martedì 30 ottobre 2007

Vini di vignaioli

Domenica e Lunedì, 4 e 5 novembre, sarò nuovamente in quel di Fornovo Taro per la fiera "Vini di vignaioli/Vins de vignerons". E' una bella manifestazione, ideata ed organizzata da Marie Christine Cogez oramai da 5 anni. Una fiera viva, piena di bravi vignaioli e di vini veri, frequentata da appassionati e professionisti. Una occasione divenuta importante per capire lo stato dell'arte per quanto concerne i vini "artigianali", direi anche contadini, vini che - senza cadere nella retorica dei disciplinari ad ogni costo - vengono fatti nel modo più naturale possibile.
Posso dire di esserci stato fin dall'inizio, sebbene non abbia partecipato alla prima edizione, e fin da subito, quando la fiera era solo una piccola esposizione di vini in uno stanzone nemmeno troppo bello, avevo colto la ricchezza di relazioni e di emozioni che si era venuta a creare fra vignaioli italiani e francesi che condividevano lo stesso approccio al vino.
Non posso fare altro, quindi, che invitare il maggior numero di appassionati a visitarci per conoscere una fiera certamente di grande valore. Per chi desiderasse maggiori informazioni è possibile visitare il sito: http://www.vinidivignaioli.com/

giovedì 18 ottobre 2007

Vendemmia 2007 - Parte terza

Le fermentazioni stanno rallentando. E' possibile cominciare ad avere un'idea più precisa di quali vini posso aspettarmi dalla vendemmia 2007. Innanzitutto la produzione. Mai così scarsa da quando produco vino. Fortunatamente sono riuscito a raccogliere un pò di uva da un nuovo vigneto in affitto che era stato abbandonato dal proprietario. E ho un piccolo conferitore certificato bio dove ho potuto gestire personalmente la vendemmia. Altrimenti erano cazzi.
Ho usato pressioni davvero bassissime per avere un mosto fiore dal colore accettabile. E' l'unica via per chi fa vini naturali, in annate come queste in cui la buccia spesse volte era marrone per le scottaure, per ottenere mosti fiore decenti, non marroni e non amari. Il che ha provocato, oltre alla bassa resa in vigna, una bassa resa in mosto. Il 2008 non potrà che vedere, quindi, un aumento dei prezzi.
A inizio fermentazione c'era da mettersi le mani nei capelli, perché i mosti erano assolutamente neutri, privi di carica aromatica, scarichi. Poi man mano si sono dischiusi i primi profumi. Nulla di trascendentale pensando agli agrumi, all'anice ed alla menta fresca dei mosti 2006. Però sono usciti dei sentori interessanti di arancia candita, di mandarino, di albicocca. Rispetto al balsamico dell'anno scorso predomina una sensazione di frutta matura e secca. Attendo che l'evoluzione porti con sé naturalmente quella vena minerale classica dei miei vigneti, in modo da ottenere vini un pò più dritti e scattanti. Le acidità sono ancora buone, grazie al grande anticipo nella vendemmia. Soprattutto, mi soddisfano i PH, più bassi anche dello scorso anno e del 2005, mi ricordano quelli del 2004. Tutto questo per quanto riguarda i bianchi. Per quanto concerne il rosso credo che, vista la scarsità di produzione, il Nocenzio 2007 non vedrà proprio la luce. Il Montepulciano ha reso la metà dello scorso anno, come del resto il Sangiovese. E' un peccato perché il poco vino prodotto è di una potenza e di una eleganza incredibili.
Sono molto soddisfatto sinora delle operazioni di vinificazione che, per la prima volta, sono avvenute - per tutti e tre i vini - col solo uso di qualche grammo di solforosa, cioé senza lieviti selezionati, prodotti azotati, enzimi, chiarificanti, tannini enologici. E' arrivato a compimento, quindi, quel progetto di vinificazione naturale iniziato nel 2004 e progressivamente sviluppatosi passo dopo passo, eliminazione dopo eliminazione. Con l'obiettivo di restituire nel bicchiere esclusivamente il territorio e la stagione. Certamente resto dell'opinione che preferisco fare vini buoni che siano i più naturali possibili (ciòé non rifiuto a-priori alcuni limitatissimi interventi, se necessario) piuttosto che fare vini naturali e basta. Perché mi è capitato di assaggiarne alcuni al limite della potabilità. La qual cosa, se non altro per una idea di rispetto per il consumatore, mi lascia un pò interdetto.
In ogni caso mi pare una annata di medio livello, ma da valutare attentamente con l'evoluzione nel tempo.

venerdì 12 ottobre 2007

Magic

Fra i tanti difetti che ho, uno dei peggiori è che sono uno sfegatato springsteeniano. Se vi chiedete perché questo sarebbe un difetto vi consiglio la lettura di "Accecati dalla luce" edito da Gianluca Morozzi per Fernandel. Oppure chiedete a mia madre.
Non poteva mancare, quindi, una mia opinione sul suo ultimo lavoro, Magic. Innanzitutto confesso che, come promesso al mio amico Daniele questa estate, per ascoltare il disco ho aspettato l'uscita del vinile. Da qualche mese sono tornato, infatti, ad acquistare quasi solo vinili. Non sto qui a spiegare perché, magari ne scriverò prossimamente.
A scanso di equivoci dico subito che aspettavo questo disco da più di vent'anni. Questo disco nel senso di un disco come questo. Un disco che Bruce non è stato in grado di, o non ha voluto, pubblicare per più di due decenni. E lo dico ben sapendo che la sua voce non è più quella di vent'anni fa, che Brendan 'O Brien non è forse il produttore giusto per la E street Band, che la copertina non è granché, che certi suoni sono bruttini... Però di fronte ad un pugno di canzoni bellissime e suonate in modo splendido alcune critiche circolate in rete mi hanno davvero stupito. Perché questo è un grande disco, cosa che non erano né The RisingDevil and Dust. Ma soprattutto questo è un disco di grandi canzoni rock, pure, semplici, dirette, mainstream, springsteeniane. Ed è perlomeno da Born in the USA che non sentivamo nulla di simile. Ho letto critiche che parlano di un disco "di mestiere", di "mancanza di ispirazione", di un disco pensato solo per il live. Ognuno certamente avrà i suoi gusti e le sue preferenze. Quello che a me sembra, è che questo sia un disco che cresce incredibilmente ascolto dopo ascolto. Che ci sia più buona melodia in una singola canzone di questo disco che in tutto The Rising. Che sia un pò come il maiale nelle campagne di una volta, non si butta vi niente; non c'è una sola canzone debole o scarsa. La qualità media della scrittura (melodie e testi) è alta. Ed in più ci sono canzoni davvero bellissime: Long walk home sarà un classico, Radio Nowhere è il più bel singolo di Springsteen dai tempi di Hungry Heart, Girls in their summer clothes è una melodia straordinaria, degna del miglior Brian Wilson, I'll work for your love è puro Springsteen style rock'n'roll, Gypsy biker sembra un pezzo di Lucky Town suonato dalla E street (il che è quasi un sogno), Last to die è una botta come lo era Roulette ai tempi belli. La band è di nuovo la band, con la sua potenza e i suoi ricami, e non è quell'insieme di buoni turnisti che pareva su The Rising. Si sente di nuovo Danny, vivaddio, con i suoi discreti tweeeee tweeee, si sente un muro di chitarre e c'è materia finalmente per il grande Max, grandissimo davvero per tutto il disco. Mi spiace per i tanti falsi web giornalisti e per i neo-springsteeniani sboroni ma a riascoltare The Rising dopo questo disco si percepisce quanto loffio fosse.
Vengo ai testi. Certo non siamo di fronte a Jungleland o Darkness. Ma se pensiamo che ci siamo dovuti sorbire Secret Garden e Sad eyes, ragazzi non scherziamo! Le liriche sono molto buone e raccontano personaggi vaganti alla ricerca di qualcosa, spiriti fraintesi fra ciò che è vero e ciò che non lo è, con una cifra generale che è quella dello smarrimento, della paura, di nuove fughe, di movimento senza quiete, lontano da un mondo dominato da relazioni sociali disgreganti, alienanti, sfasciate, da città che sono in rovina o in fiamme. E sullo sfondo, costantemente, fra metafore ed accuse evidenti, quella guerra che sta ricacciando l'america indietro nel tempo. Alla faccia di chi ci ha detto, casa discografica in primis, che questo non era un disco "politico": è il disco più politico di Springsteen da Born in the USA, se si considera Tom Joad un disco di denuncia sociale. Qui la magia non è quella di Born to run, qui si intendono i giochi di prestigio di un governo che fa credere quello che non è, che falsa il gioco, che cambia il significato stesso delle parole libertà, democrazia, pace. "The freedom that you sought's driftin' like a ghost amongst the trees, this is what will be" oppure "You said heroes are needed, so heroes get made. Somebody made a bet, somebody paid". E poi ci sono le bare del cimitero dove verrà seppellito il motociclista gitano: "You slipped into your darkness, now all that remains is my love for you brother lying still and unchanged to them that threw you away... Now I'm counting white lines, countin' white lines and getting stoned my gypsy biker's coming home". E ancora gli errori di Last to die: "Who'll last to die for a mistake, whosw blodd will spill, whose heart will break...". Persino in un pezzo spensierato come Livin' in a future, nel contesto di una crisi di coppia si fa riferimento alla delusione per le elezioni con una emblematica nave chiamata "Liberty" che se ne naviga lontano verso un orizzonte rosso sangue.
Ma in questo sfacelo ecco apparire una strada, un sentiero, quello che Bruce indicava ai tempi del Vote for Change, quel concetto di comunità locale che può rendere l'individuo meno solo, che costituisce a sua volta comunità più grandi e complesse. E' una lunga strada verso casa, a Long walk home, questo muoversi senza una meta apparente, fuggendo l'oscurità. Una casa che non sono solo quattro mura dove rinchiudere le proprie incertezze, ma una casa che è invece una comunità che ti abbraccia, dove non sei affollato ma nemmeno solo, dove c'è una bandiera, che in fondo è quella stessa bandiera che stava sulla copertina di Born in the USA. "You know that flag flying over the courthouse, means certain things are set in stone. Who we are, what we'll do and what we won't". Springsteen riparte dai padri fondatori, come sempre. Da quella Costituzione calpestata dall'attuale amministrazione. E dà una direzione ai suoi nuovi spiriti vaganti. "Everybody has a neighbor, everybody has a friend, everybody has a reason to begin again". Questo è Bruce. Questo è il rock con cui sono cresciuto e che mi fa battere il cuore.
Tutto bene? Ovviamente no. La voce certamente non è più quella di un tempo, appesantita anche da una produzione forse eccessiva. I suoni non sono indimenticabili e certi arrangiamenti sono ridondanti. Forse una produzione alla Steve Van Zandt vecchi tempi avrebbe arricchito ulteriormente i pezzi facendo di Magic il capolavoro della maturità di Springsteen. Invece ci tocca ancora una volta avere dei rimpianti.
Ma quando il pianoforte annuncia l'inizio di Terry's song non posso che pensare a quando urlavamo "Terry!" da sotto il palco a Genova o a Nizza, con Massi e il Lello, e ascoltare in silenzio una ballata meravigliosa, sicuro che erano vent'anni che aspettavo un disco come questo. Semplicemente un disco di Bruce e della E street band.

mercoledì 10 ottobre 2007

Domanda banale

La domanda più banale cui mi tocca di rispondere da sette anni a questa parte, e cioé da quando Valeria ed io ci siamo trasferiti a Cupra, è se mi manca Milano. Poiché ottobre era per me il mese più bello a Milano, ci provo a sentire una specie di nostalgia per quella che tuttora considero la "mia città". Mi ci metto di impegno.
E allora posso dire che mi mancano le zingarate a qualche festa fighetta insieme agli amici di sempre, le birre al Nidaba con Massi, magari ascoltando Joe Valeriano, mi manca pisciare sotto il ponte della Darsena alle tre del mattino, sedermi sul letto di camera mia a improvvisare per ore schifosi pedaloni psichedelici con mio fratello, mi manca il sabato pomeriggio al Jungle col Tenca e magari fedrone, l'alba di certe domeniche insieme a Ivano e Claudio quando si andava ad arrampicare, mi mancano le gite a Piacenza a mangiare lo gnocco fritto col Bianco e Izio e JointVanni, che se poi ci facevano il palloncino altro che patente a punti, mi mancano il rubare vestiti alla Rinascente con Paola o il parlare di politica con Riquiz nel bar dietro il Manzoni, le peregrinazioni notturne al Leonkavallo, quello vecchio, mi mancano le corse alla cavallina in Piazza Sraffa col Mala, Daniele, Pedro e Fede, scavalcare la vecchia recinzione del Meazza per vedere concerti o partite del Milan, le prime degustazioni di vino nei primi wine bar della prima rivoluzione enoica milanese, e potrei continuare per ore con un noiosissimo elenco. E alla fine dell'elenco scoprirei che non è Milano a mancarmi, ma certe persone e forse anche un pò i miei vent'anni.
Dunque si fa molto più presto, per rispondere alla domanda banale, a dire che no, Milano non mi manca per niente. E poi perché dovrebbe?

venerdì 5 ottobre 2007

Lungo il Grande Fiume - Parte prima

In attesa della prossima consueta visita in terra francese in novembre, con la solita banda di degustatori-beoni-gaudenti-fintiesperti-enologi-da-strapazzo, posto il racconto dell'uscita dello scorso anno lungo il Rodano.

Raggiungiamo il gite rural da noi prenotato che sono le tre e mezzo di notte. L’aria è calda, considerando che siamo prossimi all’inverno. Svegliamo la proprietaria, che ci mostra le stanze e ci ricorda l’ora della colazione. E’ gentilissima, nonostante il nostro imperdonabile ritardo. L’accoglienza gentile e professionale di tutti gli operatori, nelle chambres d’hotes come nelle cantine e nei ristoranti, sarà una caratteristica piacevole e apprezzata durante tutto il nostro soggiorno.
Il Rodano ci accoglie con il suo immenso alveo, solcato da raffiche di vento che ne increspano la corrente rendendolo ancora più impressionante. La collina dell’Hermitage vista dal ponte che collega Tournon a Tain è uno spettacolo imperdibile anche per chi non è un appassionato di vino. Gli enormi cartelloni “pubblicitari” delle cantine poste sui crus aziendali, più che infastidire lo sguardo, paiono quasi far parte del paesaggio con la loro veste vecchia e decadente.
La denominazione madre, AOC Cotes du Rhone, si estende su una zona molto ampia dal sud di Lione fino ad Avignone. Si tratta di una geografia molto complessa dal punto di vista geologico, climatico, agronomico, enologico. Tanto che i vini che ne risultano sono spesso completamente differenti. La qualità media di questa denominazione appare molto buona e i prezzi sono corretti, per non dire accessibili. Non si può dire che sia una AOC di “ricaduta”; semplicemente vengono orientati a questa denominazione i vini provenienti dai territori più fertili, meno complessi, e con rese un po’ più alte.
La Cote du Rhone settentrionale coi suoi famosi Crus è la patria della sirah. Un vitigno che proprio a questi luoghi deve la sua fama mondiale. Qui la vite, importata dai romani dopo la sottomissione delle fiere tribù galliche, ha trovato un habitat fantastico, dove il duro lavoro dei vignaioli per la coltivazione su pendenze spesso durissime e su suoli aridi, per il mantenimento dei terrazzamenti, per la costruzione e manutenzione dei muretti a secco, è stato ripagato dal raggiungimento di una combinazione fra vitigno, suolo e tradizione riscontrabile davvero in poche altre realtà viticole.
Da subito assaggiamo vini magnifici dove, in generale, risulta preponderante la ricerca della finezza sulla concentrazione. In cui, spesso, il terroir vince sul vitigno, regalando sempre eleganze, armonie e complessità.
Il poco tempo a disposizione ci fa compiere scelte spesso difficili nella selezione dei produttori; altre volte, come nella caso della rinomata Maison Guigal non ci è possibile essere accolti. Ma il quadro risulta comunque chiaro. Ed è il quadro raffigurante una situazione produttiva e commerciale per nulla in crisi, dove le scelte compiute da viticoltori e grandi maison è quella di produrre vini senza grandi compromessi con il mercato e con una fortissima identità. Quando accade che si voglia strizzare l’occhio ad un consumatore globale in cerca di vini “più facili”, ciò avviene su fasce di prezzo elevate, ma per vini in cui la sostanza è sempre davvero importante.
Ciò che ci colpisce subito, in particolare, sono la semplicità delle vinificazioni e la non eccessiva tecnologia presente nelle cantine. Qui appare davvero evidente come buoni contadini con grandi terroirs possano produrre vini importanti senza una chimica invadente o una tecnologia soffocante.
I rossi sono giocati tutti sulla finezza di una sirah che non risulta mai banale, grezza o stancante. La mineralità dei Cote Rotie si alterna al caldo frutto degli Hermitage, la grazia dei Saint Joseph alla potenza delicata dei Cornas. Sono i bianchi a fare più fatica. L’incredibile pulizia olfattiva lascia spesso il posto ad una generale mancanza di acidità che impedisce al palato di uscire rinfrescato. Sono bianchi caldi, morbidi, dominati da toni mielati. Diventano intriganti con l’evoluzione ma sempre senza entusiasmi clamorosi.
Fra la parte settentrionale e quella meridionale della Cotes du Rhone ci sono più di cento chilometri. In mezzo non vi è viticoltura. Questa cesura geografica si rivela tale anche per quanto concerne la tipologia di vino prodotta, e non poteva essere diversamente.
La Cotes du Rhone meridionale è dominata dalla Grenache, sebbene quasi mai usata in purezza. Dominano vini concentrati, potenti, dalla trama tannica fittissima. E’ una zona più eterogenea, fondamentalmente perché la valle del Rodano è in questa parte larga, si apre su una pianura che arriverà in breve fino al mare. Siamo sostanzialmente in Provenza, dunque anche le temperature si fanno molto più elevate.
Scegliamo di iniziare i nostri assaggi dalla zona dei Cotes du Rhone Villages, una zona in grande crescita e con notevoli potenzialità. In particolare i Cairanne e i Rasteau destano in noi un certo interesse, accanto ai più blasonati Gigondas e Vaqueyras.
Sono vini moderni, con concentrazioni importanti, a partire dal colore, frutto di vitigni come la mourvedre, dalla grande potenza tannica, e di una sirah più mascolina che al nord. I suoli vedono argille, sabbie e limo fondersi con residui alluvionali ricchi di pietre e scheletro di roccia madre, principalmente il calcare dominante tutta la Provenza.
Viaggiando sulla strada del vino ci accorgiamo che il territorio è stupendo, con colpi d’occhio maestosi su vigneti, ulivi e cipressi che arriva sino alla piana del Rodano da una parte e fino alle pendici del Mont Ventoux dall’altra. E’ una terra dove la calura estiva è davvero incredibile e costantemente battuta da venti importanti. Proprio il vento e una certa elettricità dell’aria sembrano confermare la tesi di un magnetismo strano proveniente dal Mont Ventoux, il Monte calvo, famoso per alcune mitiche tappe del Tour de France.
Lasciateci alle spalle le falde del Mont Ventoux arriviamo a Chateauneuf du pape. La più famosa delle denominazioni del sud ci accoglie con vigneti che paiono cave per la quantità di sassi e ciotoli presenti. Spesso non esiste proprio terra, se non negli strati inferiori. E allora più che di terra bisogna parlare di strati limosi completamente sciolti. Le basse colline altro non sono, infatti, se non i depositi alluvionali del Rodano che qui inizia la sua ultima corsa cominciando ad allargarsi in quel delta che pochi chilometri più a sud diventerà la Camargue. E’ una viticoltura che deve combattere contro il grande caldo della pianura provenzale circostante e che la pietra non fa altro che rimbalzare sulle viti. Unico aiuto è il Mistral, vento da nord secco e fresco, che asciuga l’umidità del grande fiume e tende a mitigare la canicola estiva. Il mix di queste condizioni regala vini sempre molto potenti ma che non mancano di una certa finezza.
La grande concentrazione tannica dei vitigni del sud viene affrontata cercando di vendemmiare seguendo la maturità fenolica, il che produce inevitabilmente gradazioni alcoliche impetuose. L’arte del taglio si eleva quindi a vera dominate enologica dovendo i produttori confrontarsi con 13 vitigni differenti ammessi, fra bianco e rosso, e differenti scelte vendemmiali.
Prima di un’ottima cena visitiamo le rovine della antica residenza papale, battute da un instancabile vento. Proprio alla presenza della corte papale deve la fama il vino di questi luoghi. E’ l’ennesimo esempio di come la grande Storia umana si svolga nel tempo seguendo strade affascinanti.
Quando ripartiamo per l’Italia c’è ancora lo strano caldo che ci ha accompagnato per tutta la nostra permanenza. Ci segue fino al tunnel del Frejus, insieme al magnetismo del Mont Ventoux e al ricordo della vista sul Rodano dalla cappella dell’Hermitage. Dopo, è tutta un’altra storia.

Per dormire:

CHANOS CURSON
Gite de France: LA FARELLA.
Les Champs Ratiers
Tel. +33 (0)4 75073544
http://www.lafarella.com/

COURTHEZON
Maison d’hotes ANNONCIADE
M.me PASSCHIER
1185 chemin St Dominique
Tel. +33 (0)4 90708722
http://annonciade.chez.tiscali.fr

Per mangiare:

TOURNON SUR RHONE
Restaurant et Hotel LA CHAUMIERE
Quai Farconnet

CHATEAUNEUF DU PAPE
Restaurant et Hotel LA MERE GERMAINE
3 Rue du cdt Lemaitre