...In cui tutto è semplicemente perfetto. La luce nitida del sole che sfiora le colline, l'aria fredda dell'inverno che ti spazza il viso, i vigneti addormentati in attesa della potatura. Allora ti senti leggero, ogni movimento pare lieve, e ti abbandoni alla potenza cristallina della natura. Conscio che fai il mestiere più bello del mondo, mentre poti quelle viti dormienti che fra un pò piangeranno e poi cacceranno tralci nuovi destinati a creare un nuovo frutto, un nuovo mosto, un nuovo vino. Un nuovo, diverso, complesso racconto di questa terra. Ogni potatura è un inizio, una nascita, una creazione.
Vino e territorio. Musica e cultura. Pensieri, sogni e visioni di un Homo Sapiens di campagna
lunedì 28 gennaio 2008
sabato 26 gennaio 2008
Bye bye Prodi.
Sentimenti molto contrastanti si alternano dopo la caduta del governo Prodi. Chi mi conosce sa che non sono mai stato un sostenitore dell’ex Presidente del Consiglio, così come non sono mai stato un sostenitore de L’Ulivo o delle varie formule di Centrosinistra succedutesi in questi ultimi anni. Al tempo stesso, però, ero e sono convinto che questo fosse il miglior governo possibile in questo momento della nostra storia nazionale e che, in particolare, il ministro dell’economia fosse un ottimo tecnico. Non a caso era il ministro con la popolarità più bassa, secondo i sondaggi, a dimostrazione della scarsa consuetudine degli italiani con la buona economia politica.
E pure, nonostante alcune cose positive questo esecutivo le abbia fatte, la delusione per quello che non è riuscito a fare tende a dominare sopra ogni altra emozione. Non basta, quindi, la prospettiva di un ritorno della destra peggiore d’Europa al potere a smorzare le pessime sensazioni accumulatesi dopo mesi di riti, contrasti, compromessi, rinvii e omissioni, a cominciare dalla legge sul conflitto d’interessi e da quella sulle coppie di fatto.
Molte sono le ragioni della crisi che ha portato alla fine del secondo governo Prodi. Di fatto, è stato giustamente detto e ripetuto, il governo era già in crisi nella notte della vittoria. Di fatto, era apparso già in crisi durante la campagna elettorale, gettando al vento più di dieci punti di vantaggio sul centro-destra e tutto il dividendo incassato grazie a una fin troppo facile opposizione al tremendo governo Berlusconi.
La lezione da trarre da questa crisi, dunque, deve partire dalla analisi e dalla critica di un fatto che pareva, ai più, acquisito: che il centrosinistra, inteso nell’originaria formulazione di Ulivo, cioè l’unione di differenti culture politiche riformiste, cattoliche, laiche, socialiste, ambientaliste, fosse l’unico orizzonte possibile per la sinistra italiana. Quasi quindici anni dopo questa certezza viene meno in modo definitivo. Se nel 1998, infatti, fu parte della cosiddetta sinistra radicale a negare il sostegno esterno all’esecutivo Prodi, oggi sono quella parte dei “moderati” ingabbiati a forza in una coalizione di cui non condividevano fin dall’inizio valori e prospettive.
Ma non è solo questo. La formula del centrosinistra si conferma sempre più in crisi anche in quelle amministrazioni locali dove da molti anni governano, spesso in modo ininterrotto, giunte che vanno da Rifondazione sino all’Udeur. A parte il disastro clamoroso di Napoli e della Campania, arretramenti in fatto di voti e consenso, di cultura politica e di capacità di gestione del territorio avvengono dappertutto, dal nord, abbandonato da tempo completamente ai deliri della Lega e di Berlusconi, fino alle regioni rosse sempre più gestite secondo logiche di tipo corporativo, pseudo-clientelare, partitocratico.
La crisi, la degenerazione, la parabola discendente di questa idea di centrosinistra è legata da una parte alla incapacità di affrontare in modo innovativo le grandi sfide poste dalla globalizzazione e dall’era post-industriale; dall’altra da una lettura in qualche modo alterata della società italiana, per cui Berlusconi è stato elevato a unico “mostro”, da cui la forzata e per nulla scontata logica che di fronte al berlusconismo si dovesse necessariamente mettere insieme culture e pratiche molto differenti tra loro pur di impedirgli il governo; infine dal pensiero distorto, ma tipico di una certa sinistra leninista, che per cambiare le cose l’unica via sia “la presa del potere”, la possibilità di amministrare, di governare, nonostante tutto e nonostante tutti. Anche con Mastella e Dini, che furono ministri di Berlusconi, e che non hanno dubitato un secondo a far cadere un governo pur di salvare il salvabile, cioè qualche misera percentuale di voti che sarebbe stata spazzata via dal referendum o da una legge elettorale un po’ più seria di quella attuale. Con il mandato ben visibile delle gerarchie ecclesiastiche.
La costruzione de L’Ulivo, a suo tempo affascinante ed innovativa, così come quella del Partito Democratico hanno costretto la politica italiana in un bipolarismo distorto, inefficiente e spesso trasformista, con una operazione che, nel nome di generici e poco reali riferimenti a modernità e riformismo (rispetto a chi e a che cosa?), ha di fatto sottovalutato in modo clamoroso storia e stratificazione sociale di un paese che non è mai stato normale: a causa dell’importanza abnorme della Chiesa nel discorso politico, dell’esistenza di fortissime pressioni corporative, di una cultura economica largamente deficitaria, della contemporanea esistenza di spinte anti-stataliste e fortemente assistenzialiste, della presenza di una destra ben poco liberista e di una sinistra ben poco libertaria.
Soluzioni a questo punto del percorso ve ne sono poche a sinistra.
Non poteva essere, e non potrà essere, la legge elettorale a cambiare in un colpo l’antropologia dell’italiano medio, a spezzare i circoli viziosi creatisi durante tutti questi anni in cui le diverse anime della casta si sono confrontate col solo fine della propria sopravvivenza, garantendo libero sfogo di volta in volta alle proprie rispettive bande di furbetti, redditieri, imprenditori statalisti, finanzieri occulti, mafiosi camuffati, finti giornalisti, baroni, primari, nani, ballerine e subrettine.
Non lo può essere la società civile, malata almeno quanto lo Stato, caduta nelle bassezze di un qualunquismo e di un populismo che troppo spesso offuscano la ragione, e troppo frequentemente portata ad auto-assolversi a priori, quasi fosse per definizione un esempio di moralità pubblica. Quando è proprio una parte maggioritaria della società civile a vivere di raccomandazioni, evadere le tasse, implorare il potente di turno, assentarsi dal lavoro pubblico, consumare risorse e merci in modo inutile e dannoso, svalutare i beni comuni e l’ambiente.
Non lo potrà essere il Partito Democratico, così come è nato. Che anzi potrebbe costituire uno dei freni maggiori alla inevitabile dissoluzione del centrosinistra. Mentre ciò che servirebbe è proprio la certificazione della sua morte, in nome di una comprovata incomunicabilità di vedute, valori, politiche.
Fino a quando non si riconoscerà che in questo paese vivono almeno tre differenti culture politiche inconciliabili, quella socialista e comunista, quella di un onnivoro centro democristiano, e quella di una destra poco liberale e molto populista; fino a quando non si porrà al centro della questione politica, in modo trasversale, quella che Berlinguer aveva definito “la questione morale”; fino a quando ciascun cittadino di buona volontà non si impegnerà in prima persona, nell’ambito della propria cultura di riferimento, per innovare fortemente le classi dirigenti di questo paese; fino a quel giorno questo paese non avrà alcuna possibilità di eludere un declino lento ma inevitabile.
A sinistra tutto ciò significa porre, accanto alla questione morale, la questione della rottura con il centro, con i compromessi ad ogni costo, in nome del potere, con la paura dell’opposizione e del conflitto sociale, con l’attrattiva verso modelli di sinistra anglosassone che non appartengono alla storia di questo paese e, più in generale, alla storia delle sinistre europee. Ma significa anche rivisitare criticamente quella stessa storia, rompendo quel recinto ideologico nella quale una parte di essa pare ancora essere reclusa. Ricominciare a pensare, a sperimentare, a inseguire utopie, a negare dogmi e certezze, con l’assoluta convinzione che nulla sarà mai più come prima e che si deve navigare verso lidi nuovi, verso una nuova idea di sinistra e di socialismo che non sia, però, la rincorsa ai modelli liberisti del centro-destra. Tutto ciò può significare restare all’opposizione forse per molto tempo. Ma significa anche iniziare un viaggio per ritrovare se stessi, per ricostruire rapporti e relazioni sociali, per investire sul futuro, per lavorare dentro alle sempre più numerose contraddizioni del modello di sviluppo dominante. Concentrandosi non sulla crescita della ricchezza, né sulla sua redistribuzione, ma sul problema delle modalità della sua produzione e del suo consumo. Le ricerche, le teorie, i movimenti, gli intellettuali non mancano. Quello che serve è una nuova agenda che, assieme a protagonisti nuovi, riesca a costruire un percorso lucido, innovativo e coerente da proporre ai cittadini.
E pure, nonostante alcune cose positive questo esecutivo le abbia fatte, la delusione per quello che non è riuscito a fare tende a dominare sopra ogni altra emozione. Non basta, quindi, la prospettiva di un ritorno della destra peggiore d’Europa al potere a smorzare le pessime sensazioni accumulatesi dopo mesi di riti, contrasti, compromessi, rinvii e omissioni, a cominciare dalla legge sul conflitto d’interessi e da quella sulle coppie di fatto.
Molte sono le ragioni della crisi che ha portato alla fine del secondo governo Prodi. Di fatto, è stato giustamente detto e ripetuto, il governo era già in crisi nella notte della vittoria. Di fatto, era apparso già in crisi durante la campagna elettorale, gettando al vento più di dieci punti di vantaggio sul centro-destra e tutto il dividendo incassato grazie a una fin troppo facile opposizione al tremendo governo Berlusconi.
La lezione da trarre da questa crisi, dunque, deve partire dalla analisi e dalla critica di un fatto che pareva, ai più, acquisito: che il centrosinistra, inteso nell’originaria formulazione di Ulivo, cioè l’unione di differenti culture politiche riformiste, cattoliche, laiche, socialiste, ambientaliste, fosse l’unico orizzonte possibile per la sinistra italiana. Quasi quindici anni dopo questa certezza viene meno in modo definitivo. Se nel 1998, infatti, fu parte della cosiddetta sinistra radicale a negare il sostegno esterno all’esecutivo Prodi, oggi sono quella parte dei “moderati” ingabbiati a forza in una coalizione di cui non condividevano fin dall’inizio valori e prospettive.
Ma non è solo questo. La formula del centrosinistra si conferma sempre più in crisi anche in quelle amministrazioni locali dove da molti anni governano, spesso in modo ininterrotto, giunte che vanno da Rifondazione sino all’Udeur. A parte il disastro clamoroso di Napoli e della Campania, arretramenti in fatto di voti e consenso, di cultura politica e di capacità di gestione del territorio avvengono dappertutto, dal nord, abbandonato da tempo completamente ai deliri della Lega e di Berlusconi, fino alle regioni rosse sempre più gestite secondo logiche di tipo corporativo, pseudo-clientelare, partitocratico.
La crisi, la degenerazione, la parabola discendente di questa idea di centrosinistra è legata da una parte alla incapacità di affrontare in modo innovativo le grandi sfide poste dalla globalizzazione e dall’era post-industriale; dall’altra da una lettura in qualche modo alterata della società italiana, per cui Berlusconi è stato elevato a unico “mostro”, da cui la forzata e per nulla scontata logica che di fronte al berlusconismo si dovesse necessariamente mettere insieme culture e pratiche molto differenti tra loro pur di impedirgli il governo; infine dal pensiero distorto, ma tipico di una certa sinistra leninista, che per cambiare le cose l’unica via sia “la presa del potere”, la possibilità di amministrare, di governare, nonostante tutto e nonostante tutti. Anche con Mastella e Dini, che furono ministri di Berlusconi, e che non hanno dubitato un secondo a far cadere un governo pur di salvare il salvabile, cioè qualche misera percentuale di voti che sarebbe stata spazzata via dal referendum o da una legge elettorale un po’ più seria di quella attuale. Con il mandato ben visibile delle gerarchie ecclesiastiche.
La costruzione de L’Ulivo, a suo tempo affascinante ed innovativa, così come quella del Partito Democratico hanno costretto la politica italiana in un bipolarismo distorto, inefficiente e spesso trasformista, con una operazione che, nel nome di generici e poco reali riferimenti a modernità e riformismo (rispetto a chi e a che cosa?), ha di fatto sottovalutato in modo clamoroso storia e stratificazione sociale di un paese che non è mai stato normale: a causa dell’importanza abnorme della Chiesa nel discorso politico, dell’esistenza di fortissime pressioni corporative, di una cultura economica largamente deficitaria, della contemporanea esistenza di spinte anti-stataliste e fortemente assistenzialiste, della presenza di una destra ben poco liberista e di una sinistra ben poco libertaria.
Soluzioni a questo punto del percorso ve ne sono poche a sinistra.
Non poteva essere, e non potrà essere, la legge elettorale a cambiare in un colpo l’antropologia dell’italiano medio, a spezzare i circoli viziosi creatisi durante tutti questi anni in cui le diverse anime della casta si sono confrontate col solo fine della propria sopravvivenza, garantendo libero sfogo di volta in volta alle proprie rispettive bande di furbetti, redditieri, imprenditori statalisti, finanzieri occulti, mafiosi camuffati, finti giornalisti, baroni, primari, nani, ballerine e subrettine.
Non lo può essere la società civile, malata almeno quanto lo Stato, caduta nelle bassezze di un qualunquismo e di un populismo che troppo spesso offuscano la ragione, e troppo frequentemente portata ad auto-assolversi a priori, quasi fosse per definizione un esempio di moralità pubblica. Quando è proprio una parte maggioritaria della società civile a vivere di raccomandazioni, evadere le tasse, implorare il potente di turno, assentarsi dal lavoro pubblico, consumare risorse e merci in modo inutile e dannoso, svalutare i beni comuni e l’ambiente.
Non lo potrà essere il Partito Democratico, così come è nato. Che anzi potrebbe costituire uno dei freni maggiori alla inevitabile dissoluzione del centrosinistra. Mentre ciò che servirebbe è proprio la certificazione della sua morte, in nome di una comprovata incomunicabilità di vedute, valori, politiche.
Fino a quando non si riconoscerà che in questo paese vivono almeno tre differenti culture politiche inconciliabili, quella socialista e comunista, quella di un onnivoro centro democristiano, e quella di una destra poco liberale e molto populista; fino a quando non si porrà al centro della questione politica, in modo trasversale, quella che Berlinguer aveva definito “la questione morale”; fino a quando ciascun cittadino di buona volontà non si impegnerà in prima persona, nell’ambito della propria cultura di riferimento, per innovare fortemente le classi dirigenti di questo paese; fino a quel giorno questo paese non avrà alcuna possibilità di eludere un declino lento ma inevitabile.
A sinistra tutto ciò significa porre, accanto alla questione morale, la questione della rottura con il centro, con i compromessi ad ogni costo, in nome del potere, con la paura dell’opposizione e del conflitto sociale, con l’attrattiva verso modelli di sinistra anglosassone che non appartengono alla storia di questo paese e, più in generale, alla storia delle sinistre europee. Ma significa anche rivisitare criticamente quella stessa storia, rompendo quel recinto ideologico nella quale una parte di essa pare ancora essere reclusa. Ricominciare a pensare, a sperimentare, a inseguire utopie, a negare dogmi e certezze, con l’assoluta convinzione che nulla sarà mai più come prima e che si deve navigare verso lidi nuovi, verso una nuova idea di sinistra e di socialismo che non sia, però, la rincorsa ai modelli liberisti del centro-destra. Tutto ciò può significare restare all’opposizione forse per molto tempo. Ma significa anche iniziare un viaggio per ritrovare se stessi, per ricostruire rapporti e relazioni sociali, per investire sul futuro, per lavorare dentro alle sempre più numerose contraddizioni del modello di sviluppo dominante. Concentrandosi non sulla crescita della ricchezza, né sulla sua redistribuzione, ma sul problema delle modalità della sua produzione e del suo consumo. Le ricerche, le teorie, i movimenti, gli intellettuali non mancano. Quello che serve è una nuova agenda che, assieme a protagonisti nuovi, riesca a costruire un percorso lucido, innovativo e coerente da proporre ai cittadini.
lunedì 14 gennaio 2008
Chablis, mon amour...
Aveva ragione Mario Soldati, quando paragonava i migliori Verdicchio ai vini di Chablis. Che eresia, sembrerebbe. E invece... Invece arriviamo in questo splendido paesino dove ogni cosa è al posto giusto, come in equilibrio con la propria storia, e dopo pochi assaggi capiamo che è proprio così. Che c'è una sorta di corrispondenza strana, nascosta, elettiva, un'affinità con certe sensazioni a me, a noi, famigliari. Una affinità fatta di acidità corrosive, troppo spesso dimenticate nei Verdicchio di nuova concezione; fatta di sale e minerale, di evoluzioni terrose, complesse, esaltanti.
Si parte con una cantina sociale che sarebbe un sogno dalle nostre parti, La chablisienne. Con vini puliti, dritti, fini, segnati da una tostatura che non è mai legno ma lievito, crosta di pane, mandorla e nocciola. Come il Prelude 2002 o La Sereine 2005. E poi il buonissimo Vielles Vignes 2002, finissimo, balsamico, quasi mentolato, dove la tostatura ha le note della nocciola (100% acciaio) e l'acidità conduce la bocca verso lidi di freschezza nordica. E ancora il premier cru Beauroy 2005, dove prevale la noce, dove la finezza prende le forme del fieno, e in bocca si allarga una cremosità non stancante. Poi, a salire, il premier cru L'homme mort 2005, decisamente una grande annata, da botte grande, fine, minerale, con accenni di agrume, nuovamente eleganti note balsamiche, sentori di mela cotogna. Etereo in bocca, leggero, equilibrato nella sua verticalità. Buonissimo. Note più dolenti per quanto concerne i vini più importanti, forse semplicemente ancora chiusi, scontrosi, adolescenti. Non ci è piaciuto il Grand crus Blanchot 2004 e nemmeno ci ha entusiasmato il Grand crus Grenouilles 2005, mentre il Grand crus Preuses 2001 si è aperto per noi su note di miele, mandorla, cedro, con una notevole tostatura, stavolta di legno, ma mai banale, e una acidità corrosiva e viva.
Si parte con una cantina sociale che sarebbe un sogno dalle nostre parti, La chablisienne. Con vini puliti, dritti, fini, segnati da una tostatura che non è mai legno ma lievito, crosta di pane, mandorla e nocciola. Come il Prelude 2002 o La Sereine 2005. E poi il buonissimo Vielles Vignes 2002, finissimo, balsamico, quasi mentolato, dove la tostatura ha le note della nocciola (100% acciaio) e l'acidità conduce la bocca verso lidi di freschezza nordica. E ancora il premier cru Beauroy 2005, dove prevale la noce, dove la finezza prende le forme del fieno, e in bocca si allarga una cremosità non stancante. Poi, a salire, il premier cru L'homme mort 2005, decisamente una grande annata, da botte grande, fine, minerale, con accenni di agrume, nuovamente eleganti note balsamiche, sentori di mela cotogna. Etereo in bocca, leggero, equilibrato nella sua verticalità. Buonissimo. Note più dolenti per quanto concerne i vini più importanti, forse semplicemente ancora chiusi, scontrosi, adolescenti. Non ci è piaciuto il Grand crus Blanchot 2004 e nemmeno ci ha entusiasmato il Grand crus Grenouilles 2005, mentre il Grand crus Preuses 2001 si è aperto per noi su note di miele, mandorla, cedro, con una notevole tostatura, stavolta di legno, ma mai banale, e una acidità corrosiva e viva.
Assaggiamo e più assaggiamo più rafforziamo la nostra idea che Chablis sia un luogo dove lo Chardonnay è solo uno strumento al servizio del terroir, perché quasi mai sentiamo banane o ananassi o cocchi o vaniglie. Pochissimo si usa la barrique, a differenza della Cote d'or. Persino in aziende dall'impostazione "internazionale" come Albert Bichot, maison di media grandezza, con diverse cantine a coprire più denominazioni. Qui i vini base hanno un buonissimo rapporto qualità prezzo e una pulizia di esecuzione splendida e finissimi sentori floreali, di frutta fresca, di pera (il Petit chablis). Poi si fa sul serio, anche in fatto di prezzi. Col premier cru Vaucopin 2005 (10% di legno) ricco di sensazioni di erbe, fiori bianchi e pietra, con un ingresso in bocca morbido che si distende su una ottima e malica acidità per chiudersi su note di mandorla. Di nuovo lo spettro del Verdicchio. E si continua col Grand cru Le clos 2002: finezza allo stato liquido, fatta di cedro, fiori bianchi, pietra focaia. Gelsomino. Finissimo al naso, secco, asciutto, in bocca col classico finale tostato e una generale sensazione di ricchezza e cremosità e morbidezza dopo la deglutizione. Un grande. Infine il Grand cru Preuses 2002, dove predominano sentori più terziari, una evoluzione stupenda di terra umida, champignon, zolfo, muschio e cespugli aromatici. In bocca equilibratissimo, lungo, interminabile, con una tostatura da pane abbrustolito a prevalere sulla freschezza. Poco dopo ci attende il Domaine Oudin, vera sorpresa delle nostre degustazioni. Vignaiolo di razza, Oudin ha una cantina piccola ma pulitissima e che non manca di nulla. Vinifica solo in acciaio e ha i tratti del terroirista. Il suo Chablis 2006 sorprende immediatamente per note di idrocarburo, pesca bianca, mela acerba. Una acidità portentosa è bilanciata da una cremosità mirabile che ne fanno un esempio di stile e finezza. Al prezzo di 8 euro. Lo Chablis Le serres 2005, che è una cuveé rimasta sui lieviti un anno in più, appare all'inizio ridotto ma si apre immediatamente su note eleganti di cedro, limone, mela cotogna. E' minerale, lascia una bocca pulitissima. E' fragrante, lunghissimo nella ormai consueta chiusura tostata di mandorla e noce. Un bianco semplicemente superbo. Infine il premier cru Vaugirot 2004: un vino difficile, davvero chiuso, complesso. Sapidissimo, dritto, senza cedimenti morbidi, presenta note di funghi, tartufo, formaggio salato. Poi l'agrume, ma più scorze che frutto, e soprattutto limone.
Ed alla fine, che dire? Poche pippe, qui non si macera, non si copre di legni, non si fanno tagli strani. E ce ne andiamo di sera, in mezzo a un tramonto freddissimo, con la netta sensazione che Chablis sia davvero una delle Università del vino bianco.
Ed alla fine, che dire? Poche pippe, qui non si macera, non si copre di legni, non si fanno tagli strani. E ce ne andiamo di sera, in mezzo a un tramonto freddissimo, con la netta sensazione che Chablis sia davvero una delle Università del vino bianco.
lunedì 7 gennaio 2008
Il nuovo nato
Nur, che significa Luce in arabo ed è il secondo nome di mio figlio Giacomo, è ufficialmente in vendita. Alcuni amici e clienti già lo hanno assaggiato in anteprima a Vini di Vignaioli e a La Terra Trema e devo dire che i responsi sono stati lusinghieri.
Le uve provengono dalla sola vigna di contrada San Michele, la stessa de Gli Eremi. La vigna è condotta secondo il sistema guyot, con potatura corta e diradamento dei grappoli sino ad ottenere una resa per ettaro di circa 30 quintali (circa 25 Hl). La coltivazione secondo un rigido metodo biologico garantisce la massima espressione del terroir. Il vino verrà prodotto solo nelle annate in cui l'uva risulterà perfetta, soprattutto con riferimento alla buccia e alla maturazione fenolica. In questo senso il 2006 è stata la migliore annata che io ricordi nell'area dei Castelli di Jesi da quando ho iniziato a fare questo mestiere. Il vino proviene da una selezione di uve Trebbiano dorato, Malvasia toscana e Verdicchio vendemmiate in cassette in leggera surmaturazione. Il mosto fermenta insieme alle bucce in tini aperti, senza controllo di temperatura e con i propri lieviti, per circa una settimana. Dopo la svinatura la fermentazione termina in botti usate di rovere francese di piccola caratura per circa un anno. La vinificazione “in rosso” e la lunga permanenza sui lieviti apporta sentori evoluti di erbe, liquirizia, rabarbaro, sottobosco, funghi, miele. In bocca risulta morbido, caldo, con una sottile vena di tannino. La potenza alcolica viene equilibrata da una discreta acidità. Il prezzo sorgente sarà di 9 euro.
domenica 6 gennaio 2008
Obama e altro
L'Iowa, si sa, non conta granché. Ma un primo passo è stato compiuto. Credo che nessuno nel gruppo di Barack si faccia illusioni. Obama è un politico pragmatico e accorto, nonostante la giovane età, e sa che la strada è molto lunga, piena di insidie, e che la Storia non gioca certo a suo favore. Ma l'audacia della speranza può molto, per dirla col suo libro. E l'eventuale vittoria di Barack Obama alle primarie democratiche (non oso immaginare di più), sebbene ardua, è la cosa migliore che ciascuno di noi dovrebbe augurarsi per il 2008.
Poi vengo a sapere che Fabio Volo è lo scrittore più letto d'Italia. E che vuole un figlio, pur restando single. Ora, chi mi conosce sa che non sono propriamente un difensore della famiglia-borghese-cattolica. Ma che si possa volere un figlio restando single la trovo una delle affermazioni più schifosamente egoiste e irresponsabili che mi sia capitato di recente di ascoltare. Perlomeno la convivenza, cazzo. E chi ha un figlio sa di cosa sto parlando. Oltretutto mi sono volutamente fatto del male leggendo Un posto nel mondo, edito da Mondadori e acquistato senza farmi vedere in un Autogrill (con che faccia sarei andato dal mio libraio, infatti, a chiedere Fabio Volo?). Ora, il libro in sé io ci ho provato a trovarci dei pregi. Qualche bella frasetta, qua e là, c'é. Di quelle che strizzano l'occhio alle ragazzine. Ma è il libro di uno che è dieci anni che gli hanno detto di rappresentare la nostra generazione (quella nata negli anni settanta) e che non smette un attimo di provarci a farlo. Il fatto è che a me non mi rappresenta per un cazzo. E nemmeno a tutti i trentenni-sulla-via-dei-quaranta che conosco. E' un libro inutile e insipido. E pure è lo scrittore più letto d'Italia. Grazie Mondadori. Grazie Autogrill.
mercoledì 2 gennaio 2008
L'anno nuovo
Eccomi reduce dal consueto baccanale di fine anno, festeggiato con abbondanti libagioni in compagnia di amici amici e nonostante i molti virus in circolazione. Reduce, soprattutto, da un tour de force iniziato il 23 sera a Milano (Fedro ed io abbiamo finito col ritrovarci in Piazza Bologna alle tre e mezzo fra birre e salamelle, circondati da una città sempre più triste e vuota), continuato con pranzi e cene con famiglie più o meno allargate, proseguito con lunghe nottate musical/goliardiche e terminato l'uno mattina 2008 intorno all quattro e mezza. Ora, cosa ci spinga a tutto questo non l'ho mai capito fino in fondo. Ma ogni civiltà ha i propri riti e questo è uno dei nostri, dunque va bene così. Posso qui ricordare alcune delle cose che più mi son piaciute: il Montebianco della zia di Valeria (e relativo Sauternes 2003 non-ricordo-più-il produttore), i cappelletti in brodo di mia mamma, un ottimo Brunello di Montalcino Tenuta Caparzo 1986 dritto, asciutto, con sentori spiccati di cenere di tabacco e legno d'ebano, i classici peperoni della mia amica Marina, un coscio di agnello "asado", il mio brasato al Nocenzio, l'incredibile, vulcanico Pinot Nero Burlenberg 1999 di Marcel Deiss, e lo stupendo, salatissimo Champagne Brut Reserve non dosato di Raymond Boulard. Questo, ovviamente, oltre agli abbracci ed agli auguri delle persone che pù mi sono care. Detto questo, e in attesa di una stra-meritata vacanza, fra poco inizierò a programmare le potature. Ma un pensiero all'anno appena trascorso lo voglio fare. Prescindendo dalle felicità famigliari che sono mie e solo mie, voglio ricordare ciò che di buono è accaduto ai miei vini: la classifica stilata da Spirito di Vino che ha riconosciuto a Gli Eremi 2004 lo status di secondo miglior Verdicchio, la finale dei trebicchieri raggiunta dal Terre Silvate 2006, l'Etichetta assegnata dalla Guida al vino quotidiano sempre al Terre Silvate 2006. Ma soprattutto il giudizio e la soddisfazione dei miei clienti, quando mi chiamano o mi scrivono, per dirmi che hanno goduto. Perché per questo si fa il vino, per far godere la gente.
Concludo con i due dischi più belli del 2007 per il sottoscritto: Because of the times dei Kings of leon e Sky blue Sky dei Wilco. Diversissimi, ma entrambi dischi di grande rock. Il fatto che non sia l'unico a pensarlo dimostra che sono sempre più banale. Ma l'età è quella che è.
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