Straziato da una campagna elettorale devastante nella sua mediocrità (detto da uno che non guarda neppure la televisione da sei anni), avevo deciso di non votare. Non che fosse una novità, mi è successo spesso, di non votare.
Stavolta l'avrei fatto con ancora più convinzione del solito, visto l'orrore in campo.
Quello che, però, sta accadendo nel ventre più profondo delle società italiane ed europee (verrebbe da dire: mondiali) necessita di una presa di posizione.
Serve a niente. Ma voterò antifascista. Come segnale, come inutile atto di resistenza (peraltro la mia intera esperienza politica è stata sotto questo segno, dunque ci sono piuttosto abituato. Con l'età nemmeno ci soffro più).
Voterò, però, con in mente due figure fondamentali - ed ovviamente sempre più dimenticate - dell'Italia e dell'Europa del passato recente: Alex Langer e Lucio Magri.
A loro voglio dedicare il mio "voto situazionista", il mio gesto inutile dentro una democrazia svuotata. A loro che molto avevano capito. A loro che sono morti entrambi suicidi perché gli era insopportabile vivere in un mondo che andava in una direzione opposta e contraria a quella del loro impegno politico e civile.
Ad Alex Langer, pacifista, verde, cattolico illuminato, che aveva visto chiaramente nel risorgere dell'odio etnico in Jugoslavia (e più in generale in Europa) e nella critica di un sistema economico inumano ed insostenibile i semi di una nuova crisi europea.
E a Lucio Magri, comunista libertario, che aveva perfettamente intuito la parabola finale di quel Partito Comunista Italiano, dal quale era stato prima espulso, poi riaccolto e infine disconosciuto nella corsa a perdifiato di PDS, DS, PD verso l'omologazione ed il centrismo interclassista.
In particolare mi piace ricordare, ai tanti di sinistra che ancora insistono nell'affermazione tatcheriana che "non c'era alternativa" (al mondo ad una dimensione, al pensiero unico, alla globalizzazione, al Mercato, alle "riforme", a "questa" Europa), che qualcuno, con grande lucidità e con un linguaggio ed un pensiero che dovrebbero appartenere sempre alla parola "politica", qualcuno aveva intravisto il percorso e l'approdo.
Per cui abbiate pazienza ancora un po' e leggete qui di seguito l'intervento di Lucio Magri contro la ratifica del Trattato di Maastricht nella seduta della Camera del 29 ottobre 1992.
Perché quel voto fu uno dei nodi di svolta della nostra storia recente. E piaccia o non piaccia, molti dei protagonisti di quella svolta siedono ancora in Parlamento (o ci vogliono rientrare), spesso raccontando le stesse balle a gli stessi illusi elettori di sinistra.
Le parole di Magri - ventisei anni dopo - sembrano scritte oggi e prevedevano con una lucidità disarmante il diluvio che stava per arrivare.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l’onorevole Magri. Ne ha facoltà.
Lucio MAGRI. Signor Presidente, i deputati del gruppo di rifondazione comunista voteranno contro il disegno di legge di ratifica del trattato di Maastricht. In questa scelta siamo, qui ed ora, molto isolati, una esigua minoranza a fronte di uno schieramento quasi unanime.
Ancora qualche mese fa la nostra sarebbe apparsa una scelta di pura testimonianza, rilevante solo per chi la compie. Ma ora non è più così, anche se nel Parlamento, che su questo tema è avaro non solo di presenze ma anche di pensiero e di analisi non retoriche, si stenta a prenderne atto. Maastricht è infatti diventato all’improvviso un problema aperto. La Danimarca ha detto «no» al trattato; in Francia metà del paese ha fatto altrettanto; in Inghilterra la maggioranza degli elettori, se potesse esprimere il proprio parere, direbbe di no ed anche il parlamento, in questi giorni, traballa; in Germania l’opposizione è estesa, così come in Spagna.
D’altro canto, proprio nel momento in cui si decide di accelerare l’unità europea partendo dalla moneta unica e dalle banche centrali, esplode la crisi dello SME: le banche centrali vanno ognuna per la propria strada e le loro scelte vengono aspramente contestate. Solo l’arroganza del potere, che si coniuga al luogo comune e determina la stupidità come prezzo necessario, e solo l’opportunismo che ciò genera negli oppositori benpensanti possono dunque spiegare il fatto che le nuove evidenze degli accadimenti non abbiano prodotto, qui e nel paese, quanto meno una riflessione nuova, un’articolazione reale di atteggiamenti. A noi, al contrario, questi fatti impongono e permettono di chiarire meglio le ragioni razionali del nostro «no» e di considerarlo l’inizio di una battaglia che diventerà rapidamente incisiva e che può conquistare forze nuove.
Quali sono dunque, in sintesi, le ragioni del nostro «no»? Innanzi tutto, il rifiuto di una Europa che nasca con un segno marcatamente autoritario. L’unità nazionale è nata in connessione con i primi passi della democrazia moderna; non vogliamo che l’unità continentale corrisponda al suo declino.
Ma è questo che sta accadendo, già nel modo in cui il trattato è stato discusso e definito — un accordo cioè tra Governi rispetto al quale i parlamenti nazionali possono solo dire «sì» o «no» —, ma ancora di più nella struttura di potere reale che l’accordo produce. I veri centri promotori e regolatori del processo di unificazione sono e saranno il consiglio delle banche centrali e l’integrazione delle strutture militari. E, se mai, del tutto parzialmente, resta in campo una sede politica che può avere influenza su di loro, tale sede è quella del concerto dei Governi.
A questo punto, dunque, si ratifica e si conclude un processo che durava da anni, che è un processo di trasferimento di potere non solo dallo Stato nazionale al livello sovranazionale, ma, attraverso questo, dalle istituzioni direttamente legittimate dalla sovranità popolare ad istituzioni politiche auto nome o a puri poteri di fatto. Il ruolo di comparsa in cui è sempre più relegato il Parlamento europeo, proprio in quello che dovrebbe essere il passaggio dalla Comunità economica all’unione politica, simboleggia questa realtà rovesciata. E mi pare incomprensibile, anzi patetico, il discorso di chi vota il trattato augurandosi che si possa presto completarlo con istituzioni politiche democratiche: Maastricht va esattamente nella direzione contraria.
La seconda ragione del nostro voto non è meno importante, ma anzi lo è ancora più ed è soprattutto più trascurata. Il trattato non fissa solo delle regole e dei soggetti abilitati ad applicarle; fissa anche, direttamente e indirettamente, un indirizzo. L’indirizzo è definito in estrema sintesi così: il funzionamento pieno di una economia di mercato, ma non nel senso — badate — ovvio e banale del riconoscimento del mercato, bensì nel senso di una radicale e sistematica riduzione di ciò che sussiste di non mercantile, cioè di tutti quegli strumenti attraverso i quali le democrazie europee nell’epoca keynesiana, cioè dopo gli anni trenta e soprattutto dopo il 1945, avevano appreso a governare gli eccessi del gioco cieco del mercato.
Così è esplicitamente e rigorosamente stabilito che le banche centrali non possono finanziare il debito pubblico; che è vietato stabilire prezzi e tariffe privilegiate per imprese o amministrazioni pubbliche; infine, che si istituisce una moneta unica emessa da una banca centrale indipendente dalle istanze democratiche, così come lo erano prima della grande depressione o come lo è oggi la banca tedesca, di cui pure si critica l’ottusità deflazionistica. Ciò che si crea non è dunque solo un potere concentrato, ma un potere usabile in molte direzioni: è, nel contempo, una certa struttura ed una sua direzione di marcia.
Un discorso analogo, anche se meno pregnante, si potrebbe fare sull’unificazione militare. Anche qui, non c’è alcuna unificazione di progetti politico-economici, di politica estera, ma solo la creazione di un apparato che, per sua natura e composizione materiale, è rivolto a garantire possibilità di intervento per arginare crisi che nascono alla periferia dell’Europa e che non si sa come prevenire.
Non meno conta, però, l’indirizzo che si definisce in modo indiretto. Ad esempio, con la perdita dell’autonomia monetaria restano allo Stato nazionale gli strumenti della politica di bilancio, ma solo in parte ed apparentemente, perché le politiche fiscali non unificate sono vincolate, anzi, dalla circolazione libera dei capitali a farsi concorrenza nel senso di essere più permissive per attirare risorse. Vincoli monetari e vincoli fiscali si sommano così nell’imporre la via obbligata del contenimento strutturale e non congiunturale della spesa pubblica, degli investimenti sociali o comunque a lungo termine.
Tutto ciò ovviamente non è del tutto nuovo. Ieri il Presidente Amato ha riconosciuto con insolita franchezza che l’Italia vive ormai in un regime di sovranità limitata, e non solo l’Italia, se è vero, com’è evidente, che anche paesi come l’Inghilterra, che non hanno un grande disavanzo pubblico, o come la Svezia ormai sentono il peso di un potere esterno cui non riescono ad opporsi. Ma di questa sovranità limitata Maastricht è una sorta di ratifica, di legittimazione definitiva, e il prossimo prestito che l’Italia otterrà dalla Comunità comincerà a definire già il primo protocollo delle sue clausole. Non è allora esagerato dire che disoccupazione e taglio dello Stato sociale sono inerenti al contenuto del trattato; il prezzo scontato della linea di politica economica in esso implicita ma molto rigorosa.
Vengo così alla terza ed ultima ragione del nostro «no». Nella logica di questo tipo di unificazione europea (ecco il punto che si dimentica) è non solo prevedibile, ma fatale, la prospettiva dell’aggregazione selettiva delle aree forti e dell’emarginazione ed esclusione delle periferie e semiperiferie. Non è vero, e soprattutto non è vero in questa fase, che il gioco di mercato, la supremazia dei parametri finanziari, la priorità del cambio tendano a promuovere un allargamento della base produttiva. Anzi, è evidente proprio il contrario: in assenza di politiche attive di sviluppo, le aree più deboli, financo all’interno dello stesso paese, regrediscono.
E così, mentre si solidifica un centro forte che tende ad attrarre ed integrare regioni limitrofe anche fuori dalla Comunità, si emarginano interi paesi più deboli.
La linea di confine — lo sottolineo — tra i due processi attraversa nel profondo la realtà italiana, il nord e il sud. Cosicché, se da un lato è probabile che l’Italia nel suo insieme non sia in grado di rispettare gli esorbitanti vincoli posti da Maastricht per il 1997, e sarà dunque costretta ad una rincorsa insieme affannosa e perdente, dall’altro lato in questa prospettiva dell’Europa a due velocità troviamo una chiave di lettura ed un moltiplicatore travolgente delle spinte secessioniste nell’Italia, nel prossimo futuro.
Maastricht non promette allora l’unità dell’Europa, ma in compenso promuove la divisione dell’Italia e, più in generale, una moltiplicazione, che già si registra ovunque, di spinte, passioni, interessi localistici e di subculture nazionali. Non è un passo imperfetto e parziale verso l’unità europea, ma il rischio della sua crisi.
C’era e c’è un’altra strada? C’era, a mio parere, e c’è. È quella coraggiosa di una costituente politica europea che produca insieme istituzione e soggetti politici unitari e democratici. È quella, dall’altra parte, dell’unificazione delle politiche economiche effettive come strumento di sviluppo orientate sulla priorità dell’occupazione, del risanamento ambientale, dell’allargamento della base produttiva regionale. Ma per percorrerla occorrerebbe costruire una sinistra politica e sindacale, riconquistare un’autonomia culturale rispetto alla genericità retorica dell’europeismo degli ultimi anni.
Su questo terreno il ritardo è però grandissimo.
C’è, e opera, un soggetto politico culturale forte, organizzato nel capitale internazionale. Esso ha i suoi strumenti nella circolazione dei capitali, addirittura una lingua propria: l’inglese impoverito dei managers.
La sinistra invece, e in generale le forze politiche democratiche, come soggetto europeo quasi non esiste. L’Internazionale socialista è ormai un involucro in gran parte vuoto. L’Internazionale comunista non c’è più, quella verde non è decollata, un’Internazionale cattolica non è mai esistita. Ecco, a maggior ragione, occorre per questo trovare un punto di partenza da cui invertire una tendenza, da cui risalire una china che porta ad una unità dimidiata e ad un’unità dai contenuti che ho descritto.
Il problema, per noi, è allora proprio questo. Il «no» a Maastricht e la lotta contro le sue conseguenze nei prossimi anni saranno una battaglia che permetterà di cominciare a costruire un’Europa diversa, un Europa democratica nelle sue istituzioni, socialmente definita nei suoi traguardi e nei suoi obiettivi.
Le ragioni del nostro «no» sono dunque contestuali ad un «sì» per un’Europa diversa. E constatiamo con grande stupore come tanta parte della sinistra italiana, su questo terreno, non abbia saputo trovare quanto meno gli accenti di una diversità, di un’alternativa. Come si fa a volere un alternativa in Italia, con questa ammucchiata senza forma sui grandi temi delle prospettive dell’Europa?
Vino e territorio. Musica e cultura. Pensieri, sogni e visioni di un Homo Sapiens di campagna
mercoledì 28 febbraio 2018
lunedì 19 febbraio 2018
La Musica Vuota on tour
Qualche presentazione del mio romanzo è in cantiere.
Macerata, Ancona e Bologna con format differenziati e in luoghi del cuore.
Nel frattempo grazie a "LaFeltrinelli" per la bella sinossi/recensione.
"Edoardo Alessi è un broker o “private banker”, come recita la targhetta nel suo ufficio, diviso tra carriera e affetti (la compagna Raffaella e l’amante Maria). Una passione sfrenata per la musica – ascoltata e suonata – ormai messa da parte da una carriera nel settore finanziario, il rifiuto della sua provenienza contadina, la vita vuota milanese, domande che a tratti lo attanagliano del tipo “Chi sei diventato?”. Se lo chiede spesso e non sa darsi risposta. Forse la può trovare tra gli appunti, i ritagli di giornale e gli scritti di una vita, suoi e del padre, che di tanto in tanto rilegge e che sono dispersi per tutto il romanzo. Una digressione continua (o forse, meglio, un flusso di coscienza), alternando ricordi e presente, tra viaggi per lavoro – anche in California e Messico – sempre a cavallo e in bilico tra la presenza di Maria e Raffaella, l’amico Ceska e, nel finale, lo zio di Edoardo. Corrado Dottori, qui alla sua prima prova narrativa, ci racconta una storia di vita, come tante, ma sicuramente con il pregio, e non è poco, di evitare facili rassicurazioni e autoindulgenze, in una ricerca di senso che tenta, questo sì, di evitare, o magari soltanto dimenticare, che a un certo punto (di non ritorno), se non si accettano compromessi, la nostra “musica” diventa vuota, quasi sempre. (forse)".
Macerata, Ancona e Bologna con format differenziati e in luoghi del cuore.
Nel frattempo grazie a "LaFeltrinelli" per la bella sinossi/recensione.
"Edoardo Alessi è un broker o “private banker”, come recita la targhetta nel suo ufficio, diviso tra carriera e affetti (la compagna Raffaella e l’amante Maria). Una passione sfrenata per la musica – ascoltata e suonata – ormai messa da parte da una carriera nel settore finanziario, il rifiuto della sua provenienza contadina, la vita vuota milanese, domande che a tratti lo attanagliano del tipo “Chi sei diventato?”. Se lo chiede spesso e non sa darsi risposta. Forse la può trovare tra gli appunti, i ritagli di giornale e gli scritti di una vita, suoi e del padre, che di tanto in tanto rilegge e che sono dispersi per tutto il romanzo. Una digressione continua (o forse, meglio, un flusso di coscienza), alternando ricordi e presente, tra viaggi per lavoro – anche in California e Messico – sempre a cavallo e in bilico tra la presenza di Maria e Raffaella, l’amico Ceska e, nel finale, lo zio di Edoardo. Corrado Dottori, qui alla sua prima prova narrativa, ci racconta una storia di vita, come tante, ma sicuramente con il pregio, e non è poco, di evitare facili rassicurazioni e autoindulgenze, in una ricerca di senso che tenta, questo sì, di evitare, o magari soltanto dimenticare, che a un certo punto (di non ritorno), se non si accettano compromessi, la nostra “musica” diventa vuota, quasi sempre. (forse)".
martedì 6 febbraio 2018
Macerata, Italia.
Il terrore che sento in queste ore viene dall'abisso fra il virtuale ed il reale.
La distanza ormai incolmabile tra il racconto di una città, di una nazione, in preda ad una emergenza epocale, ad una apocalisse biblica, ad una invasione. E la realtà, invece, di una città meravigliosa, pacifica, che si sta candidando a capitale della cultura 2020; (e di un paese reale dove ci sono problemi e sofferenze ma dove la questione immigrazione non è certamente, da nessun punto di vista, il problema numero uno, su cui imbastire una intera campagna elettorale).
Viviamo in una specie di Truman Show, dove si è costruito un mondo parallelo, artefatto, distorto, in cui milioni di "barbari alloctoni" stanno sostituendo la razza autoctona italiana.
(Verrebbe da ridere se non fosse che questo è davvero ciò che si legge in giro e si ascolta per strada).
La realtà dei fatti è che gli immigrati dal 2013 a oggi nella Provincia di Macerata sono passati da 32.267 a 31.020. Se ne vanno anche gli stranieri, a causa della crisi. Lo sa bene chi lavora o ha lavorato nei Comuni.
(Verrebbe da ridere se non fosse che questo è davvero ciò che si legge in giro e si ascolta per strada).
La realtà dei fatti è che gli immigrati dal 2013 a oggi nella Provincia di Macerata sono passati da 32.267 a 31.020. Se ne vanno anche gli stranieri, a causa della crisi. Lo sa bene chi lavora o ha lavorato nei Comuni.
Eppure anni, decenni, di narrazioni tossiche, di costante alterazione dei fatti, di giornalismo ignobile, di soluzioni facili, o non soluzioni di comodo, di propaganda, hanno liberato il mostro. Che c'era, c'è sempre stato, ci sarà sempre. Ma era in qualche modo tenuto a bada.
Ed è troppo tardi oggi.
Citare statistiche, rapporti, fonti di diritto, numeri. Ragionare, riflettere, approfondire.
Perché quando la narrazione tossica diventa mito allora si entra nel regno del simbolico e dell'irrazionale. Uno spazio pre-politico che fa appello all'istinto, a pulsioni che scatenano meccanismi devastanti per cui molto semplicemente si smette di essere umani. Quando ciò accade, quando individui "normali" diventano parte di una mitopoiesi collettiva, la banalità del male di Hannah Arendt, è già troppo tardi. Poiché quello è l'inizio di ogni fascismo.
Siamo a questo punto, di nuovo.
La mia generazione, cresciuta con la fine delle ideologie, pensava che tutto ciò fosse fuori dalla storia, definitivamente. Il concetto stesso di razza, l'odio su base etnica, la violenza fisica e morale contro lo "straniero". Invece eccolo di nuovo l'orrore nazionalista del Dio, Patria e Famiglia, dilagare sui social, perdersi far le righe dell'editorialista di turno, serpeggiare nei discorsi delle signore-bene al supermercato o esplodere brutalmente con gli episodi di Fermo e di Macerata.
Quando una narrazione diventa mitologica, cioè quando una ideologia si piega all'irrealtà, non c'è più democrazia che tenga, non c'è più mediazione, non c'è più il piano di un discorso logico.
Di fronte alla mitologia dello straniero violentatore, del nero spacciatore, del rom ladro, nulla può la memoria. Non quella lontana di nonni o bisnonni. E nemmeno la memoria recente di paesi dilaniati, smembrati, travolti: la Jugoslavia, il Ruanda, la Cecenia, con i loro "imbrogli etnici".
“Scimmia africana”: così Amedeo Mancini aveva chiamato una giovane nigeriana prima di sferrare un pugno contro il marito, uccidendolo. Succedeva il 5 luglio 2016, meno di due anni fa, vicino al belvedere di Fermo, una cittadina marchigiana a 45 chilometri da Macerata. Per l’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi, colpevole di aver reagito agli insulti rivolti alla sua compagna Chiniery, Amedeo Mancini, ultrà della Fermana vicino ad ambienti neofascisti, è stato condannato a quattro anni di carcere con il patteggiamento e rimesso in libertà nel maggio del 2017, a nemmeno un anno dall’omicidio". (https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/02/05/macerata-fascismo-luca-traini)
Gli episodi di attacchi di stampo neo-fascista e razzista si susseguono e si intensificano ma la matrice ideologica, nell'epoca del "non c'è differenza fra destra e sinistra", viene nascosta, alleggerita, negata.
È la politica del "ma": sono contro la guerra ma, non sono razzista ma, povera ragazza ma (...se l'è andata a cercare). La politica dei due pesi e delle due misure. Quella per cui basta frequentare una moschea per essere automaticamente un terrorista dell'Isis, e invece Luca Traini è solo un ragazzo un po' matto che ha sbagliato, sebbene abbia una svastica tatuata in fronte e il Mein Kampf sul comodino.
Il terrore che sento in queste ore viene da una "sinistra" che si è smarrita completamente. Una "sinistra" che ha responsabilità enormi in quello che è accaduto in questo paese. Che ha riempito la sua crisi ideologica e ideale solo di parole come "mercato", "globalizzazione", "sicurezza". Che ha contribuito a costruire e sostenere quell'Europa delle Nazioni che è il motore immobile - con le sue politiche tecnocratiche di austerità - dei populismi e dei neo-fascismi dilaganti.
Una "sinistra" che si è piegata alla narrazione altrui e ne ha rafforzato la tossicità, diluendo sempre di più il valore dell'esperienza partigiana a forza di equiparazioni e revisionismi. Dimenticando Piero Gobetti e il "fascismo come autobiografia della nazione".
Una "sinistra" che si è spostata talmente a destra da incentivare i campi di detenzione libici - campi di concentramento! - dove bloccare i migranti cattivi prima che arrivino a delinquere nel nostro paese.
Viviamo in un periodo per molti versi simile agli anni venti/trenta del secolo scorso. Speravamo che, a differenza di allora, le dinamiche economiche non producessero gli stessi mostri o, perlomeno, non così presto e non allo stesso modo. Ci sbagliavamo.
Il terrore che sento in queste ore è per la nuova traversata nel deserto che ci attende, senza bussole a indicarci una strada.
Non resta che stringerci, resistere, farci forza a vicenda. Non so chi... Noi... Gli umani?
Restiamo umani.
A Macerata manifestazione nazionale, sabato 10 febbraio alle 14.30.
https://www.facebook.com/events/1321613521317914/
Citare statistiche, rapporti, fonti di diritto, numeri. Ragionare, riflettere, approfondire.
Perché quando la narrazione tossica diventa mito allora si entra nel regno del simbolico e dell'irrazionale. Uno spazio pre-politico che fa appello all'istinto, a pulsioni che scatenano meccanismi devastanti per cui molto semplicemente si smette di essere umani. Quando ciò accade, quando individui "normali" diventano parte di una mitopoiesi collettiva, la banalità del male di Hannah Arendt, è già troppo tardi. Poiché quello è l'inizio di ogni fascismo.
Siamo a questo punto, di nuovo.
La mia generazione, cresciuta con la fine delle ideologie, pensava che tutto ciò fosse fuori dalla storia, definitivamente. Il concetto stesso di razza, l'odio su base etnica, la violenza fisica e morale contro lo "straniero". Invece eccolo di nuovo l'orrore nazionalista del Dio, Patria e Famiglia, dilagare sui social, perdersi far le righe dell'editorialista di turno, serpeggiare nei discorsi delle signore-bene al supermercato o esplodere brutalmente con gli episodi di Fermo e di Macerata.
Quando una narrazione diventa mitologica, cioè quando una ideologia si piega all'irrealtà, non c'è più democrazia che tenga, non c'è più mediazione, non c'è più il piano di un discorso logico.
Di fronte alla mitologia dello straniero violentatore, del nero spacciatore, del rom ladro, nulla può la memoria. Non quella lontana di nonni o bisnonni. E nemmeno la memoria recente di paesi dilaniati, smembrati, travolti: la Jugoslavia, il Ruanda, la Cecenia, con i loro "imbrogli etnici".
“Scimmia africana”: così Amedeo Mancini aveva chiamato una giovane nigeriana prima di sferrare un pugno contro il marito, uccidendolo. Succedeva il 5 luglio 2016, meno di due anni fa, vicino al belvedere di Fermo, una cittadina marchigiana a 45 chilometri da Macerata. Per l’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi, colpevole di aver reagito agli insulti rivolti alla sua compagna Chiniery, Amedeo Mancini, ultrà della Fermana vicino ad ambienti neofascisti, è stato condannato a quattro anni di carcere con il patteggiamento e rimesso in libertà nel maggio del 2017, a nemmeno un anno dall’omicidio". (https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/02/05/macerata-fascismo-luca-traini)
Gli episodi di attacchi di stampo neo-fascista e razzista si susseguono e si intensificano ma la matrice ideologica, nell'epoca del "non c'è differenza fra destra e sinistra", viene nascosta, alleggerita, negata.
È la politica del "ma": sono contro la guerra ma, non sono razzista ma, povera ragazza ma (...se l'è andata a cercare). La politica dei due pesi e delle due misure. Quella per cui basta frequentare una moschea per essere automaticamente un terrorista dell'Isis, e invece Luca Traini è solo un ragazzo un po' matto che ha sbagliato, sebbene abbia una svastica tatuata in fronte e il Mein Kampf sul comodino.
Il terrore che sento in queste ore viene da una "sinistra" che si è smarrita completamente. Una "sinistra" che ha responsabilità enormi in quello che è accaduto in questo paese. Che ha riempito la sua crisi ideologica e ideale solo di parole come "mercato", "globalizzazione", "sicurezza". Che ha contribuito a costruire e sostenere quell'Europa delle Nazioni che è il motore immobile - con le sue politiche tecnocratiche di austerità - dei populismi e dei neo-fascismi dilaganti.
Una "sinistra" che si è piegata alla narrazione altrui e ne ha rafforzato la tossicità, diluendo sempre di più il valore dell'esperienza partigiana a forza di equiparazioni e revisionismi. Dimenticando Piero Gobetti e il "fascismo come autobiografia della nazione".
Una "sinistra" che si è spostata talmente a destra da incentivare i campi di detenzione libici - campi di concentramento! - dove bloccare i migranti cattivi prima che arrivino a delinquere nel nostro paese.
Viviamo in un periodo per molti versi simile agli anni venti/trenta del secolo scorso. Speravamo che, a differenza di allora, le dinamiche economiche non producessero gli stessi mostri o, perlomeno, non così presto e non allo stesso modo. Ci sbagliavamo.
Il terrore che sento in queste ore è per la nuova traversata nel deserto che ci attende, senza bussole a indicarci una strada.
Non resta che stringerci, resistere, farci forza a vicenda. Non so chi... Noi... Gli umani?
Restiamo umani.
A Macerata manifestazione nazionale, sabato 10 febbraio alle 14.30.
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