mercoledì 5 agosto 2020

Nuovi mondi e vecchie politiche

Faccio politica da quando mi ricordo.
Già 9 o 10 anni, nei prati del Parco Ravizza a Milano, quando si giocavano infinite partite a pallone, mi mettevo in mezzo ai litiganti - c'era sempre qualcuno che la voleva risolvere a botte - per tentare un approccio assembleare, democratico e pacifista ai problemi generati da un calcio di rigore o da una punizione. 
Negli anni della giovinezza ho attraversato la Milano da bere, la caduta del muro di Berlino, la prima guerra del golfo, Mani pulite, l'avvento di Berlusconi, la globalizzazione sempre con la convinzione che la Politica fosse una azione necessaria e in qualche modo anche sufficiente all'organizzazione della vita umana sulla Terra (e forse anche nello Spazio). Ho re-incontrato Valeria, per poi non lasciarla più, durante una campagna elettorale. Insieme abbiamo creato La Distesa che è in qualche modo un luogo estremamente intriso di Politica. Ci siamo candidati in varie elezioni, abbiamo frequentato circoli e sezioni, abbiamo discusso e litigato più o meno con tutto l'arco costituzionale dei partiti locali. Non abbiamo mai preso una tessera: io - figuriamoci - sono ancora l'anarchico che ero a diciassette anni, e Vale la comunista eretica espulsa dalla federazione dei giovani comunisti... Insomma un mezzo disastro...
La nostra generazione ha prodotto mostri come Matteo Renzi e Matteo Salvini.
Il che basterebbe a negare ai 40/50enni di oggi il diritto a fare Politica. 
La realtà è che si avvicinano le elezioni regionali nelle Marche - ma non solo - e molto semplicemente monta la totale disperazione sul "che fare?".
Siamo cresciuti con la narrazione del "meno-peggio", del "voto-utile", del "sennò-vince-tizio". Una storia figlia della fine delle ideologie e che ha radicalmente svuotato di contenuti ogni contenitore della ormai presunta sinistra, sia quella di lotta che quella di governo. Qualche volta si è votato, qualche volta no. Qualche volta più convintamente, qualche volta meno. Ma sempre con la certezza di essere minoranza di una minoranza, senza alcuna reale capacità di incisione sulla tela della storia. Piccola o grande che fosse.
Con gli amici dei centri sociali tante volte ci siamo amichevolmente scontrati sulla necessità - o meno - di un confronto istituzionale, di una "politica politicante" e non solo conflittuale, di una qualche forma organizzata di "rappresentanza". 
La sensazione sempre più netta, più cogente, più dolorosa, è che il quadro odierno (che sì! È anche figlio di COVID ma è soprattutto il frutto di una dinamica storica che viene da lontano) sia del tutto mutato. 
Ci troviamo di fronte a mondi totalmente nuovi e sconosciuti e la sensazione è quella di affrontarli, viverli, utilizzando strumenti vecchi e superati. 
Come se navigassimo in Internet oggi ma con la connessione di venti anni fa.
Come se affrontassimo un esercito perfettamente equipaggiato con archi e frecce.
Il dibattito internazionale sui Fondi Europei, il dibattito nazionale (ma anche globale) sull'immigrazione, la reazione internazionale alla Pandemia... Tutto appare ridicolo, fuori luogo, stonato.
Abbiamo istituzioni e regole pensate in un novecento che non esiste più. Che è stato semplicemente spazzato via. A partire dal feticcio "Stato-Nazione".
Ci troviamo a parlare di liste, listini e listarelle per una Regione che non ha ancora minimamente superato i problemi della crisi 2008/2012, che non ha saputo affrontare il terremoto, che ha fatto fallire attività produttive e aeroporti, che ha tagliato la sanità in lungo e in largo salvo poi chiedere fondi per aprire un ospedale COVID da dodici milioni di euro rimasto vuoto, che non ha alcun tipo di visione per il futuro che non sia la Sagra del Prodotto Tipico di 'staminchia.
Sono oramai trent'anni che la politica non è altro che l'affannato tentativo di gestire vecchi centri di potere - di destra e di sinistra - nel tentativo di mantenere un instabile consenso elettorale. Un consenso il cui unico fine è la gestione delle infinite emergenze cui gli amministratori di ogni livello sono tenuti a rispondere. La questione della "casta" si è risolta semplicemente nel tentativo di sostituzione di ceti politici ed il populismo altro non è se non il cavallo di Troia di chi vuole affrontare il tema della globalizzazione attraverso la costruzione di nuovi rifugi indentitari. Ci siamo già passati e non è finita bene.          
Per questo ci sembra assurdo parlare di candidature, alleanze, accordi, dialoghi col territorio, e tutto l'armamentario di una retorica politichese fuori tempo massimo. Ci sono dinamiche là fuori che stanno sgretolando il nostro vecchio mondo e l'unica risposta sensata sarebbe quella di una rinnovata carica utopista. Perché quando la distanza tra istituzioni e mondo reale si fa incolmabile, quello è il momento che precede le rivoluzioni.

lunedì 6 aprile 2020

The past is finished, the future is unknown


Io non riesco ad odiarlo questo Virus.
Dopo un mese di quarantena questo è l'unico pensiero che mi viene.
Sarà che la nostra è una quarantena dorata, privilegiata. Come agricoltori abbiamo spazi e possibilità che altri si possono solo sognare in questo momento.
Eppure non credo sia questo il punto.
Non riesco a odiare questo virus perché non è un "nemico" e perché non siamo in "guerra". Certo, lo dobbiamo isolare, ne dobbiamo mitigare gli effetti, lo dovremo mettere in un angolo e "sconfiggere" come l'umanità ha fatto con altri patogeni, alcuni ben più gravi, altri meno. Ma il fatto è che si tratta di una forma di vita terrestre e naturale che, in quanto tale, ci mette di fronte a quel che siamo come umanità, come specie, come abitanti della Terra. Non è una guerra. Si chiama evoluzione. Ogni forma di vita compete per trovare il suo posto in questo meraviglioso pianeta. Nel fare questo evolve, muta, trova soluzioni e antidoti. Quel che abbiamo chiamato Scienza non è un'arma in una guerra. È una risposta. Che la nostra intelligenza di specie ha elaborato per consentirci di adattarci e di evolvere come comunità sociale.
Avremmo potuto, ad esempio, lasciar perdere e far sì che la pandemia seguisse il suo corso.
Sappiamo che il virus per una vastissima parte della popolazione produce effetti "leggeri", alcuni di noi sono addirittura "asintomatici". Eppure abbiamo bloccato le nostre economie e cambiato i nostri stili di vita in tutto il mondo per affrontare il virus. Miliardi di persone sono in quarantena.
Perché?
Molto semplicemente perché la gran parte degli esseri umani, una netta maggioranza, ritiene che la nostra umanità consista proprio nel non abbandonare i più deboli: gli anziani, i malati, i disabili, gli immuno-depressi e così via. Si tratta, in definitiva, di una scelta morale. Che ci definisce in quanto uomini indipendentemente da qualsiasi appartenenza identitaria: etnica, nazionale o religiosa.
In questa scelta siamo cioè tutti meticci e a-polidi. Sarà forse per questo che i più titubanti, i più restii alla quarantena - va sottolineato e andrà ricordato ai posteri! - sono stati i rappresentanti di una certa destra populista reazionaria e anti-umanista (i Bolsonaro, i Johnson, i Trump...) oltre ai rappresentanti di certi potentati industriali.
Dunque non posso odiare un patogeno che per la prima volta da decenni ci costringe ad ammettere che siamo ancora "uomini" e che l'economia è solo un mezzo, uno strumento, e non il fine ultimo della nostra azione, del nostro senso in quanto abitanti del Pianeta Terra.
La realtà è che gli esseri umani erano abituati fino a poco tempo fa a convivere con emergenze come questa. Si moriva presto. Si viveva male. La grande maggioranza degli esseri umani viveva in luoghi malsani, con poche risorse e nessuna comodità. Quel che chiamiamo "benessere" è una conquista recentissima se pensiamo ai tempi della Storia e, peraltro, ancora oggi una conquista diffusa in modo largamente diseguale.
Quel che abbiamo raggiunto lo dobbiamo a un mix esplosivo di conoscenza scientifica, organizzazione sociale e potenza economica. La globalizzazione degli ultimi decenni ha portato al dominio incontrastato della nostra specie sul pianeta. In qualche modo è stato l'apice della nostra evoluzione. Ci siamo sentiti invincibili.
Nel giro di un solo mese è cambiato tutto. Un microscopico essere sta rivelando, invece, tutte le nostre fragilità. Gli scenari che la questione del "cambiamento climatico" ci stava prospettando come imminenti - ma spalmati su un orizzonte di qualche decennio - si sono manifestati all'istante con una potenza di fuoco deflagrante.
Sono muto e incapace di riflessioni coerenti da settimane.
Quando ho finito il tour di presentazione di "Come vignaioli alla fine dell'estate" proprio in quel momento esplodevano i primi casi in Lombardia e Veneto. In pratica quel libro, che parla di estinzione di massa, decrescita e natura ibrida, è stato di colpo attualizzato da una realtà che è esplosa a velocità folle.
Ecco, io non lo so se andrà tutto bene.
Leggo decine di articoli su come sarà il mondo dopo il Coronavirus. Su come sarà l'economia, su come cambierà la politica, su come muteranno le nostre abitudini. E vedo un sacco di interventi sul "nostro" mondo, quello dell'enogastronomia e dell'agricoltura. Ristoranti che non riapriranno, distributori e importatori che falliranno, aziende vinicole che faranno fatica a stare in piedi.
Leggo, ascolto, rifletto. Ma resto muto.
Il mondo di prima è finito, dicono. Ma come sarà quello futuro nessuno può saperlo con certezza. E forse è proprio in questo assurdo e dilatato presente che può celarsi una strada: nei momenti di svolta le nostre scelte valgono doppio. Quel mondo che avevamo in mente e che ci sembrava impossibile, divorato dal Pensiero Unico, diventa una possibilità concreta e non solo utopistica.
Qualche volta penso che La Distesa potrebbe anche non esistere più, perlomeno nella sua forma attuale. Poi, subito dopo, penso: e chissenefrega. Se siamo custodi di un pezzo di t/Terra questo prescinde dall'essere una "azienda". Le nostre scelte del passato non sono state fatte in chiave economica. Ci adatteremo. Resistenza Naturale significa innanzitutto adattamento. Cambiare per continuare a fare parte della rete della vita, dell'ecosistema.
Non sappiamo ancora come farlo ma potrebbe anche rivelarsi un nuovo inizio.
E quindi Peace Love, Soul. And resistance!

lunedì 27 gennaio 2020

Cupramontana, di nuovo capitale

Uno dei regali più belli per il ventesimo anniversario de La Distesa è certamente quel che sta succedendo a Cupra.
Entrando in paese in automobile da sempre si viene accolti da un cartello che recita "Benvenuti a Cupramontana, capitale del Verdicchio". Il riferimento è a una dicitura "ufficiale" risalente al 1939 che - ben prima dell'avvento della DOC - formalizzava la centralità del Comune nel contesto della produzione vitivinicola marchigiana.
Qui d'altronde ebbe sede una delle cattedre ambulanti di enologia (fine ottocento), qui nacque la famosa Fazi-Battaglia, qui venne istituita una delle più storiche cooperative vinicole (la Colonnara).
Negli anni sessanta si contavano una trentina di imbottigliatori (le cantina Aurora di mio nonno era fra queste).
Poi cominciò la crisi. Complici la fine della mezzadria, e la conseguente emigrazione, e una qualità media dei vini decisamente in caduta libera.
Quando nel 2000 cominciammo a imbottigliare come La Distesa in paese erano rimasti solo la cantina sociale, l'azienda Bonci e un paio di piccole realtà principalmente legate al commercio di vino sfuso.
C'era un solo produttore bio, ovviamente bistrattato da tutti, che imbottigliava pochissime bottiglie.
Dopo venti anni il panorama è completamente cambiato. Tanto che la guida "L'Italia di vino in vino" edita da AltraEconomia a firma di Luca Martinelli, Sonia Ricci e Diletta Sereni (con la prefazione di Armando Castagno) dedica a Cupra un intero capitolo. È una scelta rilevante dato che gli altri capitoli sono dedicati a interi distretti vinicoli (le Langhe, il Collio, l'Etna, la Valpolicella, ecc.) e a realtà ben più conosciute ed estese (il Carso, il Chianti senese, ecc.)


Quello che è stato colto è probabilmente la vitalità di una scena che negli ultimi anni è letteralmente esplosa. "La piccola comunità di vignaioli artigiani-naturali" recita il sottotitolo. Ed è così. Capita spesso, quando giro per fiere o chiacchiero con colleghi, che mi venga chiesto: "ma cosa succede a Cupra?" con un misto di ammirazione e stupore, soprattutto considerando il resto dei Castelli di Jesi o Matelica.
Oggi le cantine che imbottigliano a Cupra hanno abbondantemente superato la decina ma, soprattutto, va notato come le nuove realtà operino quasi tutte in regime biologico e/o in naturale. 
A fianco a noi c'è l'oramai storica Marca di San Michele con i suoi vini sempre di altissimo profilo; sempre a San Michele da qualche anno si è affermata Ca'Liptra che arricchisce il catalogo supernatural di Les Caves de Pyrene; non lontano la brava Giulia Fiorentini, i cui vini sono da poco entrati nel catalogo di Velier/Triple A. Senza dimenticare che, nel comune di Staffolo ma sul lato che guarda Cupra, e in linea d'aria davvero vicinissimi, ci sono aziende di grande valore di ispirazione naturale come La Staffa di Riccardo Baldi o biologiche come Antonio Failoni.
Ma è tutto il territorio a muoversi in questa direzione se si considerano anche i conferitori di uve: realtà di altissimo spessore come Pievalta (che ha appena impiantato vigne a cupra, lato monte Follonica) o Andrea Felici acquistano uva bio in contrada San Michele; la stessa Colonnara ha molti soci in regime biologico e da poco una linea bio. 
Nuovissime realtà artigiane e bio con vigneti a Cupra hanno iniziato da pochissimo: Colle Jano, Oppeddentro, mentre a breve sarà possibile assaggiare la prima annata di una nuovissima azienda completamente naturale con vecchie vigne nella zona di Manciano.
Inutile dire che tutto ciò ci riempie di gioia e anche - un pochino - di orgoglio per un effetto "trascinamento" che certamente abbiamo contribuito a scatenare. Così come è molto probabile che il lavoro di zonazione delle vigne cuprensi assieme all'apertura del complesso dei Musei In Grotta e agli annuali laboratori de Il Grande Verdicchio siano state iniziative importanti per il rilancio di questo territorio.
Se a questo si aggiungono un attivissimo Gruppo di Acquisto Solidale ed il progetto della Fornace del Gusto, gli spazi comunali a disposizione degli agricoltori per la trasformazione e il confezionamento a norma di prodotti locali, si capisce quanto questo paese sia in realtà cambiato a dispetto delle apparenze.     
Insomma, Cupramontana è di nuovo Capitale. Se non del Verdicchio perlomeno di una bella e sostenibile economia locale.