Riporto uno stralcio da "Come vignaioli alla fine dell'estate" che mi sembra particolarmente calzante rispetto a quanto succede in Ucraina, soprattutto pensando alla questione energia/clima/stati-nazione.
Da una vigna puoi capire molto bene alcune questioni del contemporaneo.
Le vigne hanno dei confini naturali o artificiali molto netti. Spesso quelle storiche, soprattutto in Borgogna, sono dei clos, cioè degli spazi delimitati da muretti a secco. Altre volte a far da limite sono viottoli o fossi o canneti oppure file di alberi (si pensi ai cipressi toscani). Spesso questi confini delimitano, se crediamo al principio del terroir, identità ben precise e differenti. Ma anche delle «sovranità»: i proprietari del fondo determinano cosa piantare, chi far lavorare, quando raccogliere, ecc. E spesso accade che tra un clos e l’altro non sia solo la natura a far la differenza, ma anche l’uomo.
Il momento che stiamo vivendo è l’onda lunga delle prime recinzioni di terre comunitarie, le enclosures che furono alla base del capitalismo moderno e della Rivoluzione industriale. La recinzione delle terre comuni sono state anche alla base della Grande Trasformazione (1) e, dunque, anche di quello Stato-Nazione che oggi viene richiamato da destra e da certa sinistra come salvifico gommone di salvataggio contro la globalizzazione cattiva. Senza accorgersi, invece, che proprio come le enclosures furono incentivate dallo Stato per facilitare la ricca aristocrazia rurale inglese, così la globalizzazione si è ser- vita degli Stati nazionali per imporre la sovranità della finanza sul mondo reale.
È l’assurdo di un mondo capovolto, nel quale la Cina comunista vuole apparire come «aperta» al commercio e l’America di Trump diventare protezionista. Dov’è la sovranità? Nei parlamenti nazionali o nei consigli di amministrazione delle multinazionali? Nelle deboli, e spesso corrotte, strutture sovra-nazionali o nella liquida ed efficiente intelligenza del Capitale contemporaneo?
Perché la verità è che lo scontro tra globalisti e sovranisti è solo un altro modo per fottere quello che rimane della working class. Che ci perde in ogni caso.
Tutto questo lo puoi vedere da una vigna.
Che cos’è la sovranità d’altronde se non il potere su di un territorio? Potere e territorialità. La terra è da sempre anzitutto una geografia su cui instaurare un potere. Nella mia vigna, all’interno di confini ben delimitati sulle mappe catastali, c’è la mia sovranità di proprietario, ma essa coesiste con una legisla- zione regionale, statale, europea e persino globale che rendono il mio potere su quella porzione di terra fortemente limitato: non posso, ad esempio, impiantare una vigna nuova senza aver ottenuto diritti di impianto; non posso impedire ai cacciatori di passare e cacciarci dentro; non posso usare alcuni pro- dotti chimici, giustamente vietati; oppure sono costretto a usarne alcuni in casi di emergenze fitosanitarie.
Quello che è accaduto nel nostro pianeta sotto la spinta della tecno-scienza e delle trasformazioni dei modi di produzione degli ultimi decenni è anche, e soprattutto, la riduzione dello spazio geografico, antropologico e sociale. Nel villaggio globale l’Homo oeconomicus è specie dominante uguale a se stessa indipendentemente da ogni particolarismo. Siamo consumatori globali, ma non siamo cittadini del mondo. C’è una scissione tra bisogni, aspirazioni, immaginari globali e diritti e sovranità locali e limitati. Da questo punto di vista siamo o potremmo essere tutti migranti economici: di fronte al movi- mento libero del capitale, ai disastri ambientali sempre piùfrequenti, alle guerre delle quali perdiamo memoria, a distanze sempre meno rilevanti, di fronte a immaginari reali e virtuali sempre più condivisi e attesi che si scontrano con confini sempre più stringenti.
La forzatura di massa dei confini nazionali potrebbe essere una delle cifre maggiori del prossimo futuro, una forza prepotente di cambiamento che correrà parallela alla forza naturale/artificiale del cambiamento climatico: ecco perché meticciato e libertà di movimento sono diventate «la» prima emergenza per i difensori di un presunto conservatorismo oramai fuori tempo massimo.
Viviamo una cesura storica senza precedenti. La terza rivoluzione industriale ci consegna un mondo che è solo un lontano parente di quello esistente 250 anni fa. Dopo la Prima rivoluzione industriale, basata sulla forza motrice dei «carburanti», dopo la Seconda rivoluzione industriale incentrata sulla chimica, la rivoluzione digitale, con tutte le sue applicazioni diffuse, ha stravolto non solo le economie ma anche le relazioni spazio-temporali tra gli umani. Eppure cerchiamo di governare questo mondo attraverso infrastrutture istituzionali vecchie e superate, pensate per abitare una realtà che non esiste più.
Si potrebbe, invece, guardare alle piante. Alla loro capacità di decentrare le decisioni: «in generale, le piante distribuiscono sull’intero corpo le funzioni che gli animali concentrano in organi specifici (...). In un certo senso la loro organizzazione è il segno stesso della modernità: hanno un’architettura modulare, cooperativa, distribuita e senza centri di comando, in grado di sopportare alla perfezione predazioni catastrofiche e ripetute» (2). Al contrario di quanto si pensa, in natura le gerarchie sono rare e funzionano male. Le complessità vengono risolte non attraverso logiche di potere, ma attraverso i principidi un’intelligenza collettiva. Nella loro storia evoluzionistica i vegetali hanno risolto i problemi posti dall’ambiente in modo molto diverso dagli animali. Radicamento profondo in un luogo e capacità di vagabondare pressoché illimitata di semi e spore: le piante possono apparire davvero come un modello per le comunità umane del futuro alle prese con un pianeta sempre più piccolo.
Oggi la potenza e la velocità del cambiamento in atto condurranno al dissolvimento delle vecchie strutture «sovraniste», non al loro consolidamento. «L’antropocene richiede un mutamento delle visioni consolidate del governo e della legittimità (...) Il vecchio modo di vedere la responsabilità e l’impatto dell’azione individuale non è più adatto all’Antropocene per via degli aspetti collettivi, sistematici e permanenti della nuova interazione fra umanità e natura» (3). Come la Grande Accumulazione sfociata nella Prima rivoluzione industriale ha portato alla fine del feudalesimo e alla costruzione di nuove istituzioni politiche, così la Grande Accelerazione, prodromo alla rivoluzione digitale, non potrà che mettere sempre più in sofferenza l’intero impianto normativo contemporaneo. Costringendoci a rivederne «le sue vecchie fondamenta politiche se non vogliamo vedere il nostro sistema globale spinto a forme di collasso sempre più estreme. Questo non è un piccolo sforzo: occuperà la parte maggiore di questo secolo. Non sappiamo ancora dove porterà» (4).
Niente sarà più come prima nell’Antropocene.
Nemmeno la vigna che ho davanti agli occhi. Nemmeno i vini che ne verranno fuori. Non ci sarà alcun grand-cru classé a poter resistere a questa sovversione e qualunque idea di un terroir immobile, cristallizzata dentro disciplinari, pensata per la protezione di vitigni o parcelle indifendibili, è destinata a franare. Con buona pace di ogni sovranità immaginata dentro ai muretti a secco dei clos.
Note:
1) Karl Polanyi, "La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca", Einaudi, Torino 2010.
2) Stefano Mancuso, "Plant revolution", Giunti, Firenze 2017, p. 145.
3) Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, "Nell’Antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo", DeriveApprodi, Roma 2018, pp. 190 e 191.
4) Rana Dasguspta, "The demise of the nation state", The Guardian, 05/04/2018.