(da "non è il vino dell'enologo" - ed. DeriveApprodi)
Il mio terroir è una piccola striscia di terra rivolta a mezzogiono.
Là dove milioni di anni fa c’era il mare, oggi c’è una distesa di colline che si inseguono sinuose. Alle spalle c’è Cupramontana, di fronte Staffolo, in lontananza Cingoli, mentre netta si staglia la figura del monte San Vicino a segnalare la vicinanza degli Appennini.
La terra è un’argilla multiforme: zone di vera e propria creta bianca, dove domina il calcare, si alternano a lingue di arenaria giallastra e di marne azzurre, specie più in profondità. Su questo suolo, compatto e povero di sostanza organica, nascono vini potenti, strutturati e salati.
Qui si è sempre fatto vino. La storia della viticoltura potrebbe essere una narrazione affascinante e parallela alla storia ufficiale del nostro paese. Dai romani al medioevo, passando attraverso la storia del monachesimo e dell’agricoltura di sussistenza, fino alla rivoluzione industriale ed al nostro tempo contemporaneo, ogni stagione ha avuto il suo vino, la sua organizzazione aziendale, i suoi metodi.
Il terroir non è un ideale ma un dato storico mutevole. E’ suolo e microclima; è vitigno e tecnica colturale; è fatto economico e culturale che segna l’identità locale in modo profondo. Il rischio è che diventi localismo becero e chiuso, quando la sua potenza sta invece nella ricchezza delle diversità, sorta di straordinario meticciato culturale.
Non ho mai capito perché in primavera solo in questa striscia di terra, che appartiene alla mia famiglia da circa ottanta anni, fiorisca un prato di tulipani rossi selvatici. Nelle vigne vicine no. A sinistra qualche fiore bianco, in mezzo alla terra lavorata in modo convenzionale. A destra principalmente fiori gialli, su un terreno a conduzione biologica come il mio. Non so se è da considerarsi fenomeno del terroir. Forse sì.
Certamente da sempre questo è stato considerato a Cupramontana un cru naturale. Si ritrova nei documenti storici e nelle narrazioni orali. Zona “da sole”, priva di ristagni di umidità. Con un’ottima ventilazione ed una buona altezza sul livello del mare a garantire escursioni notevoli fra il giorno e la notte.
Si vendemmia prima che altrove, in contrada San Michele. Ed i vini sanno di erbe aromatiche e scorze d’arancio.
Camminarci è uno spettacolo, specie in quelle giornate terse che esaltano i profili delle colline, amplificando gli spazi e disegnando i contorni di un ambiente agricolo dove ancora è tangibile il paesaggio della mezzadria marchigiana: i piccoli appezzamenti, l’alternarsi di colture diverse, le residuali zone boscose, le innumerevoli abitazioni contadine. La classica azienda multifunzionale tipica della mezzadria, spesso quasi del tutto autosufficiente, dove si coltivavano al tempo stesso seminativi, ortaggi, vigna e oliveto, dove nelle stalle un paio di bestie della razza marchigiana scaldavano gli ambienti e qualche maiale garantiva l’apporto annuale di grassi e carne a buon mercato, ha preservato in queste vallate, nonostante tutto, una biodiversità invidiabile.
Se San Michele è il cru di questo terroir, Cupramontana è il village. Un paese che avrebbe potuto essere la Chablis d’Italia e non lo è stata. Per le troppe occasioni perdute, per certi casi della storia, per una antropologia tutta particolare.
Eppure qui il vino, e specie quello bianco, ha una importanza ancora oggi difficile da riscontrare altrove, scolpendo il carattere degli abitanti di questi luoghi. Difficile convincere un vero cuprense a bere altro che il Verdicchio, ed in particolare il Verdicchio di Cupramontana. Vitigno eccezionale, unico, capace di dare splendide basi spumanti, grandi vini bianchi secchi da invecchiamento così come ottimi vini passiti, il Verdicchio a Cupramontana si esprime in mille modi diversi, a seconda dei versanti, delle esposizioni, dei terreni, delle stagioni.
In principio i vigneti erano solo filari sparsi in mezzo ai campi di grano, retti da aceri campestri o alberi da frutta: la classica “alberata”. La mezzadria rifuggiva la specializzazione, pericolosa forma di concentrazione del rischio. Ai contadini conveniva produrre un pò di tutto, così da privilegiare l’autoconsumo e suddividere i rischi dell’andamento stagionale su più colture.
Nel primo dopoguerra e poi negli anni cinquanta qualche possidente terriero, fra cui era mio nonno, inizia la coltura intensiva della vite. Le viti erano basse, i sesti d’impianto fittissimi, non esistendo meccanizzazione. Accanto al Verdicchio c’erano diversi tipi di Trebbiano, la malvasia, l’albanella. Il Verdicchio era vino da uvaggio, come del resto la gran parte dei vini bianchi del centro Italia. La vinificazione avveniva con una breve macerazione sulle bucce per avviare la fermentazione. Dopo la svinatura il mosto andava nelle grandi botti di quercia dove riposava fino alla primavera. I vini erano acidi, il clima molto più freddo, la vendemmia iniziava dopo la festa dell’uva, la prima domenica di ottobre, e si prolungava fino ai Santi. Spesso veniva lasciato in vigna qualche grappolo fino a Natale che una volta vendemmiato si sgranava e si aggiungeva ai mosti per rafforzarne il grado e gli aromi.
Con il successo dell’anfora e del Verdicchio industriale negli anni sessanta questo modello entra progressivamente in crisi. A Cupramontana si assiste al “boom” del Verdicchio, che spesso è un vinello mediocre e più spesso ancora uno spumantino gassificato. Si contano decine di cantine. Poche quelle che investono in qualità, molte delle quali soffrono il crollo dei prezzi e faticano a stare sul mercato.
I vigneti si fanno più larghi e produttivi. Le cantine si attrezzano con nuove tecnologie. L’intero terroir muta. Ricordo bene, ero bambino ed adolescente, i Verdicchio di Pietro, fatti alla vecchia maniera, venduti in cisterna a poche centinaia di lire al litro. Non aiutano la fuga dalle campagne e la progressiva industrializzazione, specie più a valle. O, meglio: aiutano a garantire un reddito altrimenti impensabile e, spesso, l’uscita dalla povertà di intere famiglie cuprensi. Ma certamente cambia totalmente il modello agricolo dominante.
Oggi siamo in mezzo al guado. Accanto ai molti, troppi, Verdicchio da supermercato, un gruppo sempre più numeroso di ottimi produttori hanno dato negli ultimi vent’anni nuovo smalto al vitigno ed alla zona. Ricordo ancora perfettamente un Villa Bucci Riserva 1992 ed un Gaiospino 1997 di Lucio Canestrari stupirmi e farmi capire le potenzialità del Verdicchio dei Castelli di Jesi.
Cosa accadrà a questo terroir in futuro è difficile prevederlo. Il Verdicchio si sta imponendo lentamente come “il” grande vino bianco italiano. Ma quale Verdicchio? All’interno di quale mondo del vino? Questo è già più difficile pensarlo. Qualche giovane ricomincia. E molti vignaioli iniziano il percorso verso il biologico. Un clima molto diverso che nel passato, segnato da estati sempre più calde, impone scelte agronomiche differenti, a partire dall’impianto dei vigneti per arrivare sino alle scelte vendemmiali. In tutto questo il terroir, complesso sistema di interazioni e relazioni fra uomo e natura, modificherà ancora una volta il suo essere, restando, però, unica ed irripetibile espressione di questa porzione di terra.
Così come i “miei” tulipani rossi.