domenica 14 dicembre 2014

Un libro "di movimento"

Non è il vino dell’enologo

Sono passati due anni dalla pubblicazione e resto sempre più stupito dalle dimostrazioni di affetto e di calore che mi arrivano da chi si è imbattuto in questo libretto nato per caso e che ora pare vivere di una vita propria.
Ho già detto della soddisfazione per le moltissime recensioni - tutte incredibilmente positive: dalle più importanti testate italiane (Corriere, Repubblica, Manifesto, L'Espresso, Panorama, ecc.) ai siti specializzati nel food, dai blog più importanti fino a quelli più piccoli e privati, la mole di interventi su questo libro è andata oltre ogni più rosea aspettativa. Mi ha poi riempito di gioia l'aver partecipato a festival come il Festival della letteratura di Mantova e Bookcity a Milano perché in un qualche modo è stata colta anche una vena letteraria in un libro dall'apparenza tecnica e specialistica.
Ma il piacere più grande viene dalla sensazione che questo sia diventato in parte un libro "di movimento" - come si diceva un tempo: un libro che non si limita a descrivere una piccola storia o un dato momento, ma che descrive - ed è parte di - qualcosa di più grande.
Solo così si possono spiegare tre ristampe e circa 4000 copie vendute. Che sono nulla in assoluto ma sono tante se pensiamo al contesto. 
Solo così posso spiegare l'affetto di persone che continuano a scrivermi, ad incontrarmi, a interrogarmi, fino al punto da mettere in discussione scelte personali, professioni e prospettive. 
Solo così posso capire quanto le pagine che ho scritto, spesso in modo inconsapevole, abbiano incontrato la voglia di cambiare, la frustrazione, l'insoddisfazione per questo modello di sviluppo e per questa economia del non-senso.
Siamo dentro un movimento liquido, spesso inconsapevole, ancora poco definito e che ha perso bussole ideologiche. 
Non sappiamo dove stiamo andando e non ci sono risposte certe.
Il vino naturale parla una lingua ancora non del tutto conosciuta, usa un linguaggio nuovo, rivoluzionario. Qualcuno lo vuole ingabbiare ma lui è una bestia anarchica e sfuggente.
Il biologico non è la certificazione europea.
La decrescita non è recessione: quella ce la dà il capitalismo delle crisi.
La cooperazione non è quella della legacoop e di mafiacapitale.
I beni comuni non sono lo Stato.
Nella confusione estrema di questi anni alcune cose le abbiamo apprese, altre le dobbiamo conquistare. Un movimento c'è, e ha bisogno più di stalle che di (5) stelle. Di un compost che maturi ancora un po'. Ma poi viene la semina, si fanno gli innesti, si concima.
E l'ingranaggio magari si ferma.


    

domenica 26 ottobre 2014

Harvest 2014

Con i mosti oramai quasi tutti i secchi, tranne il Montepulciano, è possibile tracciare un primo bilancio di quest'annata così stramba.
Dico subito che ai tanti colleghi contadini e vignaioli che non raccoglieranno o raccoglieranno poco o avranno vini difficili, a causa di questa stagione così dura, va tutta la nostra solidarietà. Grandinate, bombe d'acqua, piogge incessanti hanno davvero creato enormi problemi in tutta la nostra penisola.
Al tempo stesso, però, non bisogna né generalizzare né pensare che sia tutto da buttare, anzi. In molte zone d'Italia questa vendemmia potrà regalare vini buoni se non buonissimi ed un accurato lavoro in vigna - specie durante le operazioni di vendemmia - può aver certamente riequilibrato anche situazioni estreme o molto difficili.
Per noi è stata una vendemmia molto dura, iniziata presto e finita tardi, con molti passaggi in vigna e tante tante ore lavoro per cercare di fare il meglio in una situazione resa precaria da malattie fungine, marciumi e gradazioni zuccherine medio-basse.
Detta così sembra tragica.
In realtà a bocce ferme c'è la grande soddisfazione di avere portato a casa una vendemmia così dura con le consuete dosi di rame/zolfo e con gli stessi metodi di vinificazione - senza lieviti selezionati, correzioni dei  mosti, enzimi, tannini, chiarificanti, ecc. - e mantenendo la solforosa dentro livelli molto accettabili vista l'annata (e come facciamo da qualche anno in qua, senza solforosa sui vini macerati bianchi e rossi). Se si può fare quest'anno si può fare sempre, questa è la grande felicità.
Ma i vini come sono?
I vini sono tendenzialmente diluiti, esili, un po' crudi in questa fase e con gradazioni alcoliche più basse rispetto al solito. Di per sé non sarebbe un male se non fosse per una sensazione generale di "centro bocca" davvero sfuggente. Al tempo stesso ci sono note aromatiche interessanti legate al freddo ed alla stagionalità "nordica" che possono dare qualcosa in più in termini di piacevolezza immediata.
Ma è ancora molto presto e per ora prevale la soddisfazione di aver domato la #vendemmiadimmerda. Starà poi ai nostri amici clienti co-produttori capire la particolarità e unicità dei vini di quest'annata.

giovedì 18 settembre 2014

Il mondo dalla nostra parte

E alla fine Giuliano Dottori ci fece anche ballare e cantare. Enjoy it! Colonna sonora qui a La Distesa per rendere la vendemmia 2014 un po' meno #vendemmiadimmerda. :-)

mercoledì 27 agosto 2014

Lieviti, lieviti e ancora lieviti

Ho seguito un po' l'ennesimo dibattito girato in rete sui lieviti selezionati, questa volta proveniente dal giro Slowine: qui l'articolo di Gariglio e qui l'articolo del bravo Fabio Pracchia.
Si tratta di un dibattito ormai stantio dove difficilmente si riuscirà a trovare una quadra fra sostenitori della moderna enologia più spinta ed esaltati provocatori del vino naturale. Sulla questione lieviti ho sempre avuto una visione laica che mi trova d'accordo con alcuni spunti sia di Gariglio che di Pracchia (per chi non avesse voglia di approfondire tutte le loro argomentazioni e i vari thread che si sono da lì dipanati valga questa sintesi brutale: molto peggio del lievito selezionato sono altre cose nell'omologare il vino).
Non riesco, però, a liberarmi dalla sensazione per cui, dato che lo scontro diretto e frontale con il "movimento del vino naturale" non ha pagato e anzi non ha fatto altro che sviluppare maggiormente l'interesse per il movimento stesso, allora si provano metodi più sottili di comunicazione. Diversivi, diciamo.

Nessun problema, se non fosse che poi escono un po' delle forzature.
Tipo che il 98% dei vini bianchi si fa coi lieviti selezionati. Sarebbe il caso di dire il 98% dei vini. Punto. Eppure in Borgogna la quasi totalità dei grandi bianchi è fatta con lieviti indigeni. Vogliamo dire anche questo?
Tipo che non esiste il concetto di lievito autoctono.
Tipo che i soli lieviti dell'uva sono pochi e non farebbero terminare una fermentazione o la farebbero andare in malora (che è una variante dell'ormai famigerato e falso "il vino in natura non esiste perché l'uva diventa naturalmente aceto).
Eccetera.

Ma è quando si scende nel tecnico che poi casca l'asino.
Nel pezzo di Maurizio Gily citato ad esempio (http://www.gily.it/articoli/Vino%20e%20lieviti.pdf) si fa una lunga e gustosa comparazione fra "protocolli" dicendo ciò che già si sa, cioé che non è tanto un problema di lievito selezionato ma piuttosto di "substrati" (es. condizioni di azoto - e dunque bisogna aggiungere composti azotati in fermentazione?) e di "enzimi" (e quindi bisogna aggiungere enzimi esogeni per far esprimere al lievito determinati aromi?) e di "condizioni" (es. le basse temperature di fermentazione oppure l'assenza totale di ossigeno lungo tutte le fasi della vinificazione?).
E allora - scusate! - ma è un po' un girare la frittata, dialetticamente parlando: si dice che non è colpa del lievito selezionato ma poi si scopre che è "tutto il pacchetto" (dell'enologo, si intende).

Quindi certo quel che senti quando senti la banana (o il passion fruit...), per riprendere Gariglio, non sarà forse IL lievito selezionato, ma IL lievito selezionato fatto lavorare in certe condizioni (con i giusti substrati, i giusti enzimi, le giuste temperature, dal giusto enologo).
Cosa cambia?
Di cosa stiamo a parlare?
La domanda provocatoria di Fabio Pracchia "Omologa di più il lievito selezionato o il consulente enologo?" è insomma domanda tautologica, sebbene molto puntuta e intelligente, perché il consulente enologo oltre a fare tutto ciò che Pracchia enumera in vigna e in cantina, generalmente usa anche sempre un certo lievito fatto lavorare dentro a a certi substrati all'interno di certi parametri. E questo non omologa né più né meno di una marca di barriques o di un sesto d'impianto: ne è semplicemente il completamento, la finale pietra di volta.

Sono d'accordo: la questione lieviti non è il solo problema ed è questione tutt'altro che semplice (dissento anche io dai banalizzatori di certo vin naturel) ma ciò non toglie che la questione della fermentazione spontanea (più o meno controllata) sia la fondamentale discriminante (per me!) fra artigianato e industria, fra terroir e varietà, tra vigna e cantina.
Serve coraggio, è vero. Come in tutte le scelte vere della vita.

sabato 16 agosto 2014

L'annata 2014, per ora.

Un'annata veramente difficile, strana, nervosa.
Iniziata con un inverno dimezzato ed un conseguente anticipo di fioritura che lasciava presagire una vendemmia anticipata e proseguita con una primavera calda ma piovosissima (dati ASSAM qui), addirittura la più piovosa primavera (marzo-maggio) dal 1961 ad oggi. Specialmente il mese di maggio con il 130% in più di precipitazioni rispetto alla media 1961-2000 ha portato la pressione della peronospera a livelli molto intensi.
Non solo.
Grandinate e bombe d'acqua si sono date il cambio fino agli ultimi giorni di luglio. In particolare, aspettando i dati ufficiali, luglio è stato un mese veramente pesante: umidità e piogge hanno creato condizioni ideali per le malattie fungine con un'alternarsi di condizioni per oidio e peronospera.
Mai era capitato di avere pareti fogliari così fiorenti e selvagge con una continua produzione di femminelle, apici e polloni. 
Vediamo come evolverà agosto ma ad oggi nei nostri vigneti certamente soffriamo parecchio a San Paolo (il nome contrada Battinebbia è già tutto un programma) mentre si resiste a San Michele che come sempre pare godere di annate fresche e piovose: qua e là uva meravigliosa davvero con gli unici veri problemi sul Montepulciano nuovo della vigna ad alberello.
Ora il problema della maturazione. Caldo non ce n'è e il sottosuolo è gonfio d'acqua. C'è da capire come si muoverà l'accumulo degli zuccheri e come matureranno le bucce e i vinaccioli in un'annata che si preannuncia decisamente "verde".     
  

giovedì 10 luglio 2014

Sulla riva del fiume

Sapete cosa?
Alla fine, dopo tutto 'sto gran correre, questo gran parlare, questo viaggiare in giro e in tondo, questa continua, reiterata, ripetuta voglia di fare e inventare, di essere - senza volerlo assolutamente - in qualche modo al centro di una scena, sebbene piccola e un po' nascosta... Alla fine...
Alla fine uno si trova spossato. Vuoto. Con la consapevolezza, magari sbagliata o forse solo lì appesa ad una intuizione, che si stia dando più di quanto si riceva.
E allora, poi, viene la voglia di sedersi sulla riva del fiume.
Come ad aspettare.
Per riposarsi un po' e vedere quel che succede, se succede. Perché il più delle volte non succede un bel niente. Il mondo continua a girare, l'acqua a scorrere e il vino a versarsi nei bicchieri. I movimenti prima avanzano e poi si fermano e le stelle son lì ferme da millenni.
Tra poco una nuova vendemmia.
E speriamo che la smetta di piovere e grandinare.

lunedì 19 maggio 2014

L'Euro: il nuovo muro di Berlino che divide l'Europa


I nodi vengono al pettine.
Il calo del PIL nel primo trimestre del 2014, certificato dall’ISTAT, si è abbattuto come una mannaia sugli ultimi scampoli di campagna elettorale per le Europee. Il dato stupisce solo chi ha creduto nella “ripresa”, nella definitiva “uscita dalla crisi”, nella famigerata “inversione del ciclo”. Tutte parole più o meno vuote che parlano il linguaggio di un mondo economico che non c’è più.
Ciò che appare agghiacciante è l’insistenza con la quale i potentati economici, i partiti politici delle “larghe intese” e certi economisti che un tempo erano “mainstream” e oggi sono semplicemente fuoritempo, continuano a perseverare nell’errore: considerare la crisi europea come passeggera, invocare le riforme come panacea a tutti mali, eludere totalmente il problema del tasso di cambio e degli squilibri commerciali dell’area Euro.
Tutto nasce, ovviamente, dal modello economico di riferimento.
L’idea dell’Euro come moneta unica nasceva con la fondata pretesa di creare un’area economica comune che avrebbe avuto una domanda interna di più di 400 milioni di persone. Il problema è che questa buona idea nelle mani dei guardiani dell’economia dell’offerta, dei soloni del monetarismo, dei giganti del pensiero neo-liberista si è trasformata nel peggior esperimento teorico di economia monetaria-finanziaria della storia dell’uomo. Ce lo dicono le parole stesse: un tempo avevamo la Comunità Economica Europea, oggi parliamo di Unione Bancaria, di Fondo Salvastati (dotato di rating!), di Fiscal Compact.
Ma cosa ci dice in realtà questo lieve calo del PIL italiano? Comunica esattamente quello che oramai tutti sanno ma nessuno può dire (a parte Tsipras, Grillo e Le Pen/Salvini tutti e tre con grandi differenze di approccio e linguaggio): molto semplicemente ci dice che non è possibile per l’Italia con questo livello di tasso di cambio (troppo alto) e questa rigidità dal lato della spesa (austherity) uscire dalla crisi e ricominciare a crescere.
Quello che si dovrebbe fare sta nei manuali di buona economia politica. Due semplici cose: svalutare un po’ l’Euro e abolire il 3% di limite deficit/PIL. Ma sono esattamente le due cose che la Germania non vuole che si facciano.
La realtà è sotto gli occhi di tutti: abbiamo distrutto, sull’altare dell’idea liberista per cui vale solo la competizione nei mercati globali, la domanda interna. La deflazione europea ne è la prova provata: l’enorme disoccupazione nei paesi della “periferia”, unita alle cosiddette “riforme”, cioè alla deflazione interna, ovvero la compressione dei salari e la generalizzazione del precariato su scala europea, hanno fatto sì che quell’enorme Mercato Unico di 400 milioni di persone venisse depotenziato. Depotenziato a tal punto che l’unica fonte di crescita può venire solo da un export che alla fine premia oramai solamente la Germania, non tanto o non solo in virtù della qualità intrinseca delle merci prodotte, ma soprattutto perché unica area a non dover soffrire un tasso di cambio troppo elevato.
Il fatto che paesi come Olanda e Finlandia, che da sempre gravitano nell’area tedesca, non se la passino poi così bene, quasi venissero risucchiati nelle periferie dei PIIGS, è un ulteriore dimostrazione di questo buonsenso “keynesiano” che non pare trovare più adepti nell’area del  Partito Socialista Europeo e delle sue ramificazioni nazionali; parte politica per la quale dovrebbe essere il naturale riferimento ideologico.
Perché? … Verrebbe da chiedersi? E la risposta è semplice semplice: perché si dovrebbe ammettere davanti a centinaia di milioni di elettori di centrosinistra europei che i vari Prodi, Shroeder, Zapatero, Blair sono caduti – coscientemente o meno poco importa – nel trappolone del Capitale e che, nei tempi lunghi della storia, non in quelli brevi di un ciclo di crescita decennale, questi signori hanno molto semplicemente affossato il sogno europeo di una Comunità sovranazionale.
Ma ora che fare?
A parte immettere miliardi di euro di liquidità in un sistema economico già in deflazione nel quale coi tassi prossimi allo 0% comunque gli imprenditori non investono e i consumatori non consumano (esempio quasi da manuale di “trappola della liquidità” e di “sindrome giapponese”)?
A parte attendere un altro starnuto che faccia risalire gli spread facendo ripartire la spirale che lega la spesa per interessi al deficit e dunque a nuovi tagli che poi non possono che frenare ulteriormente la crescita?
L’uscita dall’euro non è una soluzione politicamente sostenibile. Credo che dal punto di vista economico sarebbe una soluzione accettabile nel breve periodo e in grado di risolvere alcuni equilibri nei disavanzi commerciali. Il problema è che avendo trasformato, volutamente, l’Europa e l’Euro nel nuovo feticcio ideologico, il risultato politico di un’uscita italiana dall’euro sarebbe il ritorno del nazionalismo identitario e la fine della costruzione dello spazio comune europeo (su questo punto persino intellettuali di estrema sinistra come Toni Negri sono stati chiari).
In tempi non sospetti, esattamente a Firenze nel 2002, un vasto movimento di cittadini chiedeva “Un’altra Europa possibile”: non erano grillini incazzati, non erano piddini delusi, non erano neo-fascisti nazionalisti. Era un vasto movimento di persone che vedeva già allora il rischio insito nell’Europa dei governi e delle banche e chiedeva l’Europa dei cittadini. Avevamo ragione ma ha fatto comodo a tutti eludere il problema allora.
In definitiva, alla luce della situazione attuale, una soluzione facile non c’è. Certamente non può esserlo questo appuntamento delle elezioni europee dove l’Europa sembra divisa da un nuovo muro di Berlino.
L’unico orizzonte, allora, resta quello della critica serrata, di una resistenza attiva a questo modello economico che è il vero artefice di questa Europa. Piano piano. Giorno dopo giorno. Dal piccolo dei nostri Comuni ai grandi appuntamenti com l’Expo 2015.
Sempre in movimento.    

lunedì 21 aprile 2014

Salvare il pianeta

Il novecento è stato dominato dalla contraddizione Capitale/Lavoro. Economia, Tecnica, Socialismo, Capitalismo sono state alcune delle parole chiave del "secolo breve".
La Storia di questo secolo appena iniziato (e forse dei prossimi) sarà la storia della lotta fra Capitale e Natura: Ecologia, Cultura, Decrescita e Cosmopolitismo possono diventarne le parole chiave, se lo vogliamo.
L'uomo deve capire e scegliere con chi stare; se essere parte integrante dell'apparato tecnoscientifico di un'idea ormai metafisica di Capitale, onnivoro e onnisciente; oppure se restare biologicamente agganciato alla sua natura di abitante/cittadino di un pianeta Terra in pericolo di estinzione.
Non è una battaglia da poco, se pensiamo all'ultimo rapporto dell'IPPC:
http://www.greenreport.it/news/clima/clima-nuovo-rapporto-ipcc-rischi-che-potrebbero-far-cambiare-le-societa-umane/ 
L'impatto dell'attività economica umana sul pianeta riguarda oramai tutte le sfere del vivere associato. Certamente, però, le questioni del cibo, dell'agricoltura, della gestione delle terre e dei beni comuni, sono questioni fra le più importanti e rilevanti.
Nel suo piccolo, "Resistenza Naturale" di Jonathan Nossiter è un potente atto culturale e politico che lancia un nuovo allarme: non abbiamo più tempo! Nelle sale in Italia dal 29 maggio e in Francia dal 18 giugno.


venerdì 28 marzo 2014

Di nuovo al Vinitaly

Fra poco prenderò la strada di Verona per partecipare al ViViT. Non lo faccio con grande piacere, certamente. Le alternative non mancavano. E dunque mi piace spendere qualche parole sulle ragioni di questa scelta.
Avevo partecipato alla grande kermesse veronese in uno stand della Regione Marche nel 2002, proprio all'inizio della mia esperienza di vignaiolo. Poi dal 2004 il luogo veronese per me è stato, per molti anni, il centro sociale La Chimica dentro quel laboratorio che fu Critical Wine. Il centro sociale è stato sgomberato dal Sindaco Sceriffo Tosi, così nel 2010 e 2011 ho esposto a Cerea in quel di ViniVeri. Posto splendido e compagnia davvero bella. Poi un anno sabbatico ed un anno lontano da Verona, l'anno scorso, a tentare di riflettere su cosa sia diventato questo nostro variegato movimento dei vignaioli naturali... 
Nel frattempo è nato terroirMarche e con i compagni del Consorzio, con i quali abbiamo partecipato a Millésime BIO a Montpellier e a Vignaioli Naturali a Roma, si è fatta strada l'idea di aderire come Consorzio marchigiano al salone ViViT. E' con loro che sono nate una serie di considerazioni sullo stato dell'arte. Da un lato c'era e c'è l'idea della grande potenzialità di Cerea come spazio per una grande fiera unitaria e alternativa di tutto il naturale. Dall'altro il dato di realtà è che quella potenzialità, a causa di divisioni, protagonismi, contraddizioni ma anche legittime scelte da parte di soggetti e associazioni, resta tuttora secondo noi in grande parte inespressa.

A questo si aggiunge un dato incontrovertibile, soprattutto dopo l'entrata di FederBio a gamba tesa con l'organizzazione del VinitalyBIO: oramai a Verona fra vini senza solfiti, proposte più o meno sostenibili e vini più o meno "liberi", comincia ad aver senso il fatto di presidiare una zona dove poter presentare certi percorsi davvero autentici. Perché alla fine a Villa Favorita ed a Cerea va veramente solo chi già conosce ed apprezza certi vini, mentre a Vinitaly volenti o nolenti vanno proprio tutti.

Ecco quindi che oggigiorno, con la comunicazione distorta che sta passando sul "vino naturale", l'impressione è che - senza ViViT - un generico operatore del mondovino camminando dentro Vinitaly possa pensare che Cotarella, Farinetti o l'azienda che resta nei soli limiti del disciplinare Bio presente negli spazi FederBIO facciano "vini naturali".
Insomma, ci stanno fregando.
E non a caso la mia contrarietà al ViViT non era mai stata nei confronti dell'operazione in sé ma verso i modi con i quali si era concretizzata: cioé senza nessuno percorso "politico". Quanto fosse necessario lo misuriamo oggi, quando non passa giorno senza che avvengano ipocrite sussunzioni del "vero", del "naturale", del "buono, pulito e giusto".

Dunque quest'anno va così. Poi vedremo. Il ritorno di Renaissance a Cerea dimostra che la coerenza non è di questo mondo. E forse per chi è "movimento" è anche giusto sia così.

sabato 8 marzo 2014

Correre

Che poi, alla fine, se c'è un'altra cosa che mi ha salvato la vita, a parte Valeria e a parte la Musica, quella è stata la corsa. Non l'idea di sport come socializzazione, di sport come maturazione, di sport come gioco... Tutte cazzate un po' "scoutiste" che vanno di moda oggi. No.
Parlo di quando sei un adolescente incazzato col mondo. Di quando, se c'hai il fisico, metti i guantoni e ti metti a picchiare qualcuno su di un ring, se non per strada.
Io il fisico non ce l'avevo. Tutt'al più potevo mettere un paio di scarpette e correre all'infinito, sino a quando le gambe diventavano pesantissime ed i polmoni mi scoppiavano, consumando le ginocchia sul pavé e l'asfalto di una città grigia ed inquinata.
Correre senza sapere dove, correre più forte che potevo.
Che quando corri non c'è nessuno a passarti una palla. Nessuno a dirti quello che devi fare.
Nessuno corre per guardarsi intorno ed ammirare il paesaggio. Hai sempre un cazzo di cronometro in testa, perché devi sempre far meglio di ieri, meglio che puoi. Non ne puoi fare a meno: corri perché stai scappando da qualcuno o stai inseguendo qualcosa. Qualcuno o qualcosa che non sai.
Ecco perché non potrò mai essere buddista. Perché sotto ad una montagna non mi ci viene proprio di mettermi a meditare. Mi viene da salirci in cima più velocemente possibile.
La vita come una corsa contro il tempo.
Non riesco a far diversamente.

sabato 1 febbraio 2014

Velenitaly, l'olio italiano e il futuro del giornalismo indipendente

Nel giro di pochi giorni Intravino ha lanciato un appello a difesa di Maurizio Gily per la vicenda della famigerata copertina de L'Espresso "Velenitaly" (qui) e un attacco al New York Times per la sua inchiesta sull'olio extravergine d'oliva "italiano" (qui).
Cosa hanno in comune queste due uscite del popolare blog? Un attacco a quella che viene definita una informazione scorretta; una sorta di crociata contro il cattivo giornalismo eno-gastronomico (dove ovviamente, fra le righe, quelli buoni, puliti e giusti sarebbero solo - per definizione - i bloggers in questione, bravi a cogliere in fallo i colossi dell'informazione).
Personalmente avevo dedicato a Velenitaly un post provocatorio (qui) su questo mio blog. Letto il pezzo sull'olio di oliva mi è sembrato di ripercorrere la stessa strada un'altra volta, immerso in una certa visione del mondo per cui guai a chi tocca il "Made-in-Italy", qualunque esso sia ed a qualunque costo. Con lo stesso disagio che avevo provato ai tempi della celeberrima inchiesta di Report sul vino italiano.
Ora il disagio aumenta.
Che il mondo del vino e dell'olio italiani sia ancora pieno di gente che sfrutta il concetto di "made in Italy" per speculare su prodotti cattivi e dall'origine incerta, quando va bene, o illegali, quando va male, noi agricoltori lo sappiamo fin troppo bene. Basta guardare i prezzi e assaggiare il contenuto di certi prodotti DOC o DOP distribuiti nella grande distribuzione oppure venduti in larghe quantità all'estero. Prodotti che magari non uccidono la gente - come erroneamente enunciato da L'Espresso - o che viaggiano sul filo delle direttive di legge - quelle in cui è inciampato il New York Times... Prodotti, però, che uccidono le Denominazioni di Origine e rischiano di uccidere il lavoro artigianale di migliaia di agricoltori italiani. 
E allora, come agricoltore produttore di vino e di olio originariamente italiani, a me piacerebbe che il giornalismo "indipendente" non scadesse in queste polemiche piccole, in qualche modo autoreferenziali, quasi da casta o corporazione/Ordine dei giornalisti... A me piacerebbe che il giornalismo indipendente si schierasse definitivamente e scendesse in campo a viso aperto in quella che - a tutti gli effetti - è la battaglia del secolo per i contadini di tutto il mondo: quella per la sopravvivenza. Si schierino i blog, i giornalisti free-lance, i vari neo-comunicatori: con certe industrie dell'alimentazione che stanno distruggendo l'agricoltura italiana o con i contadini-artigiani che provano una nuova resistenza. 

PS Ovviamente questa resta una mia opinione personale, esattamente come lo era - pur di segno differente - quella di Maurizio Gily. Sarebbe il caso che in questo disgraziato paese la si smettesse di querelare per ogni sciocchezza e ad essere perseguiti per delle opinioni, anche se espresse in modo forte e deciso.          

sabato 25 gennaio 2014

Winestories: La Distesa


Un grazie sincero a Mauro, novello Mario Soldati in giro per le vigne e i vignaioli d'Italia. 

martedì 14 gennaio 2014

T come Terroir


(da "non è il vino dell'enologo" - ed. DeriveApprodi)

Il mio terroir è una piccola striscia di terra rivolta a mezzogiono.
Là dove milioni di anni fa c’era il mare, oggi c’è una distesa di colline che si inseguono sinuose. Alle spalle c’è Cupramontana, di fronte Staffolo, in lontananza Cingoli, mentre netta si staglia la figura del monte San Vicino a segnalare la vicinanza degli Appennini.
La terra è un’argilla multiforme: zone di vera e propria creta bianca, dove domina il calcare, si alternano a lingue di arenaria giallastra e di marne azzurre, specie più in profondità. Su questo suolo, compatto e povero di sostanza organica, nascono vini potenti, strutturati e salati.
Qui si è sempre fatto vino. La storia della viticoltura potrebbe essere una narrazione affascinante e parallela alla storia ufficiale del nostro paese. Dai romani al medioevo, passando attraverso la storia del monachesimo e dell’agricoltura di sussistenza, fino alla rivoluzione industriale ed al nostro tempo contemporaneo, ogni stagione ha avuto il suo vino, la sua organizzazione aziendale, i suoi metodi.
Il terroir non è un ideale ma un dato storico mutevole. E’ suolo e microclima; è vitigno e tecnica colturale; è fatto economico e culturale che segna l’identità locale in modo profondo. Il rischio è che diventi localismo becero e chiuso, quando la sua potenza sta invece nella ricchezza delle diversità, sorta di straordinario meticciato culturale.
Non ho mai capito perché in primavera solo in questa striscia di terra, che appartiene alla mia famiglia da circa ottanta anni, fiorisca un prato di tulipani rossi selvatici. Nelle vigne vicine no. A sinistra qualche fiore bianco, in mezzo alla terra lavorata in modo convenzionale. A destra principalmente fiori gialli, su un terreno a conduzione biologica come il mio. Non so se è da considerarsi fenomeno del terroir. Forse sì.
Certamente da sempre questo è stato considerato a Cupramontana un cru naturale. Si ritrova nei documenti storici e nelle narrazioni orali. Zona “da sole”, priva di ristagni di umidità. Con un’ottima ventilazione ed una buona altezza sul livello del mare a garantire escursioni notevoli fra il giorno e la notte.
Si vendemmia prima che altrove, in contrada San Michele. Ed i vini sanno di erbe aromatiche e scorze d’arancio.
Camminarci è uno spettacolo, specie in quelle giornate terse che esaltano i profili delle colline, amplificando gli spazi e disegnando i contorni di un ambiente agricolo dove ancora è tangibile il paesaggio della mezzadria marchigiana: i piccoli appezzamenti, l’alternarsi di colture diverse, le residuali zone boscose, le innumerevoli abitazioni contadine. La classica azienda multifunzionale tipica della mezzadria, spesso quasi del tutto autosufficiente, dove si coltivavano al tempo stesso seminativi, ortaggi, vigna e oliveto, dove nelle stalle un paio di bestie della razza marchigiana scaldavano gli ambienti e qualche maiale garantiva l’apporto annuale di grassi e carne a buon mercato, ha preservato in queste vallate, nonostante tutto, una biodiversità invidiabile.
Se San Michele è il cru di questo terroir, Cupramontana è il village. Un paese che avrebbe potuto essere la Chablis d’Italia e non lo è stata. Per le troppe occasioni perdute, per certi casi della storia, per una antropologia tutta particolare.
Eppure qui il vino, e specie quello bianco, ha una importanza ancora oggi difficile da riscontrare altrove, scolpendo il carattere degli abitanti di questi luoghi. Difficile convincere un vero cuprense a bere altro che il Verdicchio, ed in particolare il Verdicchio di Cupramontana. Vitigno eccezionale, unico, capace di dare splendide basi spumanti, grandi vini bianchi secchi da invecchiamento così come ottimi vini passiti, il Verdicchio a Cupramontana si esprime in mille modi diversi, a seconda dei versanti, delle esposizioni, dei terreni, delle stagioni.
In principio i vigneti erano solo filari sparsi in mezzo ai campi di grano, retti da aceri campestri o alberi da frutta: la classica “alberata”. La mezzadria rifuggiva la specializzazione, pericolosa forma di concentrazione del rischio. Ai contadini conveniva produrre un pò di tutto, così da privilegiare l’autoconsumo e suddividere i rischi dell’andamento stagionale su più colture.
Nel primo dopoguerra e poi negli anni cinquanta qualche possidente terriero, fra cui era mio nonno, inizia la coltura intensiva della vite. Le viti erano basse, i sesti d’impianto fittissimi, non esistendo meccanizzazione. Accanto al Verdicchio c’erano diversi tipi di Trebbiano, la malvasia, l’albanella. Il Verdicchio era vino da uvaggio, come del resto la gran parte dei vini bianchi del centro Italia. La vinificazione avveniva con una breve macerazione sulle bucce per avviare la fermentazione. Dopo la svinatura il mosto andava nelle grandi botti di quercia dove riposava fino alla primavera. I vini erano acidi, il clima molto più freddo, la vendemmia iniziava dopo la festa dell’uva, la prima domenica di ottobre, e si prolungava fino ai Santi. Spesso veniva lasciato in vigna qualche grappolo fino a Natale che una volta vendemmiato si sgranava e si aggiungeva ai mosti per rafforzarne il grado e gli aromi.
Con il successo dell’anfora e del Verdicchio industriale negli anni sessanta questo modello entra progressivamente in crisi. A Cupramontana si assiste al “boom” del Verdicchio, che spesso è un vinello mediocre e più spesso ancora uno spumantino gassificato. Si contano decine di cantine. Poche quelle che investono in qualità, molte delle quali soffrono il crollo dei prezzi e faticano a stare sul mercato.
I vigneti si fanno più larghi e produttivi. Le cantine si attrezzano con nuove tecnologie. L’intero terroir muta. Ricordo bene, ero bambino ed adolescente, i Verdicchio di Pietro, fatti alla vecchia maniera, venduti in cisterna a poche centinaia di lire al litro. Non aiutano la fuga dalle campagne e la progressiva industrializzazione, specie più a valle. O, meglio: aiutano a garantire un reddito altrimenti impensabile e, spesso, l’uscita dalla povertà di intere famiglie cuprensi. Ma certamente cambia totalmente il modello agricolo dominante.
Oggi siamo in mezzo al guado. Accanto ai molti, troppi, Verdicchio da supermercato, un gruppo sempre più numeroso di ottimi produttori hanno dato negli ultimi vent’anni nuovo smalto al vitigno ed alla zona. Ricordo ancora perfettamente un Villa Bucci Riserva 1992 ed un Gaiospino 1997 di Lucio Canestrari stupirmi e farmi capire le potenzialità del Verdicchio dei Castelli di Jesi.
Cosa accadrà a questo terroir in futuro è difficile prevederlo. Il Verdicchio si sta imponendo lentamente come “il” grande vino bianco italiano. Ma quale Verdicchio? All’interno di quale mondo del vino? Questo è già più difficile pensarlo. Qualche giovane ricomincia. E molti vignaioli iniziano il percorso verso il biologico. Un clima molto diverso che nel passato, segnato da estati sempre più calde, impone scelte agronomiche differenti, a partire dall’impianto dei vigneti per arrivare sino alle scelte vendemmiali. In tutto questo il terroir, complesso sistema di interazioni e relazioni fra uomo e natura, modificherà ancora una volta il suo essere, restando, però, unica ed irripetibile espressione di questa porzione di terra.
Così come i “miei” tulipani rossi.