Perché tornare ancora sulla questione del Brunello taroccato? Perché questa è la madre di tutte le battaglie per quanto riguarda il mondo del vino italiano. La questione mi ricorda quella scena splendida del film Mondovino in cui Hubert de Montille parla della Borgogna come ultimo baluardo nella guerra del vino. Il grande Angelo Gaja ha detto la sua in un testo che affronta il problema in modo piuttosto aggressivo. Dopo aver fatto una breve storia del "fenomeno" Brunello, il produttore piemontese (che produce vino anche a Montalcino) spiega quale potrebbe essere a suo avviso la via di uscita: un nuovo disciplinare che ammetta per "gli industriali" una correzione con uve non Sangiovese e per "gli artigiani" la possibilità di valorizzare al meglio la propria fedeltà al Sangiovese 100% (scrivendolo in etichetta).
Per sostenere questa soluzione Gaja osserva che il territorio dove è possibile produrre Brunello è oggi troppo ampio e comprende zone dove il solo Sangiovese non è in grado di produrre grandi vini. Non solo, forza ulteriormente il discorso arrivando ad affermare che: "...si è lamentata la mancata zonazione (catalogazione scientifica dei terreni con la delimitazione di quelli vocati e di quelli no): ma la zonazione in nessuna parte del mondo – ad esclusione forse della Borgogna che riconosce però non una, ma oltre cento denominazione d’origine diverse - è diventata il principio ispiratore dei disciplinari di produzione. Meno che mai in Italia ove si è più propensi a coltivare la solidarietà e la compiacenza".
In pratica Gaja auspica un gigantesco compromesso in quella "guerra del vino" che da qualche anno si profila all'orizzonte fra artigiani ed industriali. Un compromesso basato sulla segmentazione dei mercati e sulla consapevolezza, non si sa bene quanto fondata, che le fortune dei "piccoli" passano anche dagli investimenti dei "grandi".
Che dire? Ovviamente non mi è possibile fare a meno che dissentire. Con molta umiltà, visto il livello del personaggio. Per ragioni varie ma tutte riconducibili ad una questione costitutiva. Per Gaja, così come per l'estalishment del vino italiano, Ministri inclusi, le denominazioni di origine sono dei marchi commerciali. Dunque sono manipolabili, privatizzabili, flessibili. Hanno un valore economico prima che storico-culturale. Secondo tale visione il valore aggiunto di un vino avviene nel processo di comunicazione e vendita, e la denominazione di origine è solo uno strumento commerciale. In questo senso Banfi e "gli industriali" di Montalcino sono coloro che hanno creato il fenomeno e, dunque, il vero valore aggiunto. Di conseguenza devono potersi fregiarse del titolo anche se hanno vigneti meno vocati. Anche se non sanno o non possono fare il Brunello col solo Sangiovese. Non fa una grinza.
Il discorso di Gaja è riformista e moderno. E' rivolto al mercato. E' cerchiobottista.
Peccato che. Peccato che le parole sono importanti. E, se anche fosse vero che i disciplinari non hanno mai tenuto conto delle zonazioni, il Barolo è Nebbiolo, Vosne-Romanée è Pinot Nero, Brunello di Montalcino è Sangiovese, Hermitage è Syrah. Non perché lo dica un disciplinare o il sottoscritto o Angelo Gaja. Ma perché lo dice la Storia.
Peccato che se alcuni vigneti non sono in grado di produrre grandi vini perché inadatti al Brunello forse debbano essere declassati. Pratica certamente meno remunerativa, ma ben più etica, rispetto all'inserire vitigni alloctoni e poi fregiarsi della stessa denominazione di chi ha i vigneti vocati o, semplicemente, sa fare meglio il vino; magari perchè in vigneto ci va sul serio a lavorare, anziché star seduto dietro un computer al di là dell'Oceano decidendo quale azienda toscana o francese o californiana acquistare.
Peccato che. Peccato che le denominazioni non siano marchi commerciali ma beni comuni. Beni che non appartengono a nessuno e però a tutti, consumatori inclusi. Beni collettivi che identificano un territorio; uno o più vitigni, secondo la tradizione; pratiche agricole consolidate; una geografia umana e sociale prima ancora che una economia; un concetto qualitativo di natura complessa come il "terroir", che corrisponde a diverse scienze naturali e sociali. Questo apparentemente sfugge a Gaja, sfugge a molti in Toscana e in tutta Italia, sfugge ai molti legislatori italiani ed europei che stanno discutendo di vino e di denominazioni. O forse non sfugge affatto a costoro, anzi. Proprio perché ben a conoscenza di tutto ciò, e dunque spaventati dalla figura del vignaiolo-artigiano, fedele traduttore del terroir, avanguardia di quell'attore "glocal" in grado di rispondere in modo moderno alle sollecitazioni della globalizzazione, proprio per questo i grandi consorzi, i monopoli, i poteri pubblici e privati tentano in ogni modo di portare l'ultimo attacco, definitivo, irreversibile, all'idea di Origine dei prodotti agricoli.
Per tutto ciò non posso che rinnovare l'invito a firmare l'appello in difesa dell'identità del vino a questo indirizzo web.
Per sostenere questa soluzione Gaja osserva che il territorio dove è possibile produrre Brunello è oggi troppo ampio e comprende zone dove il solo Sangiovese non è in grado di produrre grandi vini. Non solo, forza ulteriormente il discorso arrivando ad affermare che: "...si è lamentata la mancata zonazione (catalogazione scientifica dei terreni con la delimitazione di quelli vocati e di quelli no): ma la zonazione in nessuna parte del mondo – ad esclusione forse della Borgogna che riconosce però non una, ma oltre cento denominazione d’origine diverse - è diventata il principio ispiratore dei disciplinari di produzione. Meno che mai in Italia ove si è più propensi a coltivare la solidarietà e la compiacenza".
In pratica Gaja auspica un gigantesco compromesso in quella "guerra del vino" che da qualche anno si profila all'orizzonte fra artigiani ed industriali. Un compromesso basato sulla segmentazione dei mercati e sulla consapevolezza, non si sa bene quanto fondata, che le fortune dei "piccoli" passano anche dagli investimenti dei "grandi".
Che dire? Ovviamente non mi è possibile fare a meno che dissentire. Con molta umiltà, visto il livello del personaggio. Per ragioni varie ma tutte riconducibili ad una questione costitutiva. Per Gaja, così come per l'estalishment del vino italiano, Ministri inclusi, le denominazioni di origine sono dei marchi commerciali. Dunque sono manipolabili, privatizzabili, flessibili. Hanno un valore economico prima che storico-culturale. Secondo tale visione il valore aggiunto di un vino avviene nel processo di comunicazione e vendita, e la denominazione di origine è solo uno strumento commerciale. In questo senso Banfi e "gli industriali" di Montalcino sono coloro che hanno creato il fenomeno e, dunque, il vero valore aggiunto. Di conseguenza devono potersi fregiarse del titolo anche se hanno vigneti meno vocati. Anche se non sanno o non possono fare il Brunello col solo Sangiovese. Non fa una grinza.
Il discorso di Gaja è riformista e moderno. E' rivolto al mercato. E' cerchiobottista.
Peccato che. Peccato che le parole sono importanti. E, se anche fosse vero che i disciplinari non hanno mai tenuto conto delle zonazioni, il Barolo è Nebbiolo, Vosne-Romanée è Pinot Nero, Brunello di Montalcino è Sangiovese, Hermitage è Syrah. Non perché lo dica un disciplinare o il sottoscritto o Angelo Gaja. Ma perché lo dice la Storia.
Peccato che se alcuni vigneti non sono in grado di produrre grandi vini perché inadatti al Brunello forse debbano essere declassati. Pratica certamente meno remunerativa, ma ben più etica, rispetto all'inserire vitigni alloctoni e poi fregiarsi della stessa denominazione di chi ha i vigneti vocati o, semplicemente, sa fare meglio il vino; magari perchè in vigneto ci va sul serio a lavorare, anziché star seduto dietro un computer al di là dell'Oceano decidendo quale azienda toscana o francese o californiana acquistare.
Peccato che. Peccato che le denominazioni non siano marchi commerciali ma beni comuni. Beni che non appartengono a nessuno e però a tutti, consumatori inclusi. Beni collettivi che identificano un territorio; uno o più vitigni, secondo la tradizione; pratiche agricole consolidate; una geografia umana e sociale prima ancora che una economia; un concetto qualitativo di natura complessa come il "terroir", che corrisponde a diverse scienze naturali e sociali. Questo apparentemente sfugge a Gaja, sfugge a molti in Toscana e in tutta Italia, sfugge ai molti legislatori italiani ed europei che stanno discutendo di vino e di denominazioni. O forse non sfugge affatto a costoro, anzi. Proprio perché ben a conoscenza di tutto ciò, e dunque spaventati dalla figura del vignaiolo-artigiano, fedele traduttore del terroir, avanguardia di quell'attore "glocal" in grado di rispondere in modo moderno alle sollecitazioni della globalizzazione, proprio per questo i grandi consorzi, i monopoli, i poteri pubblici e privati tentano in ogni modo di portare l'ultimo attacco, definitivo, irreversibile, all'idea di Origine dei prodotti agricoli.
Per tutto ciò non posso che rinnovare l'invito a firmare l'appello in difesa dell'identità del vino a questo indirizzo web.