'è tra il livello qualitativo che le denominazioni vorrebbero porre e il livello qualitativo che, invece, il consumatore cerca. L'impressione è che le commissioni di degustazione e i disciplinari di produzione, compresi quelli delle nuove DOC e DOCG, siano rimasti fermi ad un approccio commerciale, come se il nostro vino, italiano in senso generale intendo, debba avere i requisiti tecnici idonei ad essere venduto. Punto. Come se il posizionamento dell'Italia nel mercato del vino fosse il solo elemento qualificante ed identificante della qualità della nostra produzione. Non si trova, cioè, un riscontro a ciò che vorremmo fosse la Qualità. E a questa parola io associo molti significati: diversità, territorialità, interpretazione, bevibilità, emozione. E non credo che ciò che sto dicendo sia un qualcosa di nuovo. Ci stiamo riappropriando un po' alla volta della nostra identità latente, ricoperta da anni di vini ruffiani, color carta velina o tinta pece. Non sono "contro" a prescindere, ma voglio poter bere un vino dal colore "carta velina" se quella è la sua indole, se quello è il suo essere vino di quel determinato territorio, non perchè me lo ha imposto la legge di mercato, una guida o un disciplinare che è stato fatto a tavolino solo per dare il contento al politico di turno. Sono d'accordo quando si dice che DOC e DOCG è spesso (e sempre più) sinonimo di omologazione. E' pur vero che affinchè produttori come Corrado e Giovanni, che ho il piacere di conoscere, o Paola e Carolina, possano continuare a trasmettere il loro credo nella bottiglia che producono, questa deve essere venduta. A persone come me e alle molte altre che sicuramente apprezzano o potrebbero apprezzare.
Decidere di uscire dalla denominazione di appartenenza è un segnale molto forte che deve, a mio parere, essere seguito da attività di formazione e cultura (o formazione della cultura)altrettanto forti, attività fatte dagli stessi produttori che, in prima battuta sono gli unici a saper trasmettere e raccontare cosa c'è dietro il bicchiere i vino che si va ad assaggiare. E' necessario, a mio parere, un impegno, economico, di tempo e di energia, che forse non tutti possono permettersi. Tornando al quesito iniziale di Corrado, credo che le commissioni siano sempre più incompetenti nel giudicare i vini. Spesso, quasi sempre, sono formate dagli stessi AISmen che poi insegnano ai corsi AIS ciò che è un vino buono o cattivo (secondo loro). Le persone che escono da questi corsi - sto frequentando il 3° e ultimo livello per avere ben chiaro in testa il manifesto di quello che è per me il "nemico" da combattere - se non dispongono di un po' di esperienza, di molta curiosità, saranno destinate a diventare discepoli e portavoce di una identità enologica piatta. Ciò che è importante per me, per meglio capire o far capire la diversità, è la comparazione. Le degustazioni alla cieca nascondono sempre situazioni divertenti e, a volte o spesso, imbarazzanti... ;-)

Corrado Dottori ha detto...

Sono contento che siano emersi tutti questi contributi. Per quanto mi riguarda ripeto la stessa cosa da anni: le DOC non dovrebbero certificare la "qualità" ma "l'origine". Dunque sì a tutto ciò che lega il prodotto ad un territorio ma basta con disciplinari, analisi organolettiche, ecc. Ognuno faccia il vino come più gli piace e giudichi poi il consumatore.