Visualizzazione post con etichetta attualità. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta attualità. Mostra tutti i post

martedì 19 aprile 2022

Netflix Party

Nel prossimo mese di maggio uscirà nelle librerie, per l'editore peQuod di Ancona, Netflix Party, il mio nuovo libro. 

Si tratta di una raccolta di dodici racconti, short stories direbbero gli americani. Tra i protagonisti ci sono viaggiatori dispersi in un futuro arido, pubblicitari in fuga da se stessi, adolescenti senza scampo, musicisti jazz, homeless, scalatori, alieni atterrati sul pianeta Terra. E poi ancora: bottiglie di vino che raccontano una vita ormai giunta alla fine e cinici manager alle prese con l’ennesimo Negroni sbagliato.

Sono dodici storie solo apparentemente sganciate l'una dall'altra: messe assieme provano a ricostruire uno sguardo sul nostro mondo, su quello che ci sta accadendo, sulla variegata umanità di inizio millennio alle prese con fatti epocali come la pandemia, il cambiamento climatico, un'economia sempre più diseguale. 


L'illustrazione in copertina è di Francesco Dottori


Il titolo che dà il nome all'intera raccolta è il titolo di uno dei racconti, l'ultimo. In realtà mi pare sintetizzare bene il respiro profondo di questi testi. Netflix Party perché volenti o nolenti viviamo vite sempre più virtuali; perché a prescindere dalla pandemia viviamo vite confinate, dove gli spazi di socialità e di libertà autentica sembrano continuamente restringersi; perché viviamo vite le cui relazioni ed emozioni sono sempre più decise da altri, e spesso da algoritmi di cui nemmeno conosciamo l'esistenza.

Per cercare di fare emergere le contraddizioni in cui siamo immersi ho scritto di personaggi o situazioni estremi. Ho stressato i contesti e portato le vicende sempre sul bordo di un precipizio immaginario. Così le dodici storie raccontano l’ansia, l’adrenalina, il senso di perdita, la follia, lo smarrimento che si provano una volta giunti al limite: quando le scelte valgono doppio, gli errori sono imperdonabili e la catastrofe sembra imminente. 

E pure, nonostante tutto, c’è un senso di profonda umanità racchiuso nelle scelte di molti dei personaggi. Quasi una sorta di resistenza a un mondo che ci vuole confinati.

sabato 26 febbraio 2022

La guerra in Ucraina vista da una vigna

Riporto uno stralcio da "Come vignaioli alla fine dell'estate" che mi sembra particolarmente calzante rispetto a quanto succede in Ucraina, soprattutto pensando alla questione energia/clima/stati-nazione.


Da una vigna puoi capire molto bene alcune questioni del contemporaneo.

Le vigne hanno dei confini naturali o artificiali molto netti. Spesso quelle storiche, soprattutto in Borgogna, sono dei clos, cioè degli spazi delimitati da muretti a secco. Altre volte a far da limite sono viottoli o fossi o canneti oppure file di alberi (si pensi ai cipressi toscani). Spesso questi confini delimitano, se crediamo al principio del terroir, identità ben precise e differenti. Ma anche delle «sovranità»: i proprietari del fondo determinano cosa piantare, chi far lavorare, quando raccogliere, ecc. E spesso accade che tra un clos e l’altro non sia solo la natura a far la differenza, ma anche l’uomo.

Il momento che stiamo vivendo è l’onda lunga delle prime recinzioni di terre comunitarie, le enclosures che furono alla base del capitalismo moderno e della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni sono state anche alla base della Grande Trasformazione (1) e, dunque, anche di quello Stato-Nazione che oggi viene richiamato da destra e da certa sinistra come salvifico gommone di salvataggio contro la globalizzazione cattiva. Senza accorgersi, invece, che proprio come le enclosures furono incentivate dallo Stato per facilitare la ricca aristocrazia rurale inglese, così la globalizzazione si è ser- vita degli Stati nazionali per imporre la sovranità della finanza sul mondo reale.

È l’assurdo di un mondo capovolto, nel quale la Cina comunista vuole apparire come «aperta» al commercio e l’America di Trump diventare protezionista. Dov’è la sovranità? Nei parlamenti nazionali o nei consigli di amministrazione delle multinazionali? Nelle deboli, e spesso corrotte, strutture sovra-nazionali o nella liquida ed efficiente intelligenza del Capitale contemporaneo?

Perché la verità è che lo scontro tra globalisti e sovranisti è solo un altro modo per fottere quello che rimane della working class. Che ci perde in ogni caso.

Tutto questo lo puoi vedere da una vigna.

Che cos’è la sovranità d’altronde se non il potere su di un territorio? Potere e territorialità. La terra è da sempre anzitutto una geografia su cui instaurare un potere. Nella mia vigna, all’interno di confini ben delimitati sulle mappe catastali, c’è la mia sovranità di proprietario, ma essa coesiste con una legisla- zione regionale, statale, europea e persino globale che rendono il mio potere su quella porzione di terra fortemente limitato: non posso, ad esempio, impiantare una vigna nuova senza aver ottenuto diritti di impianto; non posso impedire ai cacciatori di passare e cacciarci dentro; non posso usare alcuni pro- dotti chimici, giustamente vietati; oppure sono costretto a usarne alcuni in casi di emergenze fitosanitarie.

Quello che è accaduto nel nostro pianeta sotto la spinta della tecno-scienza e delle trasformazioni dei modi di produzione degli ultimi decenni è anche, e soprattutto, la riduzione dello spazio geografico, antropologico e sociale. Nel villaggio globale l’Homo oeconomicus è specie dominante uguale a se stessa indipendentemente da ogni particolarismo. Siamo consumatori globali, ma non siamo cittadini del mondo. C’è una scissione tra bisogni, aspirazioni, immaginari globali e diritti e sovranità locali e limitati. Da questo punto di vista siamo o potremmo essere tutti migranti economici: di fronte al movi- mento libero del capitale, ai disastri ambientali sempre piùfrequenti, alle guerre delle quali perdiamo memoria, a distanze sempre meno rilevanti, di fronte a immaginari reali e virtuali sempre più condivisi e attesi che si scontrano con confini sempre più stringenti.

La forzatura di massa dei confini nazionali potrebbe essere una delle cifre maggiori del prossimo futuro, una forza prepotente di cambiamento che correrà parallela alla forza naturale/artificiale del cambiamento climatico: ecco perché meticciato e libertà di movimento sono diventate «la» prima emergenza per i difensori di un presunto conservatorismo oramai fuori tempo massimo.

Viviamo una cesura storica senza precedenti. La terza rivoluzione industriale ci consegna un mondo che è solo un lontano parente di quello esistente 250 anni fa. Dopo la Prima rivoluzione industriale, basata sulla forza motrice dei «carburanti», dopo la Seconda rivoluzione industriale incentrata sulla chimica, la rivoluzione digitale, con tutte le sue applicazioni diffuse, ha stravolto non solo le economie ma anche le relazioni spazio-temporali tra gli umani. Eppure cerchiamo di governare questo mondo attraverso infrastrutture istituzionali vecchie e superate, pensate per abitare una realtà che non esiste più.

Si potrebbe, invece, guardare alle piante. Alla loro capacità di decentrare le decisioni: «in generale, le piante distribuiscono sull’intero corpo le funzioni che gli animali concentrano in organi specifici (...). In un certo senso la loro organizzazione è il segno stesso della modernità: hanno un’architettura modulare, cooperativa, distribuita e senza centri di comando, in grado di sopportare alla perfezione predazioni catastrofiche e ripetute» (2). Al contrario di quanto si pensa, in natura le gerarchie sono rare e funzionano male. Le complessità vengono risolte non attraverso logiche di potere, ma attraverso i principidi un’intelligenza collettiva. Nella loro storia evoluzionistica i vegetali hanno risolto i problemi posti dall’ambiente in modo molto diverso dagli animali. Radicamento profondo in un luogo e capacità di vagabondare pressoché illimitata di semi e spore: le piante possono apparire davvero come un modello per le comunità umane del futuro alle prese con un pianeta sempre più piccolo.

Oggi la potenza e la velocità del cambiamento in atto condurranno al dissolvimento delle vecchie strutture «sovraniste», non al loro consolidamento. «L’antropocene richiede un mutamento delle visioni consolidate del governo e della legittimità (...) Il vecchio modo di vedere la responsabilità e l’impatto dell’azione individuale non è più adatto all’Antropocene per via degli aspetti collettivi, sistematici e permanenti della nuova interazione fra umanità e natura» (3). Come la Grande Accumulazione sfociata nella Prima rivoluzione industriale ha portato alla fine del feudalesimo e alla costruzione di nuove istituzioni politiche, così la Grande Accelerazione, prodromo alla rivoluzione digitale, non potrà che mettere sempre più in sofferenza l’intero impianto normativo contemporaneo. Costringendoci a rivederne «le sue vecchie fondamenta politiche se non vogliamo vedere il nostro sistema globale spinto a forme di collasso sempre più estreme. Questo non è un piccolo sforzo: occuperà la parte maggiore di questo secolo. Non sappiamo ancora dove porterà» (4).

Niente sarà più come prima nell’Antropocene.

Nemmeno la vigna che ho davanti agli occhi. Nemmeno i vini che ne verranno fuori. Non ci sarà alcun grand-cru classé a poter resistere a questa sovversione e qualunque idea di un terroir immobile, cristallizzata dentro disciplinari, pensata per la protezione di vitigni o parcelle indifendibili, è destinata a franare. Con buona pace di ogni sovranità immaginata dentro ai muretti a secco dei clos.

Note:

1)    Karl Polanyi, "La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca", Einaudi, Torino 2010.

2)    Stefano Mancuso, "Plant revolution", Giunti, Firenze 2017, p. 145.

3)    Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, "Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo", DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 190 e 191.

4)    Rana Dasguspta, "The demise of the nation state", The Guardian, 05/04/2018.

mercoledì 5 agosto 2020

Nuovi mondi e vecchie politiche

Faccio politica da quando mi ricordo.
Già 9 o 10 anni, nei prati del Parco Ravizza a Milano, quando si giocavano infinite partite a pallone, mi mettevo in mezzo ai litiganti - c'era sempre qualcuno che la voleva risolvere a botte - per tentare un approccio assembleare, democratico e pacifista ai problemi generati da un calcio di rigore o da una punizione. 
Negli anni della giovinezza ho attraversato la Milano da bere, la caduta del muro di Berlino, la prima guerra del golfo, Mani pulite, l'avvento di Berlusconi, la globalizzazione sempre con la convinzione che la Politica fosse una azione necessaria e in qualche modo anche sufficiente all'organizzazione della vita umana sulla Terra (e forse anche nello Spazio). Ho re-incontrato Valeria, per poi non lasciarla più, durante una campagna elettorale. Insieme abbiamo creato La Distesa che è in qualche modo un luogo estremamente intriso di Politica. Ci siamo candidati in varie elezioni, abbiamo frequentato circoli e sezioni, abbiamo discusso e litigato più o meno con tutto l'arco costituzionale dei partiti locali. Non abbiamo mai preso una tessera: io - figuriamoci - sono ancora l'anarchico che ero a diciassette anni, e Vale la comunista eretica espulsa dalla federazione dei giovani comunisti... Insomma un mezzo disastro...
La nostra generazione ha prodotto mostri come Matteo Renzi e Matteo Salvini.
Il che basterebbe a negare ai 40/50enni di oggi il diritto a fare Politica. 
La realtà è che si avvicinano le elezioni regionali nelle Marche - ma non solo - e molto semplicemente monta la totale disperazione sul "che fare?".
Siamo cresciuti con la narrazione del "meno-peggio", del "voto-utile", del "sennò-vince-tizio". Una storia figlia della fine delle ideologie e che ha radicalmente svuotato di contenuti ogni contenitore della ormai presunta sinistra, sia quella di lotta che quella di governo. Qualche volta si è votato, qualche volta no. Qualche volta più convintamente, qualche volta meno. Ma sempre con la certezza di essere minoranza di una minoranza, senza alcuna reale capacità di incisione sulla tela della storia. Piccola o grande che fosse.
Con gli amici dei centri sociali tante volte ci siamo amichevolmente scontrati sulla necessità - o meno - di un confronto istituzionale, di una "politica politicante" e non solo conflittuale, di una qualche forma organizzata di "rappresentanza". 
La sensazione sempre più netta, più cogente, più dolorosa, è che il quadro odierno (che sì! È anche figlio di COVID ma è soprattutto il frutto di una dinamica storica che viene da lontano) sia del tutto mutato. 
Ci troviamo di fronte a mondi totalmente nuovi e sconosciuti e la sensazione è quella di affrontarli, viverli, utilizzando strumenti vecchi e superati. 
Come se navigassimo in Internet oggi ma con la connessione di venti anni fa.
Come se affrontassimo un esercito perfettamente equipaggiato con archi e frecce.
Il dibattito internazionale sui Fondi Europei, il dibattito nazionale (ma anche globale) sull'immigrazione, la reazione internazionale alla Pandemia... Tutto appare ridicolo, fuori luogo, stonato.
Abbiamo istituzioni e regole pensate in un novecento che non esiste più. Che è stato semplicemente spazzato via. A partire dal feticcio "Stato-Nazione".
Ci troviamo a parlare di liste, listini e listarelle per una Regione che non ha ancora minimamente superato i problemi della crisi 2008/2012, che non ha saputo affrontare il terremoto, che ha fatto fallire attività produttive e aeroporti, che ha tagliato la sanità in lungo e in largo salvo poi chiedere fondi per aprire un ospedale COVID da dodici milioni di euro rimasto vuoto, che non ha alcun tipo di visione per il futuro che non sia la Sagra del Prodotto Tipico di 'staminchia.
Sono oramai trent'anni che la politica non è altro che l'affannato tentativo di gestire vecchi centri di potere - di destra e di sinistra - nel tentativo di mantenere un instabile consenso elettorale. Un consenso il cui unico fine è la gestione delle infinite emergenze cui gli amministratori di ogni livello sono tenuti a rispondere. La questione della "casta" si è risolta semplicemente nel tentativo di sostituzione di ceti politici ed il populismo altro non è se non il cavallo di Troia di chi vuole affrontare il tema della globalizzazione attraverso la costruzione di nuovi rifugi indentitari. Ci siamo già passati e non è finita bene.          
Per questo ci sembra assurdo parlare di candidature, alleanze, accordi, dialoghi col territorio, e tutto l'armamentario di una retorica politichese fuori tempo massimo. Ci sono dinamiche là fuori che stanno sgretolando il nostro vecchio mondo e l'unica risposta sensata sarebbe quella di una rinnovata carica utopista. Perché quando la distanza tra istituzioni e mondo reale si fa incolmabile, quello è il momento che precede le rivoluzioni.

mercoledì 16 gennaio 2019

Immagina un mondo

File: Lettere di famiglia 
Data: Nessuna data certa

Ciao Edo
sono Nina... Non so se leggerai mai queste righe... Le scrivo da un posto che non posso dirti. Né bello né brutto. Sospeso.
So che mi odi o – forse peggio – che mi hai semplicemente rimosso. Non posso biasimarti visto la madre che non sono stata. E tempo per recuperare non ce n’è, che non ho alcuna intenzione di pagare il prezzo che hanno pagato tuo padre e tanti altri compagni. Preferisco di gran lunga nascondermi e cercare di condurre una vita in qualche modo decente.
Ma alcune parole mi andava di scrivertele, non per giustificarmi, non per spiegarmi e tanto meno per ottenere un impossibile perdono. Ma semplicemente così, per riannodare un  filo sottile, fatto di ricordi... Che la storia, quella la scriveranno gli storici, e sarà comunque in gran parte la storia dei vincitori. Mi spiacerebbe che tu conoscessi solo quella e avessi un’idea di tua madre ancora peggiore di quella che ti sarai fatto... Insomma. Immagina un mondo. Un mondo in cui ogni anelito di libertà, viene soffocato nel sangue, da Lumumba a Che Guevara, da Bob Kennedy a Luther King, dall’Ungheria a Praga... Immagina anni in cui in ogni parte nel globo la gente, il popolo, si muove per chiedere un mondo migliore: in Africa, nei paesi arabi, negli Stati Uniti d’America, nell’est d’Europa, in sudamerica. E c’è una musica nuova, ci sono idee originali, ci sono giovani che non vogliono fare il lavoro dei padri, ci sono donne che vogliono essere diverse dalle loro madri. Immagina tutto questo, se puoi, e lo so che puoi.
E poi immagina una bomba e dei morti innocenti. Immagina un anarchico innocente che precipita dalla  finestra di un commissariato di polizia. Immagina una guerra atroce in un paese povero e disperato come il Viet Nam. Immagina l’Angola, il Mozambico, la Palestina, il Sudafrica... Immagina la Grecia quanto era vicina; Il Cile e l’Argentina e un paese come il nostro che come in un incubo chiude ogni varco, ogni porta, ogni spiraglio al cambiamento.
Dov’erano i nostri Robespierre? Dove i nostri Lenin? Dov’erano e cosa facevano quelli che fino a un attimo prima sembravano i rappresentanti della classe operaia?
Il potere.
Ecco la questione davvero irrisolta.
Perché è vero, abbiamo ottenuto il divorzio e l’aborto. Ma sarebbero arrivati comunque, era solo questione di tempo. E la libertà sessuale? Eccola... Anche senza di noi, con le tette nude delle televisioni. Così come l’emancipazione della donna, consumatrici formidabili da non lasciare indietro, lo sanno bene Versace e Madonna, no? E i neri? Comunque prima o poi qualche diritto sarebbe stato loro concesso, gli WASP facevano pochi figli e se vuoi vincere le elezioni hai bisogno dei voti di tutti, neri, messicani, omosessuali... Non passerà molto tempo prima di avere un presidente americano nero!
Tutto faceva parte del normale processo evolutivo del capitalismo borghese che tutto sussume, che tutto divora.
A me, a noi, tutto ciò interessava relativamente. Abbiamo mirato al cielo. Con mille errori, certo. Alcuni drammatici. Ma cosa credi? Che possa esistere una guerra senza morti e feriti? Una rivoluzione senza vittime né carnefici?
Non sono pentita. Non posso permettermi di esserlo, né di fronte alla storia né di fronte a mio figlio... Perché forse questa è l’unica eredità che posso lasciarti: sapere che il potere, qualsiasi potere, può essere combattuto. Credere che si possa ancora e sempre ribellarsi.

(Corrado Dottori, "La Musica Vuota". Edizioni Pequod, 2017)

martedì 18 dicembre 2018

Il biologico è la strada migliore per tutelare la Terra

Il Consorzio TerroirMarche interviene sugli attacchi rivolti in questi giorni all’agricoltura biologica. “I benefici del bio sono dimostrati a livello scientifico in termini di biodiversità, difesa dei suoli e contrasto al riscaldamento globale”

Nelle ultime settimane sulla stampa e sui social media sono apparsi attacchi verso il mondo dell’agricoltura biologica tesi a metterne in dubbio i suoi numerosi benefici in termini di tutela ambientale rispetto all’agricoltura convenzionale. A controbattere a questi interventi sulla base della ricerca scientifica è il Consorzio TerroirMarche, che riunisce i vignaioli biologici delle Marche impegnati da anni a promuovere un approccio alla campagna rispettosa dell’ambiente.

“Non conosciamo le ragioni profonde di questa improvvisa levata di scudi” affermano i soci di TerroirMarche. “Forse a qualcuno dà fastidio il crescente successo dei prodotti agroalimentari bio (in Italia le vendite hanno segnato un +15% nel 2017e un +153% rispetto al 2008, mentre l’export del bio made in Italy vale quasi 2 miliardi grazie a un +408% rispetto al 2008 – Dati Nomisma). Possiamo anche ipotizzare una reazione del mondo del “biotech” alla bocciatura da parte della Corte di Giustizia Europea di tecniche come il genoma editing e la cisgenesi. Quel che è certo è che questi contributi sono pericolosi, a maggior ragione se provengono da personalità del mondo politico e accademico nei giorni della conferenza mondiale sul clima Cop24 in corso in Polonia, dove si discute di riscaldamento globale e futuro del pianeta”.

Già da diversi anni la ricerca scientifica, sottolinea il Consorzio TerroirMarche, ha identificato il metodo biologico come il più indicato ad affrontare i problemi del cambiamento climatico, del risparmio idrico, della fertilità del suolo. Già nel 2002 il paper della FAO “Organic agriculture, environment and food security” ha chiarito che: le emissioni di CO2 per ettaro nei sistemi di agricoltura biologica sono inferiori dal 48% al 66% rispetto ai sistemi convenzionali; l'agricoltura bio consente agli ecosistemi di adattarsi meglio agli effetti del cambiamento climatico e offre un notevole potenziale per ridurre le emissioni dei gas serra agricoli; i suoli a gestione biologica hanno un alto potenziale per contrastare il degrado del suolo poiché sono più resistenti sia allo stress idrico che alla perdita di nutrienti. A ciò va aggiunto che sono in costante crescita le ricerche che mostrano il maggiore valore nutritivo dei prodotti da agricoltura biologica e la maggiore conservazione di biodiversità.

Molti degli attacchi rivolti in questi giorni al mondo della viticoltura bio si concentrano sull’uso del rame. “A questo proposito – precisano gli agricoltori di TerroirMarche – è bene fare chiarezza su alcuni punti. Prima di tutto il rame è utilizzato anche in agricoltura convenzionale, ma è solo in agricoltura biologica che viene assoggettato a limiti stringenti. La recente normativa europea ha ulteriormente ridotto i limiti di utilizzo del rame fino a 4 kg per ettaro all’anno. I vignaioli biodinamici già oggi hanno un limite di 3 Kg ed è innegabile che è nel settore della viticoltura naturale che si è sviluppata negli anni la maggior sensibilità verso una progressiva riduzione del rame”.

Microbiologi di fama internazionale come Claude e Lydia Bourguignon hanno recentemente dichiarato che anche alle dosi precedenti l’uso del rame in viticoltura non ha effetti tossici riscontrabili. In terreni ricchi di humus, come generalmente quelli dove si coltiva in modo biologico o biodinamico, la dotazione di sostanza organica permette infatti di immobilizzare il rame riducendone la tossicità. Il rame è così assorbito dalla pianta solo in piccole dosi e quindi anche il contenuto nella pianta è basso. “Inoltre, come il ferro, anche il rame è un componente importante dei sistemi enzimatici del metabolismo respiratorio e della fotosintesi. Agisce sulla sintesi della lignina e sulla germinazione del polline, favorisce l’accrescimento apicale, aumenta la traspirazione ed è indispensabile nella formazione della clorofilla e dei complessi proteici che agiscono durante la fotosintesi. Eppure viene assimilato ai pesticidi di sintesi!”.

“Rigettiamo pertanto con forza il tentativo di equiparare convenzionale e biologico dal punto di vista dell’uso dei pesticidi – affermano con forza i soci del Consorzio Terroir Marche – e di ridurre il movimento biologico a nicchia di mercato che basa il suo successo solo su narrazioni rassicuranti o, peggio, a tendenza giovanilistica e radical chic. La viticoltura e l’agricoltura biologica sono un settore rilevante e trainante dell’agricoltura italiana e uno dei capisaldi della lotta al cambiamento climatico”.

Per ulteriori approfondimenti

Il Paper della FAO:
http://www.fao.org/docrep/005/y4137e/y4137e02b.htm

Sulla sostenibilità del bio: https://www.researchgate.net/publication/279868579_Eco_e_bio_agricoltura_sostenibile_o_insostenibile

Sul maggior valore nutritivo del cibo bio:
https://www.cambridge.org/core/journals/british-journal-of-nutrition/article/higher-antioxidant-and-lower-cadmium-concentrations-and-lower-incidence-of-pesticide-residues-in-organically-grown-crops-a-systematic-literature-review-and-metaanalyses/33F09637EAE6C4ED119E0C4BFFE2D5B1

Sulle alternative al rame:
http://www.agribionotizie.it/le-alternative-alluso-del-rame-in-agricoltura/


martedì 6 febbraio 2018

Macerata, Italia.

Il terrore che sento in queste ore viene dall'abisso fra il virtuale ed il reale.
La distanza ormai incolmabile tra il racconto di una città, di una nazione, in preda ad una emergenza epocale, ad una apocalisse biblica, ad una invasione. E la realtà, invece, di una città meravigliosa, pacifica, che si sta candidando a capitale della cultura 2020; (e di un paese reale dove ci sono problemi e sofferenze ma dove la questione immigrazione non è certamente, da nessun punto di vista, il problema numero uno, su cui imbastire una intera campagna elettorale).
Viviamo in una specie di Truman Show, dove si è costruito un mondo parallelo, artefatto, distorto, in cui milioni di "barbari alloctoni" stanno sostituendo la razza autoctona italiana.
(Verrebbe da ridere se non fosse che questo è davvero ciò che si legge in giro e si ascolta per strada).
La realtà dei fatti è che gli immigrati dal 2013 a oggi nella Provincia di Macerata sono passati da 32.267 a 31.020. Se ne vanno anche gli stranieri, a causa della crisi. Lo sa bene chi lavora o ha lavorato nei Comuni.
Eppure anni, decenni, di narrazioni tossiche, di costante alterazione dei fatti, di giornalismo ignobile, di soluzioni facili, o non soluzioni di comodo, di propaganda, hanno liberato il mostro. Che c'era, c'è sempre stato, ci sarà sempre. Ma era in qualche modo tenuto a bada.
Ed è troppo tardi oggi.
Citare statistiche, rapporti, fonti di diritto, numeri. Ragionare, riflettere, approfondire.
Perché quando la narrazione tossica diventa mito allora si entra nel regno del simbolico e dell'irrazionale. Uno spazio pre-politico che fa appello all'istinto, a pulsioni che scatenano meccanismi devastanti per cui molto semplicemente si smette di essere umani. Quando ciò accade, quando individui "normali" diventano parte di una mitopoiesi collettiva, la banalità del male di Hannah Arendt, è già troppo tardi. Poiché quello è l'inizio di ogni fascismo.
Siamo a questo punto, di nuovo.
La mia generazione, cresciuta con la fine delle ideologie, pensava che tutto ciò fosse fuori dalla storia, definitivamente. Il concetto stesso di razza, l'odio su base etnica, la violenza fisica e morale contro lo "straniero". Invece eccolo di nuovo l'orrore nazionalista del Dio, Patria e Famiglia, dilagare sui social, perdersi far le righe dell'editorialista di turno, serpeggiare nei discorsi delle signore-bene al supermercato o esplodere brutalmente con gli episodi di Fermo e di Macerata.
Quando una narrazione diventa mitologica, cioè quando una ideologia si piega all'irrealtà, non c'è più democrazia che tenga, non c'è più mediazione, non c'è più il piano di un discorso logico.
Di fronte alla mitologia dello straniero violentatore, del nero spacciatore, del rom ladro, nulla può la memoria. Non quella lontana di nonni o bisnonni. E nemmeno la memoria recente di paesi dilaniati, smembrati, travolti: la Jugoslavia, il Ruanda, la Cecenia, con i loro "imbrogli etnici".
“Scimmia africana”: così Amedeo Mancini aveva chiamato una giovane nigeriana prima di sferrare un pugno contro il marito, uccidendolo. Succedeva il 5 luglio 2016, meno di due anni fa, vicino al belvedere di Fermo, una cittadina marchigiana a 45 chilometri da Macerata. Per l’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi, colpevole di aver reagito agli insulti rivolti alla sua compagna Chiniery, Amedeo Mancini, ultrà della Fermana vicino ad ambienti neofascisti, è stato condannato a quattro anni di carcere con il patteggiamento e rimesso in libertà nel maggio del 2017, a nemmeno un anno dall’omicidio". (https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/02/05/macerata-fascismo-luca-traini)
Gli episodi di attacchi di stampo neo-fascista e razzista si susseguono e si intensificano ma la matrice ideologica, nell'epoca del "non c'è differenza fra destra e sinistra", viene nascosta, alleggerita, negata.
È la politica del "ma": sono contro la guerra ma, non sono razzista ma, povera ragazza ma (...se l'è andata a cercare). La politica dei due pesi e delle due misure. Quella per cui basta frequentare una moschea per essere automaticamente un terrorista dell'Isis, e invece Luca Traini è solo un ragazzo un po' matto che ha sbagliato, sebbene abbia una svastica tatuata in fronte e il Mein Kampf sul comodino.
Il terrore che sento in queste ore viene da una "sinistra" che si è smarrita completamente. Una "sinistra" che ha responsabilità enormi in quello che è accaduto in questo paese. Che ha riempito la sua crisi ideologica e ideale solo di parole come "mercato", "globalizzazione", "sicurezza". Che ha contribuito a costruire e sostenere quell'Europa delle Nazioni che è il motore immobile - con le sue politiche tecnocratiche di austerità - dei populismi e dei neo-fascismi dilaganti.
Una "sinistra" che si è piegata alla narrazione altrui e ne ha rafforzato la tossicità, diluendo sempre di più il valore dell'esperienza partigiana a forza di equiparazioni e revisionismi. Dimenticando Piero Gobetti e il "fascismo come autobiografia della nazione".
Una "sinistra" che si è spostata talmente a destra da incentivare i campi di detenzione libici - campi di concentramento! - dove bloccare i migranti cattivi prima che arrivino a delinquere nel nostro paese.
Viviamo in un periodo per molti versi simile agli anni venti/trenta del secolo scorso. Speravamo che, a differenza di allora, le dinamiche economiche non producessero gli stessi mostri o, perlomeno, non così presto e non allo stesso modo. Ci sbagliavamo.
Il terrore che sento in queste ore è per la nuova traversata nel deserto che ci attende, senza bussole a indicarci una strada.
Non resta che stringerci, resistere, farci forza a vicenda. Non so chi... Noi... Gli umani?
Restiamo umani.

A Macerata manifestazione nazionale, sabato 10 febbraio alle 14.30.
https://www.facebook.com/events/1321613521317914/

martedì 29 novembre 2016

Io voto No!

Non ho scritto granché finora sul referendum costituzionale del 4 dicembre.
Volutamente.
Mi pare evidente che si sia raggiunto uno dei punti più bassi nella storia del dibattito politico pubblico in Italia. Gli schieramenti in campo hanno dato sfogo a tutto l’armamentario retorico della politica 2.0; la comunicazione interna e internazionale ci ha messo del suo a confondere e incasinare ulteriormente le cose; e si è pure ottenuto il risultato non trascurabile di riesumare salme della prima e della seconda repubblica che si credevano sepolte per sempre (i nomi li tralascio, tanto li sapete).

Oggi mi sembrava giusto, però, a pochi giorni dal voto, esprimermi pubblicamente, sia per il ruolo di piccolo amministratore pubblico ricoperto per 5 anni, sia per continuare la tradizione che mi ha visto commentare in modo netto gli accadimenti della società, dell’economia e della politica degli ultimi anni.
Io voterò no e invito tutti a farlo in modo convinto, sebbene moltissimi fattori remino contro: non tanto al “no” in sé, quanto alla voglia di votare e/o di farlo convintamente. Me ne rendo conto.
Eppure.

Eppure questa “riforma” va respinta con forza. Non per lanciare un messaggio contro Renzi o contro “i poteri forti” o a favore della Costituzione nata dalla Resistenza (che già non è più tale da un po’ o meglio non è mai stata).
Il mio “no” è un no tutto politico, ma molto diverso da quello di una sinistra-non-sinistra (D’Alema e Bersani) che fino a ieri ha fatto di peggio (cioè votare la riforma costituzionale di Monti) o di una destra-non-destra (Berlusconi) che in Parlamento ha votato quasi fino alla fine la riforma di Renzi, in virtù del patto del Nazareno, salvo poi - come sempre - sfilarsi all’ultimo metro.
Mi si dirà che allora è un “no” salviniano e grillino. Populista.
Ed io allora incasso e faccio spallucce, ridendo. Perché mi pare del tutto evidente che sia la lega-lepenista che i grillini-no-a-tutto hanno trovato nel referendum semplicemente l’occasione d’oro di travolgere Renzi e di sfruttare l’onda brexit/trump. A loro, in fondo in fondo, della Costituzione frega poco nulla.

E allora?
E allora credo che il “no” debba molto semplicemente essere come era stato l’oxi in Grecia: un sussulto di indignazione, un segnale popolare contro la deriva tecnocratica degli ultimi anni, un “no” della cittadinanza alla oligarchia europea. Con buona pace di Scalfari.
Come ho già avuto modo di ricordare, questo referendum non è il referendum di Renzi ma quello di Napolitano. L’ex Presidente della Repubblica ha nominato prima Letta e poi Renzi a patto di realizzare ciò che era contenuto nella lettera della Commissione Europea dell’estate 2011. Quella che scatenò la speculazione “telefonata” contro il governo Berlusconi  (Monti già allertato da tempo col beneplacito del PD di Bersani che ora fanno “quelli di sinistra”). Da quel “vulnus” nasce il pantano politico degli ultimi anni in cui sia Renzi che Grillo che Salvini hanno sguazzato allegramente, unica vittima una vera sinistra anti-sistema (scomparsa).
E dunque prima il Fiscal Compact (pareggio di bilancio, riforma costituzionale votata da tutti, Lega compresa – governo Monti), poi la riforma del lavoro (Jobs act, votata da larga parte del PD, compresi molti dissidenti odierni – governo Renzi), infine la riforma costituzionale destinata alla “governabilità”. Tutte riforme fortemente ideologiche e fortemente volute dal Capitale.

Ecco perché come dice Ida Dominijanni in questo pezzo di rara lucidità http://www.internazionale.it/opinione/ida-dominijanni/2016/11/29/referendum-costituzionale-si-no “il sì chiude un ciclo, mentre è solo il no, con tutti i suoi imprevisti, che può aprirne uno nuovo”.    

Mi piacerebbe che i molti – nei movimenti – che sono propensi a non votare cogliessero questo passaggio cruciale.

giovedì 4 giugno 2015

Podemos, Syriza ed una certa eredità della Storia


Grazie ad Emanuele Tartuferi - che mi ha girato il link - sono entrato in rotta di collisione con questo video che non posso che condividere e consigliare a tutti, soprattutto per ciò che concerne la seconda metà (ma guardatelo tutto!)
Come sempre sono in disaccordo con almeno il 50% delle cose che dice Negri, nonostante la fascinazione che le sue idee, le sue tesi e certi suoi libri abbiano avuto su di me sin dall'epoca dell'università. Ma questo video è importante non tanto per Negri quanto per il dialogo con Pablo Iglesias, leader di Podemos: per il tono, per il livello del discorso che resta divulgativo ma scava, per una leggerezza puntuta che indaga nel profondo, per la qualità delle domande (e delle risposte) su temi che in "casa nostra" vengono declinati se va bene alla grillina e se va male non voglio neanche pensarci...
L'Europa, una certa idea di marxismo, il rapporto fra leader e movimenti e fra movimenti ed istituzioni, la crisi degli stati nazionali ed il neoliberismo, il cadavere puzzolente del PCI, l'autonomia e la rappresentanza. Insomma i nodi dell'oggi nel loro strozzarsi verso il futuro.
E quell'asse Tsipras-Iglesias che in autunno potrebbe rafforzarsi ulteriormente.
  

lunedì 19 maggio 2014

L'Euro: il nuovo muro di Berlino che divide l'Europa


I nodi vengono al pettine.
Il calo del PIL nel primo trimestre del 2014, certificato dall’ISTAT, si è abbattuto come una mannaia sugli ultimi scampoli di campagna elettorale per le Europee. Il dato stupisce solo chi ha creduto nella “ripresa”, nella definitiva “uscita dalla crisi”, nella famigerata “inversione del ciclo”. Tutte parole più o meno vuote che parlano il linguaggio di un mondo economico che non c’è più.
Ciò che appare agghiacciante è l’insistenza con la quale i potentati economici, i partiti politici delle “larghe intese” e certi economisti che un tempo erano “mainstream” e oggi sono semplicemente fuoritempo, continuano a perseverare nell’errore: considerare la crisi europea come passeggera, invocare le riforme come panacea a tutti mali, eludere totalmente il problema del tasso di cambio e degli squilibri commerciali dell’area Euro.
Tutto nasce, ovviamente, dal modello economico di riferimento.
L’idea dell’Euro come moneta unica nasceva con la fondata pretesa di creare un’area economica comune che avrebbe avuto una domanda interna di più di 400 milioni di persone. Il problema è che questa buona idea nelle mani dei guardiani dell’economia dell’offerta, dei soloni del monetarismo, dei giganti del pensiero neo-liberista si è trasformata nel peggior esperimento teorico di economia monetaria-finanziaria della storia dell’uomo. Ce lo dicono le parole stesse: un tempo avevamo la Comunità Economica Europea, oggi parliamo di Unione Bancaria, di Fondo Salvastati (dotato di rating!), di Fiscal Compact.
Ma cosa ci dice in realtà questo lieve calo del PIL italiano? Comunica esattamente quello che oramai tutti sanno ma nessuno può dire (a parte Tsipras, Grillo e Le Pen/Salvini tutti e tre con grandi differenze di approccio e linguaggio): molto semplicemente ci dice che non è possibile per l’Italia con questo livello di tasso di cambio (troppo alto) e questa rigidità dal lato della spesa (austherity) uscire dalla crisi e ricominciare a crescere.
Quello che si dovrebbe fare sta nei manuali di buona economia politica. Due semplici cose: svalutare un po’ l’Euro e abolire il 3% di limite deficit/PIL. Ma sono esattamente le due cose che la Germania non vuole che si facciano.
La realtà è sotto gli occhi di tutti: abbiamo distrutto, sull’altare dell’idea liberista per cui vale solo la competizione nei mercati globali, la domanda interna. La deflazione europea ne è la prova provata: l’enorme disoccupazione nei paesi della “periferia”, unita alle cosiddette “riforme”, cioè alla deflazione interna, ovvero la compressione dei salari e la generalizzazione del precariato su scala europea, hanno fatto sì che quell’enorme Mercato Unico di 400 milioni di persone venisse depotenziato. Depotenziato a tal punto che l’unica fonte di crescita può venire solo da un export che alla fine premia oramai solamente la Germania, non tanto o non solo in virtù della qualità intrinseca delle merci prodotte, ma soprattutto perché unica area a non dover soffrire un tasso di cambio troppo elevato.
Il fatto che paesi come Olanda e Finlandia, che da sempre gravitano nell’area tedesca, non se la passino poi così bene, quasi venissero risucchiati nelle periferie dei PIIGS, è un ulteriore dimostrazione di questo buonsenso “keynesiano” che non pare trovare più adepti nell’area del  Partito Socialista Europeo e delle sue ramificazioni nazionali; parte politica per la quale dovrebbe essere il naturale riferimento ideologico.
Perché? … Verrebbe da chiedersi? E la risposta è semplice semplice: perché si dovrebbe ammettere davanti a centinaia di milioni di elettori di centrosinistra europei che i vari Prodi, Shroeder, Zapatero, Blair sono caduti – coscientemente o meno poco importa – nel trappolone del Capitale e che, nei tempi lunghi della storia, non in quelli brevi di un ciclo di crescita decennale, questi signori hanno molto semplicemente affossato il sogno europeo di una Comunità sovranazionale.
Ma ora che fare?
A parte immettere miliardi di euro di liquidità in un sistema economico già in deflazione nel quale coi tassi prossimi allo 0% comunque gli imprenditori non investono e i consumatori non consumano (esempio quasi da manuale di “trappola della liquidità” e di “sindrome giapponese”)?
A parte attendere un altro starnuto che faccia risalire gli spread facendo ripartire la spirale che lega la spesa per interessi al deficit e dunque a nuovi tagli che poi non possono che frenare ulteriormente la crescita?
L’uscita dall’euro non è una soluzione politicamente sostenibile. Credo che dal punto di vista economico sarebbe una soluzione accettabile nel breve periodo e in grado di risolvere alcuni equilibri nei disavanzi commerciali. Il problema è che avendo trasformato, volutamente, l’Europa e l’Euro nel nuovo feticcio ideologico, il risultato politico di un’uscita italiana dall’euro sarebbe il ritorno del nazionalismo identitario e la fine della costruzione dello spazio comune europeo (su questo punto persino intellettuali di estrema sinistra come Toni Negri sono stati chiari).
In tempi non sospetti, esattamente a Firenze nel 2002, un vasto movimento di cittadini chiedeva “Un’altra Europa possibile”: non erano grillini incazzati, non erano piddini delusi, non erano neo-fascisti nazionalisti. Era un vasto movimento di persone che vedeva già allora il rischio insito nell’Europa dei governi e delle banche e chiedeva l’Europa dei cittadini. Avevamo ragione ma ha fatto comodo a tutti eludere il problema allora.
In definitiva, alla luce della situazione attuale, una soluzione facile non c’è. Certamente non può esserlo questo appuntamento delle elezioni europee dove l’Europa sembra divisa da un nuovo muro di Berlino.
L’unico orizzonte, allora, resta quello della critica serrata, di una resistenza attiva a questo modello economico che è il vero artefice di questa Europa. Piano piano. Giorno dopo giorno. Dal piccolo dei nostri Comuni ai grandi appuntamenti com l’Expo 2015.
Sempre in movimento.    

sabato 1 febbraio 2014

Velenitaly, l'olio italiano e il futuro del giornalismo indipendente

Nel giro di pochi giorni Intravino ha lanciato un appello a difesa di Maurizio Gily per la vicenda della famigerata copertina de L'Espresso "Velenitaly" (qui) e un attacco al New York Times per la sua inchiesta sull'olio extravergine d'oliva "italiano" (qui).
Cosa hanno in comune queste due uscite del popolare blog? Un attacco a quella che viene definita una informazione scorretta; una sorta di crociata contro il cattivo giornalismo eno-gastronomico (dove ovviamente, fra le righe, quelli buoni, puliti e giusti sarebbero solo - per definizione - i bloggers in questione, bravi a cogliere in fallo i colossi dell'informazione).
Personalmente avevo dedicato a Velenitaly un post provocatorio (qui) su questo mio blog. Letto il pezzo sull'olio di oliva mi è sembrato di ripercorrere la stessa strada un'altra volta, immerso in una certa visione del mondo per cui guai a chi tocca il "Made-in-Italy", qualunque esso sia ed a qualunque costo. Con lo stesso disagio che avevo provato ai tempi della celeberrima inchiesta di Report sul vino italiano.
Ora il disagio aumenta.
Che il mondo del vino e dell'olio italiani sia ancora pieno di gente che sfrutta il concetto di "made in Italy" per speculare su prodotti cattivi e dall'origine incerta, quando va bene, o illegali, quando va male, noi agricoltori lo sappiamo fin troppo bene. Basta guardare i prezzi e assaggiare il contenuto di certi prodotti DOC o DOP distribuiti nella grande distribuzione oppure venduti in larghe quantità all'estero. Prodotti che magari non uccidono la gente - come erroneamente enunciato da L'Espresso - o che viaggiano sul filo delle direttive di legge - quelle in cui è inciampato il New York Times... Prodotti, però, che uccidono le Denominazioni di Origine e rischiano di uccidere il lavoro artigianale di migliaia di agricoltori italiani. 
E allora, come agricoltore produttore di vino e di olio originariamente italiani, a me piacerebbe che il giornalismo "indipendente" non scadesse in queste polemiche piccole, in qualche modo autoreferenziali, quasi da casta o corporazione/Ordine dei giornalisti... A me piacerebbe che il giornalismo indipendente si schierasse definitivamente e scendesse in campo a viso aperto in quella che - a tutti gli effetti - è la battaglia del secolo per i contadini di tutto il mondo: quella per la sopravvivenza. Si schierino i blog, i giornalisti free-lance, i vari neo-comunicatori: con certe industrie dell'alimentazione che stanno distruggendo l'agricoltura italiana o con i contadini-artigiani che provano una nuova resistenza. 

PS Ovviamente questa resta una mia opinione personale, esattamente come lo era - pur di segno differente - quella di Maurizio Gily. Sarebbe il caso che in questo disgraziato paese la si smettesse di querelare per ogni sciocchezza e ad essere perseguiti per delle opinioni, anche se espresse in modo forte e deciso.          

mercoledì 20 luglio 2011

Genova, dieci anni fa

Eravamo giovani e avevamo ragione. Ed è piuttosto inglorioso per i tanti che hanno pontificato, di destra e di sinistra, riconoscere oggi questa semplice verità. 
"Ho deciso di scrivere No logo quando mi sono resa conto che... tendenze apparentemente distinte erano unite da un'idea: che le aziende debbano sfornare marchi, non prodotti. Era l'epoca in cui gli amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è un'azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l'idea della trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di caffetterie, è l'idea di comunità. ma qui sul pianeta Terra, queste intuizioni hanno avuto conseguenze concrete. Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano tanti dipendenti a tempo indeterminato sono passate al modello Nike: hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea..." (Naomi Klein, The Guardian).
Nel frattempo anche le DOC sono in mano ai geni del branding. E di qui a poco non si produrranno più vini ma "etichette". 

lunedì 7 febbraio 2011

Pane e libertà

Pane o libertà? Il mio post precedente citava un report della Fao sul prezzo del cibo, i commenti hanno finito col parlare di libertà. Giusto così. Eppure non riesco a togliermi dalla testa il Manzoni e la rivolta del pane in cui si trova coinvolto Renzo. (Qui il link ad un bel pezzo  che ne parla).
La realtà è che l'ottantanove arabo è qualcosa di straordinario e preoccupante. Ho chiesto di scriverne a Giovanni Bochi, antropologo specializzato in mondo arabo che ha vissuto a Il Cairo, oltre che in Libano e Siria. Queste le sue parole:
"La rivolta democratica e anti-autoritaria che ha investito l’Egitto ha sorpreso molti analisti: a guidarla non sono i Fratelli Musulmani, il gruppo di opposizione più popolare e organizzato, ma le giovani generazioni istruite, frustrate dalla mancanza di libertà civili e dalla cronica disoccupazione. Gli slogan di Piazza Tahrir non hanno come obiettivo Stati Uniti e Israele, quanto il regime di Mubarak, che da trent’anni ha imposto sul paese lo stato di emergenza. Ad accrescere il malcontento, soprattutto fra i ceti popolari, è stato l’aumento dei prezzi alimentari, in un paese che importa larghe quantità di grano dall’estero. Mentre i dimostranti premono per le dimissioni di Mubarak, dietro le quinte prende forma una “transizione morbida” dalla crisi. Protagonista sembra essere il vice-presidente Omar Suleiman, ex-capo dell’intelligence con solide credenziali militari. Questa sembra l’opzione suggerita dalle cancellerie occidentali, per le quali un improvviso vuoto di potere può aprire scenari di caos e radicalizzazione politica sul modello della rivoluzione iraniana del 1979.  In questo senso vanno interpretati i tentativi del regime di riportare il paese alla normalità, con un misto di aperture politiche e repressione: da una parte, Suleiman ha fatto alcune concessioni, aprendo un tavolo di trattative con le opposizioni; dall’altra, continuano gli arresti e le intimidazioni nei confronti di giornalisti e attivisti politici. La variabile indipendente è costituita dalla resistenza del movimento di protesta, nato e cresciuto grazie a Facebook e Twitter. Nessuno dei partiti di opposizione, a partire dai Fratelli Musulmani, sembra infatti in grado di orientarne e controllarne  gli umori. Anche la marginalizzazione e la progressiva uscita di scena di Mubarak, tuttavia, potrebbero non garantire un vero sbocco democratico.  Aldilà della personalità del rais, il regime egiziano si fonda un esteso apparato militare e poliziesco, che ha vaste ramificazioni nella società così come nell’economia. Vera cartina di tornasole della crisi è l’esercito. Fino ad ora, ha assunto una posizione neutrale, che gli ha guadagnato la simpatia dei manifestanti anti-Mubarak e il sostegno implicito dell’amministrazione americana.  Anche l’esercito, tuttavia, è parte integrante del regime egiziano: sotto Mubarak le alte sfere militari hanno beneficiato di molti privilegi, che non sono intenzionati a perdere.  Se le proteste di piazza dovessero intensificarsi, con l’obiettivo di forzare la caduta del regime, allora l’esercito dovrebbe decidere da che parte stare".