La vendemmia 2009 si caratterizzerà per un fatto sopra tutti: il crollo delle quotazioni delle uve. Questo fatto certifica in modo inequivocabile la gravissima crisi del settore vinicolo.
Questo post su Esalazioni etiliche, ed alcuni commenti a
questo post di Franco Ziliani possono aiutare a capire la situazione. Prezzi in calo anche del 50%. Situazione che in realtà conosco da tempo perché denunciatami da diversi amici produttori e confermata, sebbene in modo meno drammatico, anche nei Castelli di Jesi.
La crisi, dapprima nascosta, poi presentata come crisi di crescita, oggi apparentemente devastante, è contemporaneamente una crisi di sovraproduzione (rispetto a consumi interni in calo e ad un export in crisi) ed il risultato di una potente bolla speculativa nel settore.
Negli anni del boom il settore ha attirato capitali e capitani d'industria, grandi competenze e professionalità ma anche nani e ballerine, cani e porci. Evito di entrare nello specifico e di raccontare come il mondo del vino si è evoluto negli anni, nel bene e nel male. E' ormai risaputo.
Ciò che, però, è meno risaputo è il ruolo del marketing in questa situazione, in questo contesto, in questa storia. Questo aspetto mi ha visto discutere animatamente su
vinoalvino con una serie di suoi commentatori più o meno abituali. C'è una idea diffusa, infatti, che costoro apparentemente sostengono, che reputa che dalla crisi si debba uscire con una maggiore attenzione al marketing, ai processi commerciali, alla immagine ed alla promozione dei prodotti. Lo ha detto chiaramente Diego Planeta: si deve investire meno sulla produzione e più sulla vendita.
E' una idea che contesto. Credo che questa impostazione, infatti, c'entri molto con la crisi attuale, sia nel senso che in questi anni si è fatto del cattivo o sbagliato marketing sia che se ne è fatto troppo in generale, a discapito della qualità media dei nostri vini.
Va ricordato che il marketing, che come disciplina autonoma nasce negli anni 50/60 sulla scorta del consumo di massa, si afferma in modo definitivo quando le condizioni strutturali dell’economia iniziano a caratterizzarsi per un costante surplus di capacità produttiva. Questo non accade per caso ma è la combinazione da una parte della evoluzione del capitalismo in senso consumistico, dall’altra di precise scelte di politica economica.
Perlomeno dai primi anni ottanta siamo vissuti in un mainstream economico che ha fatto della “economia dell’offerta” il suo caposaldo. Dunque: bassa inflazione, politica monetaria espansiva in grado di produrre la liquidità necessaria a produrre sempre di più, liberalizzazione dei mercati, ecc. Siamo vissuti in un mondo in cui non era importante tanto il potere di acquisto – i salari ma non solo – delle famiglie, quanto la capacità del sistema di assorbire il debito con cui venivano finanziati consumi sempre più inutili, prodotti sempre meno innovativi. Ma perché, ci si chiederà, la gente ha continuato a consumare? Qui è intervenuto anche il marketing.
L’economia dell’offerta ed il neoliberismo reputano che i prezzi dipendano esclusivamente dall’equilibrio fra domanda ed offerta. In un contesto di eccesso di capacità produttiva ciò implica un ovvio aumento di competitività dei mercati ed un generale deprezzamento dei valori: servivano pertanto politiche di sostegno dei consumi privati. Ma poiché i salari negli ultimi tre decenni sono indubbiamente scesi in termini reali, questo poteva avvenire solo tramite il ricorso all’indebitamento (mutui, credito al consumo, erosione progressiva dei tassi di risparmio, ecc.) e tramite investimenti nella “percezione di valore” da parte dei consumatori. Non nel valore intrinseco. Non nel valore-lavoro. Non in qualità. Bensì in immagine, in comunicazione, in politica commerciale.
Il marketing, però, è oggi un processo pro-attivo, assolutamente non neutrale, che intende non solo mettersi in relazione col mercato, ma tende anche e sempre più ad agire attivamente su di esso. Fare attività di marketing non significa solo fare un’analisi del mercato e della propria identità commerciale su quel contesto, ma significa molto di più: ovvero agire per influenzare il mercato, modificarlo, piegarlo ai propri interessi con l’obiettivo prioritario di raggiungere una maggiore competitività; significa, quindi, non solo soddisfare dei bisogni esistenti ma agire per produrli, riprodurli, forgiarli; significa sempre più mettere in atto una serie di strategie ben precise - che si sono fatte, appunto disciplina, specifico settore della scienza economica - (pricing, brand management, comunicazione, pubblicità, creazione ad arte di bolle, ecc.). E se tutto questo è vero, ciò significa semplicemente una cosa: che le aziende devono investire ingenti risorse per attuare queste strategie. In un contesto di riduzione dei costi e di grande competizione ciò è possibile solo distogliendo tali risorse da altre voci di bilancio: per esempio i costi vivi produzione o gli investimenti in ricerca.
Tutto ciò è perfettamente coerente con quanto accaduto nel settore del vino e, da questo punto di vista, il caso della perversa “bolla del vino” creata ad arte negli anni novanta dall’interazione fra guide-giornalisti-esperti di pubbliche relazioni-nuove aziende rampanti dal marketing aggressivo, potrebbe essere un caso-studio per un corso di marketing moderno.
Gran parte della crisi del vino deriva, quindi, anche dal percorso contrario che è stato intrapreso sull'onda dell'entusiasmo: produrre vini a partire dal mercato e non produrre vini veri e buoni per poi concorrere sul mercato con la forza indiscutibile della propria qualità. I prezzi delle uve stanno crollando e questo si rifletterà certamente più sugli agricoltori che sugli industriali. Esattamente come dalle fabbriche verrà espulsa forza lavoro per tentare un riequilibrio della capacità produttiva, così la volontà è quella di espellere dalle campagne gli ultimi contadini e le piccolissime aziende, con conseguenti espianti dei vigneti meno meccanizzabili, produttivi, commercialmente interessanti. Nel frattempo i massicci investimenti sulla promozione dei grandi produttori, grazie alle risorse liberate dall'abbassamento dei costi di produzione, serviranno per aggredire i "nuovi mercati emergenti": gente che di vino ne capisce, Cina, India, Russia, ecc. E' questa la strada per il futuro del vino italiano?
La crisi generale dell'economia, che non è solo crisi finanziaria come molti vogliono far credere, non ammette soluzioni semplicistiche e banali. Non ammette l’assunzione di facili ricette date per scontate. Richiede coraggio, invece, nell’ammettere di aver sbagliato strada, di essersi spinti troppo oltre. Vale per il settore finanziario e vale per il settore vinicolo. La riflessione sul marketing, in questo senso, dovrebbe rientrare in una riflessione più generale sulla nostra economia e sulla nostra società.