Questa è l'immagine con cui mi sono svegliato questa mattina. La Distesa sotto la neve è sempre molto affascinante, specie se non si ripetono nevicate storiche come quella del gennaio 2005. Ma l'immagine con cui chiuderò gli occhi stanotte sarà un'altra. Quella di capitan Maldini. Quando smetterà, fra poco, saremo tutti un pò più tristi e vecchi.
Vino e territorio. Musica e cultura. Pensieri, sogni e visioni di un Homo Sapiens di campagna
domenica 16 dicembre 2007
giovedì 13 dicembre 2007
Verso l'inverno
Giorni di pioggia, giorni sempre più freddi. Giorni di decomposizione, di ritorno alla terra, di forze discendenti. Ho sempre amato la fredda decadenza del tardo autunno, le giornate dalla luce scarsa ed evanescente, i primi freddi che poi non sono mai primi per davvero. Mi è sempre piaciuto l'odore di foglie bagnate, di terra umida, di sottobosco marcescente, di fuoco appena acceso, di cenere spenta, di legna affumicata.
In mezzo a tutto questo i vini nuovi fermentano ancora, lentissimamente, pericolosamente sul confine fra grandezza e perdizione. In mezzo a tutto questo In rainbows dei Radiohead è un disco contraddittorio, ma bellissimo nella parte finale, adattissimo alla stagione e a questi anni instabili. In mezzo a tutto questo c'è il Natale che arriva, inesorabile, noioso e sempre necessario a rinsaldare per un attimo appena comunità disperse, distratte, distrutte.
giovedì 6 dicembre 2007
Francia
Mancano ancora più di sei mesi agli Europei di calcio quando ci troveremo ancora di fronte i cugini francesi. Fino ad allora è possibile gridare "Vive la France!" bevendo i loro vini stupendi. D'altronde che siamo campioni del mondo non si discute. A pallone. Ma per quanto concerne i vini continuo a pensare che abbiamo ancora un pò di strada da fare, noi vignaioli italiani. Questione di terre ma anche di teste. Perché sui vitigni, non c'è storia; anche lì siamo campioni del mondo.
Sono tornato ancora una volta in quel di Beaune e Mersault, insieme alla solita compagnia di amici, ma orfani di Izio, sempre magico vice-segretario (in pochi sappiamo il significato recondito di questa carica onoraria).
In realtà stavolta la Cote d'or è stata solo un buon trampolino per conoscere realtà come lo Jura e Chablis, trovandosi più o meno a metà strada fra queste due regioni. Rimando ai prossimi giorni i commenti più precisi a vini e produttori. Oggi mi interessa soprattutto sottolineare come abbiamo assaggiato, con pochissime eccezioni, vini davvero superbi, anche in relazione al prezzo (certo scordiamoci i vini da 3 euro!). Vini con una identità spiccata e un eccezionale rapporto col territorio, sia che si fosse nella grande "tasting room" di una azienda da milioni di bottiglie, sia nello Chateau fico da centinaia di migliaia di bottiglie, sia nella grotta piena di muffe e ragnatele del piccolo vigneron. La sensazione, cioé, è che indipendentemente dalle dimensioni aziendali, queste regioni stiano resistendo in modo vigoroso e tangibile alla standardizzazione del gusto imposta negli ultimi anni, proseguendo sulla strada della tradizione.
In particolare Chablis, di cui conoscevo i vini ma non il territorio, è stata una rivelazione. Un luogo magico cui tornare in futuro. Un terroir fondamentale soprattutto per chi non si rassegna al dominio del "vino rosso" nell'immaginario collettivo. Abbiamo assaggiato vini davvero stupendi, dalla freschezza incredibile, dalla mineralità decisa, dalla vita lunghissima. Una qualità media impressionante, a fronte di prezzi molto elevati sui grand crus, ma decisamente alla portata per le denominazioni inferiori, specie nel confronto con certi bianchi di grido italiani.
giovedì 29 novembre 2007
Il fuoco sacro del rock'n'roll
Aspettavo Adam raised a Cain dopo quasi vent'anni ed è arrivata. Aspettavo Incident on 57th street ed è arrivata, con tanto di infinito e bollente assolo di chitarra finale. I pezzi del nuovo disco dal vivo spaccano. Ma soprattutto ieri c'era di nuovo il fuoco sacro, la luce accecante del rock'n'roll. Non aggiungo altro, perché è inutile. Chi c'era sa di cosa sto parlando. E chi non c'era forse non potrebbe capire.
mercoledì 21 novembre 2007
La Terra Trema a Milano
Venerdì partirò per Milano. Che per me significa ancora casa. Pranzi e cene da mamma, la mia vecchia cameretta, lo sferragliare notturno dei tram, qualche birra con gli amici di sempre.
L'occasione è la fiera La Terra Trema al Leonkavallo, ultima tappa del percorso di movimento un tempo chiamato Critical Wine. Insieme ad altri agricoltori proveremo a portare, ancora una volta, i tempi e le storie della campagna nel centro della metropoli. Qui trovate tutte le informazioni. Come sempre mi piace molto il lavoro teorico che sta dietro a questi eventi e l'elaborazione politica che vi si cela. Qualcosa di molto lontano dall'aria fritta del Partito Democratico. Micropolitiche della resistenza le chiamano gli organizzatori. Che colgono nel segno quando vedono nel distorto rapporto fra città e campagne, fra centro e periferia, uno dei principali nodi irrisolti della post-modernità, generatore di corto circuiti fra cultura e colture, fra Terra e alimentazione, fra globale e locale, fra uomo e macchina. A tutto ciò si cercherà di rispondere attraverso "vini e vignaioli autentici, agricoltori periurbani e gastronomie autonome", come recita il sottotitolo de La Terra Trema.
Vi aspetto, dunque, venerdì, sabato e domenica all'interno dello Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo dalle 15.00 alle 22.00 per degustare, chiacchierare, riflettere e anche divertirsi.
L'occasione è la fiera La Terra Trema al Leonkavallo, ultima tappa del percorso di movimento un tempo chiamato Critical Wine. Insieme ad altri agricoltori proveremo a portare, ancora una volta, i tempi e le storie della campagna nel centro della metropoli. Qui trovate tutte le informazioni. Come sempre mi piace molto il lavoro teorico che sta dietro a questi eventi e l'elaborazione politica che vi si cela. Qualcosa di molto lontano dall'aria fritta del Partito Democratico. Micropolitiche della resistenza le chiamano gli organizzatori. Che colgono nel segno quando vedono nel distorto rapporto fra città e campagne, fra centro e periferia, uno dei principali nodi irrisolti della post-modernità, generatore di corto circuiti fra cultura e colture, fra Terra e alimentazione, fra globale e locale, fra uomo e macchina. A tutto ciò si cercherà di rispondere attraverso "vini e vignaioli autentici, agricoltori periurbani e gastronomie autonome", come recita il sottotitolo de La Terra Trema.
Vi aspetto, dunque, venerdì, sabato e domenica all'interno dello Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo dalle 15.00 alle 22.00 per degustare, chiacchierare, riflettere e anche divertirsi.
Etichette:
critical wine,
degustazioni,
fiere,
vignaioli
lunedì 19 novembre 2007
Lungo il Grande Fiume - Parte terza
Dopo la Maison Chapoutier restiamo nella parte Nord della Valle del Rodano per incontrare una serie di produttori più piccoli ma egualmente molto interessanti.
GEORGE VERNAY – Condrieu.
GEORGE VERNAY – Condrieu.
Forse perché arrivati in ritardo all’appuntamento, ma qui l’accoglienza è decisamente più fredda. L’azienda Vernay, diretta da Paul Amsellem, è nota per i suoi Condrieu. Purtroppo i vini più interessanti sono esauriti, dunque la panoramica non può considerarsi esaustiva. In generale, però, si può affermare che lo stile aziendale è certamente orientato verso una impostazione internazionale, specialmente per quanto concerne la Sirah.LES TERRASSES DE L’EMPIRE – CONDRIEU 2005
Un classico giallo paglierino introduce a sentori di banana un po’ banali. Al naso è comunque molto pulito e fine. In bocca è morbido, corretto, senza una grande persistenza. Il viogner si offre qui nella sua mielata rotondità un po’ noiosa.
LES CHALEES DE L’ENFER – CONDRIEU 2005
Si presenta in un giallo paglierino carico. L’olfatto è subito elegantissimo e fine con una pulitissima nota di pera, di buccia di arancia caramellata, di marmellata di agrumi. In bocca ha un ottimo equilibrio fra morbidezza e acidità. La chiusura è lunga e minerale, e lascia presagire un grande futuro. Davvero un grande bianco.
LES DAMES BRUNES – SAINT JOSEPH 2004.
Un vino internazionale, una sirah che potrebbe essere australiana, sebbene a sua difesa vale la considerazione di un imbottigliamento ancora troppo ravvicinato. La tostatura del rovere è in grande evidenza. Comunque molto pulito al naso e di buona concentrazione.
MAISON ROUGE – COTE ROTIE 2004.
Un colore rosso cupo dai riflessi violacei introduce un naso pulito dove spiccano le note di spezie dolci, di pepe nero, di piccoli frutti rossi. Emerge più la sirah che la Cote Rotie, ma forse è anche la gioventù. I tannini sono comunque finissimi e precisi. Presente ancora la nota vanigliata sebbene più integrata nel frutto rispetto al vino precedente. Un esercizio di stile che risulta in fondo un po’ fine a se stesso.
VINCENT GASSE – Ampuis.
Vincent Gasse è un vignaiolo come tanti ce ne sono in Francia e in Italia. Ex insegnante in un Istituto per periti agrari, si è dato alla viticoltura biologica perché ha conosciuto e insegnato direttamente l’agricoltura chimica della “rivoluzione verde”. Un modello che considera ormai superato e dannoso. A parlarci, non sembra un integralista. Non lavora in biodinamica perché “si fa troppa fatica”, e in cantina è naturale solo perché così ha sempre fatto ed il vino che ne risulta lo soddisfa. Poi, però, ci porta nelle sue vigne, che sono piccolissime parcelle di diversi vigneti, e d’improvviso si illumina e veniamo travolti dalla sua passione per la terra.
Le parcelle, specie le prime due che ci mostra, sono proprio sopra al paese di Ampuis. Hanno pendenze incredibili. Il Rodano, enorme e fascinoso, compie una curva in modo tale che la costa vignata sia rivolta a sud, protetta dai venti più freddi (Mistral). Sembra di essere sulla Mosella più ancora che in Valtellina, con salti nel vuoto davvero affascinanti. La vendemmia qui è arte alpinistica ed i trattamenti principali vengono fatti, collettivamente e con prodotti biologici su tutte le parcelle, in elicottero. Poi, chi fa agricoltura convenzionale, se lo vuole, tratta ulteriormente le proprie vigne. Quando ha iniziato, Gasse era il primo a fare agricoltura biologica ad Ampuis e, ancora oggi, è fra i pochissimi. I suoi vini sono vini veri ma anche vini tecnicamente ineccepibili.
In cantina, un classica cantina da vigneron francese, dapprima ci fa assaggiare alcune prove di botte che subito si distinguono per autenticità e dirittura. Poi ci apre alcune delle poche bottiglie rimaste di annate precedenti.
COTE ROTIE 2001
Il colore è un rosso rubino classico. L’olfatto è invaso da note di pepe verde, rosmarino affumicato e di polvere di cacao. Poi sotto alla speziatura sembra emergere una interessante vena minerale, di grafite e asfalto. In bocca è stupendo per la freschezza quasi balsamica che lascia in bocca, risultante di tannini forse ancora un pò spigolosi e di una acidità ben presente e sapida. Un vino che può davvero invecchiare a lungo.
CONDRIEU 2003
E’ un viogner classico dal naso esplosivo di miele di acacia, confettura di pesca ed albicocca che in bocca delude per l’eccessiva morbidezza. Il vino, sebbene secco, risulta quasi dolce, stanco, senza alcuna presenza di sali minerali. Qui forse c’è di mezzo anche l’annata.
DOMAINE LIONNET – Cornas.
Lionnet è un altro vigneron classico, proveniente da una famiglia di viticoltori a Cornas dal 1575. La sua azienda produce un unico vino in 10.000 esemplari all’anno, circa. Siamo di fronte a quella realtà contadina francese viva, pulsante, fiera della propria storia. Una storia mai rinnegata per un salto verso l’industria o il mito cittadino. Sono le migliaia di piccole aziende come questa a costituire l’ossatura di un sistema-vino che, al contrario del modello degli chateaux bordolesi, regge la competizione globale attraverso una qualità distintiva, la fede nel terroir e la capacità di rivolgersi ad una clientela privata che raramente li tradisce, anche nelle annate meno fortunate.
Gli assaggi da barrique del Cornas 2005 ci fanno scoprire l’essenza del crus di Cornas, il vino più “sudista” del nord del Rodano. E’ un rosso cupo, concentrato, con spiccate doti di invecchiamento (anche 20 anni) in cui la sirah emerge come vitigno in perfetto equilibrio tra finezza e potenza, meno minerale che in Cote Rotie, bensì più grasso e morbido.
CORNAS 2004
Un vino che appare un po’ chiuso. Ci spiega Lionnet che i Cornas vanno bevuti molto giovani oppure almeno dopo 5 anni, poiché attraversano una fase “intimista” nel passaggio fra il fruttato giovanile e i sentori terziari della evoluzione. Si apre comunque su fini note di pepe nero, curry dolce, resina. Poi, delicatamente, si fanno strada frutti di bosco appena accennati. In bocca è molto buono, già in equilibrio perfetto fra alcool, tannini e acidità. Comunque la chiusura è verticale ed elegante. E’ il vino di un vignaiolo di razza.
Un classico giallo paglierino introduce a sentori di banana un po’ banali. Al naso è comunque molto pulito e fine. In bocca è morbido, corretto, senza una grande persistenza. Il viogner si offre qui nella sua mielata rotondità un po’ noiosa.
LES CHALEES DE L’ENFER – CONDRIEU 2005
Si presenta in un giallo paglierino carico. L’olfatto è subito elegantissimo e fine con una pulitissima nota di pera, di buccia di arancia caramellata, di marmellata di agrumi. In bocca ha un ottimo equilibrio fra morbidezza e acidità. La chiusura è lunga e minerale, e lascia presagire un grande futuro. Davvero un grande bianco.
LES DAMES BRUNES – SAINT JOSEPH 2004.
Un vino internazionale, una sirah che potrebbe essere australiana, sebbene a sua difesa vale la considerazione di un imbottigliamento ancora troppo ravvicinato. La tostatura del rovere è in grande evidenza. Comunque molto pulito al naso e di buona concentrazione.
MAISON ROUGE – COTE ROTIE 2004.
Un colore rosso cupo dai riflessi violacei introduce un naso pulito dove spiccano le note di spezie dolci, di pepe nero, di piccoli frutti rossi. Emerge più la sirah che la Cote Rotie, ma forse è anche la gioventù. I tannini sono comunque finissimi e precisi. Presente ancora la nota vanigliata sebbene più integrata nel frutto rispetto al vino precedente. Un esercizio di stile che risulta in fondo un po’ fine a se stesso.
VINCENT GASSE – Ampuis.
Vincent Gasse è un vignaiolo come tanti ce ne sono in Francia e in Italia. Ex insegnante in un Istituto per periti agrari, si è dato alla viticoltura biologica perché ha conosciuto e insegnato direttamente l’agricoltura chimica della “rivoluzione verde”. Un modello che considera ormai superato e dannoso. A parlarci, non sembra un integralista. Non lavora in biodinamica perché “si fa troppa fatica”, e in cantina è naturale solo perché così ha sempre fatto ed il vino che ne risulta lo soddisfa. Poi, però, ci porta nelle sue vigne, che sono piccolissime parcelle di diversi vigneti, e d’improvviso si illumina e veniamo travolti dalla sua passione per la terra.
Le parcelle, specie le prime due che ci mostra, sono proprio sopra al paese di Ampuis. Hanno pendenze incredibili. Il Rodano, enorme e fascinoso, compie una curva in modo tale che la costa vignata sia rivolta a sud, protetta dai venti più freddi (Mistral). Sembra di essere sulla Mosella più ancora che in Valtellina, con salti nel vuoto davvero affascinanti. La vendemmia qui è arte alpinistica ed i trattamenti principali vengono fatti, collettivamente e con prodotti biologici su tutte le parcelle, in elicottero. Poi, chi fa agricoltura convenzionale, se lo vuole, tratta ulteriormente le proprie vigne. Quando ha iniziato, Gasse era il primo a fare agricoltura biologica ad Ampuis e, ancora oggi, è fra i pochissimi. I suoi vini sono vini veri ma anche vini tecnicamente ineccepibili.
In cantina, un classica cantina da vigneron francese, dapprima ci fa assaggiare alcune prove di botte che subito si distinguono per autenticità e dirittura. Poi ci apre alcune delle poche bottiglie rimaste di annate precedenti.
COTE ROTIE 2001
Il colore è un rosso rubino classico. L’olfatto è invaso da note di pepe verde, rosmarino affumicato e di polvere di cacao. Poi sotto alla speziatura sembra emergere una interessante vena minerale, di grafite e asfalto. In bocca è stupendo per la freschezza quasi balsamica che lascia in bocca, risultante di tannini forse ancora un pò spigolosi e di una acidità ben presente e sapida. Un vino che può davvero invecchiare a lungo.
CONDRIEU 2003
E’ un viogner classico dal naso esplosivo di miele di acacia, confettura di pesca ed albicocca che in bocca delude per l’eccessiva morbidezza. Il vino, sebbene secco, risulta quasi dolce, stanco, senza alcuna presenza di sali minerali. Qui forse c’è di mezzo anche l’annata.
DOMAINE LIONNET – Cornas.
Lionnet è un altro vigneron classico, proveniente da una famiglia di viticoltori a Cornas dal 1575. La sua azienda produce un unico vino in 10.000 esemplari all’anno, circa. Siamo di fronte a quella realtà contadina francese viva, pulsante, fiera della propria storia. Una storia mai rinnegata per un salto verso l’industria o il mito cittadino. Sono le migliaia di piccole aziende come questa a costituire l’ossatura di un sistema-vino che, al contrario del modello degli chateaux bordolesi, regge la competizione globale attraverso una qualità distintiva, la fede nel terroir e la capacità di rivolgersi ad una clientela privata che raramente li tradisce, anche nelle annate meno fortunate.
Gli assaggi da barrique del Cornas 2005 ci fanno scoprire l’essenza del crus di Cornas, il vino più “sudista” del nord del Rodano. E’ un rosso cupo, concentrato, con spiccate doti di invecchiamento (anche 20 anni) in cui la sirah emerge come vitigno in perfetto equilibrio tra finezza e potenza, meno minerale che in Cote Rotie, bensì più grasso e morbido.
CORNAS 2004
Un vino che appare un po’ chiuso. Ci spiega Lionnet che i Cornas vanno bevuti molto giovani oppure almeno dopo 5 anni, poiché attraversano una fase “intimista” nel passaggio fra il fruttato giovanile e i sentori terziari della evoluzione. Si apre comunque su fini note di pepe nero, curry dolce, resina. Poi, delicatamente, si fanno strada frutti di bosco appena accennati. In bocca è molto buono, già in equilibrio perfetto fra alcool, tannini e acidità. Comunque la chiusura è verticale ed elegante. E’ il vino di un vignaiolo di razza.
Etichette:
degustazioni,
francia,
viaggi,
vignaioli,
vini
giovedì 15 novembre 2007
Vini di vignaioli - impressioni
La fiera è creciuta ancora. A sensazione, però, il maggior numero di produttori non si è tradotto in un aumento di presenze. Come sempre ottimo il cibo durante i pranzi comunitari, occasione eccezionale per scambiarsi opinioni fra vignaioli, specie in questo periodo post-vendemmiale. Davvero molto interessante è stato il convegno del lunedì, partecipato ed intenso. E' emerso chiaramente dal lungo intervento di Antonio Onorati come le politiche dell'Unione Europea stiano portando l'agricoltura sulla strada della concentrazione industriale dell'offerta. Al tempo stesso, però, sono emerse le grandi potenzialità dei piccoli vignaioli "artigiani", capaci di imporre la forza del "terroir", dei vitigni autoctoni, della propria irripetibile personalità. Questo dualismo insanabile tra grande industria e piccola viticoltura di qualità sarà la cifra dei prossimi anni, ponendo una grande parte delle aziende di medie dimensioni di fronte a scelte difficili ma cruciali. Per quanto concerne i vini, mi sono piaciuti molto, mi limito a vini che conoscevo meno, i vini dei ragazzi di Cà de noci (uva Spergola e Lambrusco), assolutamente piacevoli e ricchi di freschezza, i vini dell'azienda friulana I Clivi, specie il Tocai 1997 e 1999 e il Merlot 2000, il sauvignon della Cascina Zerbetta, acidissimo, il bordeaux 2003 di Chateau Planquette, concentrato ma non stucchevole, e il Macon Cruzille 2006 di Julien Guillot (da vigneto impiantato nel 1929).
In generale, ho assaggiato vini molto più puliti e "corretti" rispetto ai primi anni, segno evidente che anche nel mondo dei vini naturali la ricerca di una certa bevibilità, giusta e necessaria, si stia imponendo. Speriamo che non si traduca in un eccesso di conformismo.
sabato 10 novembre 2007
Ancora pensieri sparsi
Fermentazioni ancora in moto, infinite. Spero di uscirne indenne. Nuova offerta di pubblicazione per il mio romanzo "La musica vuota", ma sempre con clausola di acquisto di copie. Ci penserò su. Letture: "Gli Autonomi" edito da DeriveApprodi, molto bello e ostico, su quella incredibile follia collettiva che è stata l'Autonomia Operaia intorno al 1977; sono a metà de "L'audacia della speranza" di Barack Obama. Finora davvero un grande libro. Una prosa asciutta e decisa. Un politico vero. Magari ne parlerò più diffusamente dopo averlo finito. Musica: l'ultimo di Ryan Adams è un bel disco. Ancora: sto tenendo un corso sulla "Conoscenza del vino" il giovedì sera, a Cupra. Bella classe. C'è interesse, c'è una risposta, c'è una attenzione che non è da fighetti che vogliono darsi un tono al ristorante. Capire il vino per diventare consumatori più attenti ed informati. Questo è il senso, credo. Olive: raccolto mai così scarso. C'è appena appena un pò di olio per casa. Infine la classica cena/degustazione di fine vendemmia. Stappate molte bottiglie, cito solo il Barolo "Brumate" 1999 di Roberto Voerzio e il Gewurztraminer Vendemmia tardiva 1999 di Trimbach. Buono il primo, modernista, concentrato, ben pieno di frutto. Ci ha ricordato un bel vestito di marca; considerando anche il prezzo è mancata l'emozione che regala il Nebbiolo "di sartoria". Quello vero. Quello di una volta. Grandissimo il secondo. Con la sua dolcezza non banale, con la sua vivace struttura acida e minerale, con la sua incredibile freschezza e pulizia olfattiva. Per la serie: vino aromatico dalla straordinaria finezza.
Etichette:
degustazioni,
letture,
libri,
musica,
vini
sabato 3 novembre 2007
Lungo il Grande Fiume - Parte seconda
Ecco la seconda parte del reportage sulla Cote du Rhone 2006, in attesa di partire a fine novembre con destinazione Jura e Chablis. Le degustazioni sono state effettuate dal sottoscritto in compagnia di Alessandro Fenino, Andrea Bianchin, Fabrizio D’Auria. Questa seconda parte è incentrata sulla Maison Chapoutier a Tain l’Hermitage.
Alle ore 10.00 entriamo nei locali della Maison M. Chapoutier, uno dei mostri sacri della viticoltura della Cotes du Rhone. Alcuni di noi ancora ricordano una memorabile degustazione di qualche anno fa, dunque le aspettative sono molto elevate. Abbiamo fissato un appuntamento dall’Italia per cercare di capire a pieno i segreti di questo colosso della agricoltura biodinamica.
Il sommelier Sebastien Dreville, uno dei responsabili dell’accoglienza, ci guida dapprima nei leggendari vigneti della collina dell’Hermitage. Inizia a parlare delle ere geologiche che l’hanno creata e della fondamentale divisione in due grandi parti, divise da una frattura geologica. A ovest predomina il granito, ultimo bastione del Massiccio Centrale, in molte delle sue differenti articolazioni. A Est è il calcare proveniente dalle Alpi a farla da padrone. I vigneti sono impressionanti, per la pendenza, le densità di impianto, la scarsità di sostanza organica. In certe parti le radici affondano dentro una vera e propria “sabbia di granito”.
“Il terroir è la combinazione del suolo, del clima - che segna il millesimo - e della conoscenza che deriva dalle tradizioni. Senza l’uomo non c’è il terroir. L’uomo fa il terroir. O lo distrugge”. In questa frase di Michel Chapoutier, riportata su ogni pubblicazione della maison, sta lo stile della azienda. In una sorta di umanesimo che vede l’agricoltura come un fatto culturale, dove è fondamentale l’interpretazione umana del dato naturale, risiede la sua caratteristica più profonda. Per cui la biodinamica diviene un mezzo per produrre grandi vini di territorio, e non il fine ultimo su cui basare tutta la propria azione. Così accade che non in tutte le vigne dell’azienda si faccia biodinamica. E che in cantina non si disdegni l’uso di lieviti selezionati, se l’uso dei lieviti indigeni per qualche ragione (annata, stato delle uve, tipo di vigneto) risultasse distorcere l’espressione del terroir. Stessa cosa per l’uso della solforosa, evidente anche in degustazione, specie sui bianchi, e legato al mantenimento di una incredibile longevità dei vini della azienda.
Sono considerazioni che fanno storcere il naso ai puristi dei vini naturali/biodinamici ma che nel contesto di una azienda che produce nel complesso milioni di bottiglie meritano, a nostro avviso, una certa considerazione. E’ un approccio interessante soprattutto in confronto a una realtà italiana sempre più dominata da una netta contrapposizione fra grandi aziende dove regna la chimica più sfrenata e piccoli viticoltori in cui l’idea forte di vino naturale può condurre a volte ad una eguale standardizzazione provocata dalle estreme ossidazioni, da macerazioni eccessive, da forti riduzioni. Con relativa perdita delle caratteristiche del terroir.
I vigneti della maison vengono tutti separati in parcelle a seconda del tipo di suolo/esposizione e le uve ottenute vengono vinificate separatamente. I grandi vini sono ottenuti da parcelle di vigneto (alcune dei quali con viti pre-fillossera) sulle quali non si opera alcun taglio. In generale i bianchi vengono da suoli più calcarei, e tale regola è stata riscontrata anche per altri produttori e in altre zone della denominazione Cotes du Rhone.
La visita alla cantina (una delle quattro della maison, la più a nord e la più piccola) conferma l’idea di una impostazione tradizionalista (uso di grandi tini di legno aperti per la macerazione dei rossi) senza alcuna predominio della tecnologia, ma di una grandissima attenzione ai particolari e alla tecnica enologica. In generale, i vini rossi compiono una breve macerazione pellicolare prima dell’avvio della fermentazione alcolica tumultuosa, con una diraspatura solo parziale delle uve a seconda del grado di maturazione dei raspi (entrambe queste caratteristiche vengono confermate anche in altre realtà). Nei bianchi viene privilegiata la pressatura soffice di uve intere senza alcuna macerazione.
La degustazione dei vini aziendali viene suddivisa in due giornate. Il primo giorno ci vengono sottoposti alcuni dei più importanti vini della azienda. Il secondo giorno assaggiamo i vini più semplici. E’ possibile affermare che si tratta di prodotti dallo stile inconfondibile. Dove, accanto alla incredibile pulizia e perfezione tecnica, è possibile ritrovare l’espressione distinta dei vitigni, dei suoli e delle stagioni in un continuo susseguirsi di complessità e diversità di caratteri. Questo ci ha stupito in particolar modo nei prodotti più accessibili (sia in fatto di gusto che di portafoglio) dove è stato davvero possibile elevare in modo emblematico a pietra di paragone, la sirah del Saint Joseph Deschants 2005, la grenache del Rasteau 2004, il viogner del Saint Peray Les Tanneurs 2005. Oppure il Crozes Hermitage Petite Buche blanc 2005 nella sua inconfondibile sapidità calcarea e il Tavel Beaurevoir rosé 2005 con un naso finissimo di mora e fragola.
Ancora, tale azienda pare confermarsi emblema della zona per il generale minore impatto destato in noi dai vini bianchi. Cosa strana in Francia, ma che contraddistingue una regione in cui Viogner, Marsanne e Roussanne, accanto a sensazioni olfattive sempre fini ed eleganti, tendono però a mancare sempre di quella vena acida che conduce al minerale.
INVITARE – CONDRIEU 2005
100% Viogner.
Al naso subito pulitissimo e fresco, si distingue per una nota spiccata di pera. Poi di frutta secca e albicocca con un ritorno balsamico molto intrigante. L’attacco in bocca è molto pulito, sapido con una discreta acidità e la totale assenza di note vegetali o amare. Il vino è secco, dritto, si apre solo alla fine su note agrumate. Manca, forse, di una mineralità spinta al palato, compensata però da una materia perfettamente integra.
CHANTE ALOUETTE - ERMITAGE 2004
100% Marsanne.
E’ un vino più morbido del precedente. Emerge una nota di solforosa appena accennata a coprire sentori di miele e pasticceria secca. In bocca il vino è morbido ma lunghissimo. Il frutto (fico e albicocca accanto a note mielate) è ancora un po’ coperto dal legno e da sentori sulfurei. E’ un vino che ha una vita lunghissima davanti e che mostra solo parte della sua potenzialità.
DE L’OREE – ERMITAGE 2001
100% Marsanne.
Vino proveniente da vigne che hanno fra gli 80 ed i 100 anni con una resa per ettaro di 15 hl. Al naso si presenta immediatamente con una piacevole nota sulfurea di terra, quasi tartufata. Poi si apre su note di pasticceria secca, su sentori affumicati, di miele di acacia che evolve verso il caramello. In bocca è concentrato, con una persistenza infinita. Vi è una morbidezza forse eccessiva, condotta anche da note di tostatura di legno. Ma poi i continui ritorni di agrume dolce, di albicocca secca e di miele tendono a dominare sul rovere, sebbene l’incredibile lunghezza non sembri essere supportata da una struttura acida/sapida adeguata.
LES BECASSES – COTE ROTIE 2004
100% Sirah.
Il vino si presenta di un rosso rubino acceso, fiammante. Al naso è dapprima un po’ chiuso. Quando si apre lo fa su sentori animali, poi di pepe e di ciliegia. Quando si apre completamente prendono il sopravvento sentori elegantissimi di ribes e uva spina. E’ un vino dalla straordinaria finezza che in bocca appare concentrato ma setoso, i cui tannini - pur ancora giovanissimi - sono già dolci e dove l’amaro è completamente assente. La chiusura in bocca è secca e senza alcun cedimento. Al naso prorompono note di pepe verde, di origano e di chiodo di garofano, quasi balsamiche, che lasciano poi il palato fresco e pulito. E ‘un vino con almeno dieci anni di vita davanti.
LA SIZERANNE – ERMITAGE 2004
100% Sirah.
E’ uno dei vini simbolo dell’azienda. Un Hermitage che proviene da parcelle poste nella parte bassa della collina e che vede una dominanza di sedimenti limosi e argillosi alluvionali del Rodano. In alcune parcelle vi è predominanza di granito, in altre di calcare; un terroir meno estremo rispetto alle altre parcelle in Hermitage e che, quindi, necessita di un invecchiamento inferiore per esprimersi.
Al naso emerge subito in modo più netto rispetto al vino precedente. Viola, petali di rosa appassita, prugna lasciano presagire un vino che si presenta già maturo. In bocca è pieno, concentrato. I tannini sono impetuosi ma assolutamente morbidi. Una nota sapida conduce a un finale un po’ amaro, forse sulfureo. Nel ritorno al naso l’amarena lascia il posto ai tipici sentori speziati della sirah dove spiccano il curry ed il pepe nero.
LA MORDOREE – COTE ROTIE 2000
100% Sirah.
Il colore è di un rosso rubino scuro. All’olfatto è subito pulitissimo. I ripidi terrazzamenti della Cote Rotie offrono sentori intriganti: inchiostro, sangue, viola. Poi è la sirah a regalare note finissime di pepe e zenzero assieme a sentori di ginepro, di cannella, di liquirizia. Poi dopo qualche momento evolve ancora verso sentori di pasta di olive, di cuoio e di polvere di cacao. In bocca ha tannini memorabili, nel pieno della loro potenza ma già vellutati. E’ un vino terroso, caldo, ma di una finezza assoluta. Verticale nonostante la struttura tannica e l’alcool, non concede alcuno spazio ad una facile morbidezza ma è anzi un inno alla complessità. Un vino che ha davanti a sé quindici anni di gloria.
LE MEAL – ERMITAGE 2000
100% Sirah.
Hermitage proveniente da parcelle poste circa a metà della collina, dunque con terreni meno sciolti, ricchi di scheletro, roccia madre, cristalli di quarzo. Uno scontro di ere geologiche dominato dalla lotta fra il granito ed il calcare scavati dal Rodano.
Il colore del vino è un rosso cupo, quasi impenetrabile. E’ subito liquoroso, con sentori terziari di frutta sotto spirito. La speziatura è qui chiusa, quasi affumicata. Il naso è complesso ma ancora intimo, introverso. Elegante. Lasciato nel bicchiere esprime note finissime di cioccolato fondente e tabacco, di pepe e di mirtillo. In bocca è pieno, potente e caldo. La maestosa concentrazione è comunque fine, non stanca, invita anzi alla beva in virtù di una mineralità sotterranea che rende il vino armonico. Un grande vino che è solo all’inizio di una lunga vita.
Alle ore 10.00 entriamo nei locali della Maison M. Chapoutier, uno dei mostri sacri della viticoltura della Cotes du Rhone. Alcuni di noi ancora ricordano una memorabile degustazione di qualche anno fa, dunque le aspettative sono molto elevate. Abbiamo fissato un appuntamento dall’Italia per cercare di capire a pieno i segreti di questo colosso della agricoltura biodinamica.
Il sommelier Sebastien Dreville, uno dei responsabili dell’accoglienza, ci guida dapprima nei leggendari vigneti della collina dell’Hermitage. Inizia a parlare delle ere geologiche che l’hanno creata e della fondamentale divisione in due grandi parti, divise da una frattura geologica. A ovest predomina il granito, ultimo bastione del Massiccio Centrale, in molte delle sue differenti articolazioni. A Est è il calcare proveniente dalle Alpi a farla da padrone. I vigneti sono impressionanti, per la pendenza, le densità di impianto, la scarsità di sostanza organica. In certe parti le radici affondano dentro una vera e propria “sabbia di granito”.
“Il terroir è la combinazione del suolo, del clima - che segna il millesimo - e della conoscenza che deriva dalle tradizioni. Senza l’uomo non c’è il terroir. L’uomo fa il terroir. O lo distrugge”. In questa frase di Michel Chapoutier, riportata su ogni pubblicazione della maison, sta lo stile della azienda. In una sorta di umanesimo che vede l’agricoltura come un fatto culturale, dove è fondamentale l’interpretazione umana del dato naturale, risiede la sua caratteristica più profonda. Per cui la biodinamica diviene un mezzo per produrre grandi vini di territorio, e non il fine ultimo su cui basare tutta la propria azione. Così accade che non in tutte le vigne dell’azienda si faccia biodinamica. E che in cantina non si disdegni l’uso di lieviti selezionati, se l’uso dei lieviti indigeni per qualche ragione (annata, stato delle uve, tipo di vigneto) risultasse distorcere l’espressione del terroir. Stessa cosa per l’uso della solforosa, evidente anche in degustazione, specie sui bianchi, e legato al mantenimento di una incredibile longevità dei vini della azienda.
Sono considerazioni che fanno storcere il naso ai puristi dei vini naturali/biodinamici ma che nel contesto di una azienda che produce nel complesso milioni di bottiglie meritano, a nostro avviso, una certa considerazione. E’ un approccio interessante soprattutto in confronto a una realtà italiana sempre più dominata da una netta contrapposizione fra grandi aziende dove regna la chimica più sfrenata e piccoli viticoltori in cui l’idea forte di vino naturale può condurre a volte ad una eguale standardizzazione provocata dalle estreme ossidazioni, da macerazioni eccessive, da forti riduzioni. Con relativa perdita delle caratteristiche del terroir.
I vigneti della maison vengono tutti separati in parcelle a seconda del tipo di suolo/esposizione e le uve ottenute vengono vinificate separatamente. I grandi vini sono ottenuti da parcelle di vigneto (alcune dei quali con viti pre-fillossera) sulle quali non si opera alcun taglio. In generale i bianchi vengono da suoli più calcarei, e tale regola è stata riscontrata anche per altri produttori e in altre zone della denominazione Cotes du Rhone.
La visita alla cantina (una delle quattro della maison, la più a nord e la più piccola) conferma l’idea di una impostazione tradizionalista (uso di grandi tini di legno aperti per la macerazione dei rossi) senza alcuna predominio della tecnologia, ma di una grandissima attenzione ai particolari e alla tecnica enologica. In generale, i vini rossi compiono una breve macerazione pellicolare prima dell’avvio della fermentazione alcolica tumultuosa, con una diraspatura solo parziale delle uve a seconda del grado di maturazione dei raspi (entrambe queste caratteristiche vengono confermate anche in altre realtà). Nei bianchi viene privilegiata la pressatura soffice di uve intere senza alcuna macerazione.
La degustazione dei vini aziendali viene suddivisa in due giornate. Il primo giorno ci vengono sottoposti alcuni dei più importanti vini della azienda. Il secondo giorno assaggiamo i vini più semplici. E’ possibile affermare che si tratta di prodotti dallo stile inconfondibile. Dove, accanto alla incredibile pulizia e perfezione tecnica, è possibile ritrovare l’espressione distinta dei vitigni, dei suoli e delle stagioni in un continuo susseguirsi di complessità e diversità di caratteri. Questo ci ha stupito in particolar modo nei prodotti più accessibili (sia in fatto di gusto che di portafoglio) dove è stato davvero possibile elevare in modo emblematico a pietra di paragone, la sirah del Saint Joseph Deschants 2005, la grenache del Rasteau 2004, il viogner del Saint Peray Les Tanneurs 2005. Oppure il Crozes Hermitage Petite Buche blanc 2005 nella sua inconfondibile sapidità calcarea e il Tavel Beaurevoir rosé 2005 con un naso finissimo di mora e fragola.
Ancora, tale azienda pare confermarsi emblema della zona per il generale minore impatto destato in noi dai vini bianchi. Cosa strana in Francia, ma che contraddistingue una regione in cui Viogner, Marsanne e Roussanne, accanto a sensazioni olfattive sempre fini ed eleganti, tendono però a mancare sempre di quella vena acida che conduce al minerale.
INVITARE – CONDRIEU 2005
100% Viogner.
Al naso subito pulitissimo e fresco, si distingue per una nota spiccata di pera. Poi di frutta secca e albicocca con un ritorno balsamico molto intrigante. L’attacco in bocca è molto pulito, sapido con una discreta acidità e la totale assenza di note vegetali o amare. Il vino è secco, dritto, si apre solo alla fine su note agrumate. Manca, forse, di una mineralità spinta al palato, compensata però da una materia perfettamente integra.
CHANTE ALOUETTE - ERMITAGE 2004
100% Marsanne.
E’ un vino più morbido del precedente. Emerge una nota di solforosa appena accennata a coprire sentori di miele e pasticceria secca. In bocca il vino è morbido ma lunghissimo. Il frutto (fico e albicocca accanto a note mielate) è ancora un po’ coperto dal legno e da sentori sulfurei. E’ un vino che ha una vita lunghissima davanti e che mostra solo parte della sua potenzialità.
DE L’OREE – ERMITAGE 2001
100% Marsanne.
Vino proveniente da vigne che hanno fra gli 80 ed i 100 anni con una resa per ettaro di 15 hl. Al naso si presenta immediatamente con una piacevole nota sulfurea di terra, quasi tartufata. Poi si apre su note di pasticceria secca, su sentori affumicati, di miele di acacia che evolve verso il caramello. In bocca è concentrato, con una persistenza infinita. Vi è una morbidezza forse eccessiva, condotta anche da note di tostatura di legno. Ma poi i continui ritorni di agrume dolce, di albicocca secca e di miele tendono a dominare sul rovere, sebbene l’incredibile lunghezza non sembri essere supportata da una struttura acida/sapida adeguata.
LES BECASSES – COTE ROTIE 2004
100% Sirah.
Il vino si presenta di un rosso rubino acceso, fiammante. Al naso è dapprima un po’ chiuso. Quando si apre lo fa su sentori animali, poi di pepe e di ciliegia. Quando si apre completamente prendono il sopravvento sentori elegantissimi di ribes e uva spina. E’ un vino dalla straordinaria finezza che in bocca appare concentrato ma setoso, i cui tannini - pur ancora giovanissimi - sono già dolci e dove l’amaro è completamente assente. La chiusura in bocca è secca e senza alcun cedimento. Al naso prorompono note di pepe verde, di origano e di chiodo di garofano, quasi balsamiche, che lasciano poi il palato fresco e pulito. E ‘un vino con almeno dieci anni di vita davanti.
LA SIZERANNE – ERMITAGE 2004
100% Sirah.
E’ uno dei vini simbolo dell’azienda. Un Hermitage che proviene da parcelle poste nella parte bassa della collina e che vede una dominanza di sedimenti limosi e argillosi alluvionali del Rodano. In alcune parcelle vi è predominanza di granito, in altre di calcare; un terroir meno estremo rispetto alle altre parcelle in Hermitage e che, quindi, necessita di un invecchiamento inferiore per esprimersi.
Al naso emerge subito in modo più netto rispetto al vino precedente. Viola, petali di rosa appassita, prugna lasciano presagire un vino che si presenta già maturo. In bocca è pieno, concentrato. I tannini sono impetuosi ma assolutamente morbidi. Una nota sapida conduce a un finale un po’ amaro, forse sulfureo. Nel ritorno al naso l’amarena lascia il posto ai tipici sentori speziati della sirah dove spiccano il curry ed il pepe nero.
LA MORDOREE – COTE ROTIE 2000
100% Sirah.
Il colore è di un rosso rubino scuro. All’olfatto è subito pulitissimo. I ripidi terrazzamenti della Cote Rotie offrono sentori intriganti: inchiostro, sangue, viola. Poi è la sirah a regalare note finissime di pepe e zenzero assieme a sentori di ginepro, di cannella, di liquirizia. Poi dopo qualche momento evolve ancora verso sentori di pasta di olive, di cuoio e di polvere di cacao. In bocca ha tannini memorabili, nel pieno della loro potenza ma già vellutati. E’ un vino terroso, caldo, ma di una finezza assoluta. Verticale nonostante la struttura tannica e l’alcool, non concede alcuno spazio ad una facile morbidezza ma è anzi un inno alla complessità. Un vino che ha davanti a sé quindici anni di gloria.
LE MEAL – ERMITAGE 2000
100% Sirah.
Hermitage proveniente da parcelle poste circa a metà della collina, dunque con terreni meno sciolti, ricchi di scheletro, roccia madre, cristalli di quarzo. Uno scontro di ere geologiche dominato dalla lotta fra il granito ed il calcare scavati dal Rodano.
Il colore del vino è un rosso cupo, quasi impenetrabile. E’ subito liquoroso, con sentori terziari di frutta sotto spirito. La speziatura è qui chiusa, quasi affumicata. Il naso è complesso ma ancora intimo, introverso. Elegante. Lasciato nel bicchiere esprime note finissime di cioccolato fondente e tabacco, di pepe e di mirtillo. In bocca è pieno, potente e caldo. La maestosa concentrazione è comunque fine, non stanca, invita anzi alla beva in virtù di una mineralità sotterranea che rende il vino armonico. Un grande vino che è solo all’inizio di una lunga vita.
Etichette:
biodinamica,
degustazioni,
viaggi,
vini
martedì 30 ottobre 2007
Vini di vignaioli
Domenica e Lunedì, 4 e 5 novembre, sarò nuovamente in quel di Fornovo Taro per la fiera "Vini di vignaioli/Vins de vignerons". E' una bella manifestazione, ideata ed organizzata da Marie Christine Cogez oramai da 5 anni. Una fiera viva, piena di bravi vignaioli e di vini veri, frequentata da appassionati e professionisti. Una occasione divenuta importante per capire lo stato dell'arte per quanto concerne i vini "artigianali", direi anche contadini, vini che - senza cadere nella retorica dei disciplinari ad ogni costo - vengono fatti nel modo più naturale possibile.
Posso dire di esserci stato fin dall'inizio, sebbene non abbia partecipato alla prima edizione, e fin da subito, quando la fiera era solo una piccola esposizione di vini in uno stanzone nemmeno troppo bello, avevo colto la ricchezza di relazioni e di emozioni che si era venuta a creare fra vignaioli italiani e francesi che condividevano lo stesso approccio al vino.
Non posso fare altro, quindi, che invitare il maggior numero di appassionati a visitarci per conoscere una fiera certamente di grande valore. Per chi desiderasse maggiori informazioni è possibile visitare il sito: http://www.vinidivignaioli.com/
giovedì 18 ottobre 2007
Vendemmia 2007 - Parte terza
Le fermentazioni stanno rallentando. E' possibile cominciare ad avere un'idea più precisa di quali vini posso aspettarmi dalla vendemmia 2007. Innanzitutto la produzione. Mai così scarsa da quando produco vino. Fortunatamente sono riuscito a raccogliere un pò di uva da un nuovo vigneto in affitto che era stato abbandonato dal proprietario. E ho un piccolo conferitore certificato bio dove ho potuto gestire personalmente la vendemmia. Altrimenti erano cazzi.
Ho usato pressioni davvero bassissime per avere un mosto fiore dal colore accettabile. E' l'unica via per chi fa vini naturali, in annate come queste in cui la buccia spesse volte era marrone per le scottaure, per ottenere mosti fiore decenti, non marroni e non amari. Il che ha provocato, oltre alla bassa resa in vigna, una bassa resa in mosto. Il 2008 non potrà che vedere, quindi, un aumento dei prezzi.
A inizio fermentazione c'era da mettersi le mani nei capelli, perché i mosti erano assolutamente neutri, privi di carica aromatica, scarichi. Poi man mano si sono dischiusi i primi profumi. Nulla di trascendentale pensando agli agrumi, all'anice ed alla menta fresca dei mosti 2006. Però sono usciti dei sentori interessanti di arancia candita, di mandarino, di albicocca. Rispetto al balsamico dell'anno scorso predomina una sensazione di frutta matura e secca. Attendo che l'evoluzione porti con sé naturalmente quella vena minerale classica dei miei vigneti, in modo da ottenere vini un pò più dritti e scattanti. Le acidità sono ancora buone, grazie al grande anticipo nella vendemmia. Soprattutto, mi soddisfano i PH, più bassi anche dello scorso anno e del 2005, mi ricordano quelli del 2004. Tutto questo per quanto riguarda i bianchi. Per quanto concerne il rosso credo che, vista la scarsità di produzione, il Nocenzio 2007 non vedrà proprio la luce. Il Montepulciano ha reso la metà dello scorso anno, come del resto il Sangiovese. E' un peccato perché il poco vino prodotto è di una potenza e di una eleganza incredibili.
Sono molto soddisfatto sinora delle operazioni di vinificazione che, per la prima volta, sono avvenute - per tutti e tre i vini - col solo uso di qualche grammo di solforosa, cioé senza lieviti selezionati, prodotti azotati, enzimi, chiarificanti, tannini enologici. E' arrivato a compimento, quindi, quel progetto di vinificazione naturale iniziato nel 2004 e progressivamente sviluppatosi passo dopo passo, eliminazione dopo eliminazione. Con l'obiettivo di restituire nel bicchiere esclusivamente il territorio e la stagione. Certamente resto dell'opinione che preferisco fare vini buoni che siano i più naturali possibili (ciòé non rifiuto a-priori alcuni limitatissimi interventi, se necessario) piuttosto che fare vini naturali e basta. Perché mi è capitato di assaggiarne alcuni al limite della potabilità. La qual cosa, se non altro per una idea di rispetto per il consumatore, mi lascia un pò interdetto.
In ogni caso mi pare una annata di medio livello, ma da valutare attentamente con l'evoluzione nel tempo.
Etichette:
vendemmia,
verdicchio,
vino naturale
venerdì 12 ottobre 2007
Magic
Fra i tanti difetti che ho, uno dei peggiori è che sono uno sfegatato springsteeniano. Se vi chiedete perché questo sarebbe un difetto vi consiglio la lettura di "Accecati dalla luce" edito da Gianluca Morozzi per Fernandel. Oppure chiedete a mia madre.
Non poteva mancare, quindi, una mia opinione sul suo ultimo lavoro, Magic. Innanzitutto confesso che, come promesso al mio amico Daniele questa estate, per ascoltare il disco ho aspettato l'uscita del vinile. Da qualche mese sono tornato, infatti, ad acquistare quasi solo vinili. Non sto qui a spiegare perché, magari ne scriverò prossimamente.
Non poteva mancare, quindi, una mia opinione sul suo ultimo lavoro, Magic. Innanzitutto confesso che, come promesso al mio amico Daniele questa estate, per ascoltare il disco ho aspettato l'uscita del vinile. Da qualche mese sono tornato, infatti, ad acquistare quasi solo vinili. Non sto qui a spiegare perché, magari ne scriverò prossimamente.
A scanso di equivoci dico subito che aspettavo questo disco da più di vent'anni. Questo disco nel senso di un disco come questo. Un disco che Bruce non è stato in grado di, o non ha voluto, pubblicare per più di due decenni. E lo dico ben sapendo che la sua voce non è più quella di vent'anni fa, che Brendan 'O Brien non è forse il produttore giusto per la E street Band, che la copertina non è granché, che certi suoni sono bruttini... Però di fronte ad un pugno di canzoni bellissime e suonate in modo splendido alcune critiche circolate in rete mi hanno davvero stupito. Perché questo è un grande disco, cosa che non erano né The Rising né Devil and Dust. Ma soprattutto questo è un disco di grandi canzoni rock, pure, semplici, dirette, mainstream, springsteeniane. Ed è perlomeno da Born in the USA che non sentivamo nulla di simile. Ho letto critiche che parlano di un disco "di mestiere", di "mancanza di ispirazione", di un disco pensato solo per il live. Ognuno certamente avrà i suoi gusti e le sue preferenze. Quello che a me sembra, è che questo sia un disco che cresce incredibilmente ascolto dopo ascolto. Che ci sia più buona melodia in una singola canzone di questo disco che in tutto The Rising. Che sia un pò come il maiale nelle campagne di una volta, non si butta vi niente; non c'è una sola canzone debole o scarsa. La qualità media della scrittura (melodie e testi) è alta. Ed in più ci sono canzoni davvero bellissime: Long walk home sarà un classico, Radio Nowhere è il più bel singolo di Springsteen dai tempi di Hungry Heart, Girls in their summer clothes è una melodia straordinaria, degna del miglior Brian Wilson, I'll work for your love è puro Springsteen style rock'n'roll, Gypsy biker sembra un pezzo di Lucky Town suonato dalla E street (il che è quasi un sogno), Last to die è una botta come lo era Roulette ai tempi belli. La band è di nuovo la band, con la sua potenza e i suoi ricami, e non è quell'insieme di buoni turnisti che pareva su The Rising. Si sente di nuovo Danny, vivaddio, con i suoi discreti tweeeee tweeee, si sente un muro di chitarre e c'è materia finalmente per il grande Max, grandissimo davvero per tutto il disco. Mi spiace per i tanti falsi web giornalisti e per i neo-springsteeniani sboroni ma a riascoltare The Rising dopo questo disco si percepisce quanto loffio fosse.
Vengo ai testi. Certo non siamo di fronte a Jungleland o Darkness. Ma se pensiamo che ci siamo dovuti sorbire Secret Garden e Sad eyes, ragazzi non scherziamo! Le liriche sono molto buone e raccontano personaggi vaganti alla ricerca di qualcosa, spiriti fraintesi fra ciò che è vero e ciò che non lo è, con una cifra generale che è quella dello smarrimento, della paura, di nuove fughe, di movimento senza quiete, lontano da un mondo dominato da relazioni sociali disgreganti, alienanti, sfasciate, da città che sono in rovina o in fiamme. E sullo sfondo, costantemente, fra metafore ed accuse evidenti, quella guerra che sta ricacciando l'america indietro nel tempo. Alla faccia di chi ci ha detto, casa discografica in primis, che questo non era un disco "politico": è il disco più politico di Springsteen da Born in the USA, se si considera Tom Joad un disco di denuncia sociale. Qui la magia non è quella di Born to run, qui si intendono i giochi di prestigio di un governo che fa credere quello che non è, che falsa il gioco, che cambia il significato stesso delle parole libertà, democrazia, pace. "The freedom that you sought's driftin' like a ghost amongst the trees, this is what will be" oppure "You said heroes are needed, so heroes get made. Somebody made a bet, somebody paid". E poi ci sono le bare del cimitero dove verrà seppellito il motociclista gitano: "You slipped into your darkness, now all that remains is my love for you brother lying still and unchanged to them that threw you away... Now I'm counting white lines, countin' white lines and getting stoned my gypsy biker's coming home". E ancora gli errori di Last to die: "Who'll last to die for a mistake, whosw blodd will spill, whose heart will break...". Persino in un pezzo spensierato come Livin' in a future, nel contesto di una crisi di coppia si fa riferimento alla delusione per le elezioni con una emblematica nave chiamata "Liberty" che se ne naviga lontano verso un orizzonte rosso sangue.
Ma in questo sfacelo ecco apparire una strada, un sentiero, quello che Bruce indicava ai tempi del Vote for Change, quel concetto di comunità locale che può rendere l'individuo meno solo, che costituisce a sua volta comunità più grandi e complesse. E' una lunga strada verso casa, a Long walk home, questo muoversi senza una meta apparente, fuggendo l'oscurità. Una casa che non sono solo quattro mura dove rinchiudere le proprie incertezze, ma una casa che è invece una comunità che ti abbraccia, dove non sei affollato ma nemmeno solo, dove c'è una bandiera, che in fondo è quella stessa bandiera che stava sulla copertina di Born in the USA. "You know that flag flying over the courthouse, means certain things are set in stone. Who we are, what we'll do and what we won't". Springsteen riparte dai padri fondatori, come sempre. Da quella Costituzione calpestata dall'attuale amministrazione. E dà una direzione ai suoi nuovi spiriti vaganti. "Everybody has a neighbor, everybody has a friend, everybody has a reason to begin again". Questo è Bruce. Questo è il rock con cui sono cresciuto e che mi fa battere il cuore.
Tutto bene? Ovviamente no. La voce certamente non è più quella di un tempo, appesantita anche da una produzione forse eccessiva. I suoni non sono indimenticabili e certi arrangiamenti sono ridondanti. Forse una produzione alla Steve Van Zandt vecchi tempi avrebbe arricchito ulteriormente i pezzi facendo di Magic il capolavoro della maturità di Springsteen. Invece ci tocca ancora una volta avere dei rimpianti.
Ma quando il pianoforte annuncia l'inizio di Terry's song non posso che pensare a quando urlavamo "Terry!" da sotto il palco a Genova o a Nizza, con Massi e il Lello, e ascoltare in silenzio una ballata meravigliosa, sicuro che erano vent'anni che aspettavo un disco come questo. Semplicemente un disco di Bruce e della E street band.
mercoledì 10 ottobre 2007
Domanda banale
La domanda più banale cui mi tocca di rispondere da sette anni a questa parte, e cioé da quando Valeria ed io ci siamo trasferiti a Cupra, è se mi manca Milano. Poiché ottobre era per me il mese più bello a Milano, ci provo a sentire una specie di nostalgia per quella che tuttora considero la "mia città". Mi ci metto di impegno.
E allora posso dire che mi mancano le zingarate a qualche festa fighetta insieme agli amici di sempre, le birre al Nidaba con Massi, magari ascoltando Joe Valeriano, mi manca pisciare sotto il ponte della Darsena alle tre del mattino, sedermi sul letto di camera mia a improvvisare per ore schifosi pedaloni psichedelici con mio fratello, mi manca il sabato pomeriggio al Jungle col Tenca e magari fedrone, l'alba di certe domeniche insieme a Ivano e Claudio quando si andava ad arrampicare, mi mancano le gite a Piacenza a mangiare lo gnocco fritto col Bianco e Izio e JointVanni, che se poi ci facevano il palloncino altro che patente a punti, mi mancano il rubare vestiti alla Rinascente con Paola o il parlare di politica con Riquiz nel bar dietro il Manzoni, le peregrinazioni notturne al Leonkavallo, quello vecchio, mi mancano le corse alla cavallina in Piazza Sraffa col Mala, Daniele, Pedro e Fede, scavalcare la vecchia recinzione del Meazza per vedere concerti o partite del Milan, le prime degustazioni di vino nei primi wine bar della prima rivoluzione enoica milanese, e potrei continuare per ore con un noiosissimo elenco. E alla fine dell'elenco scoprirei che non è Milano a mancarmi, ma certe persone e forse anche un pò i miei vent'anni.
Dunque si fa molto più presto, per rispondere alla domanda banale, a dire che no, Milano non mi manca per niente. E poi perché dovrebbe?
venerdì 5 ottobre 2007
Lungo il Grande Fiume - Parte prima
In attesa della prossima consueta visita in terra francese in novembre, con la solita banda di degustatori-beoni-gaudenti-fintiesperti-enologi-da-strapazzo, posto il racconto dell'uscita dello scorso anno lungo il Rodano.
Raggiungiamo il gite rural da noi prenotato che sono le tre e mezzo di notte. L’aria è calda, considerando che siamo prossimi all’inverno. Svegliamo la proprietaria, che ci mostra le stanze e ci ricorda l’ora della colazione. E’ gentilissima, nonostante il nostro imperdonabile ritardo. L’accoglienza gentile e professionale di tutti gli operatori, nelle chambres d’hotes come nelle cantine e nei ristoranti, sarà una caratteristica piacevole e apprezzata durante tutto il nostro soggiorno.
Il Rodano ci accoglie con il suo immenso alveo, solcato da raffiche di vento che ne increspano la corrente rendendolo ancora più impressionante. La collina dell’Hermitage vista dal ponte che collega Tournon a Tain è uno spettacolo imperdibile anche per chi non è un appassionato di vino. Gli enormi cartelloni “pubblicitari” delle cantine poste sui crus aziendali, più che infastidire lo sguardo, paiono quasi far parte del paesaggio con la loro veste vecchia e decadente.
La denominazione madre, AOC Cotes du Rhone, si estende su una zona molto ampia dal sud di Lione fino ad Avignone. Si tratta di una geografia molto complessa dal punto di vista geologico, climatico, agronomico, enologico. Tanto che i vini che ne risultano sono spesso completamente differenti. La qualità media di questa denominazione appare molto buona e i prezzi sono corretti, per non dire accessibili. Non si può dire che sia una AOC di “ricaduta”; semplicemente vengono orientati a questa denominazione i vini provenienti dai territori più fertili, meno complessi, e con rese un po’ più alte.
La Cote du Rhone settentrionale coi suoi famosi Crus è la patria della sirah. Un vitigno che proprio a questi luoghi deve la sua fama mondiale. Qui la vite, importata dai romani dopo la sottomissione delle fiere tribù galliche, ha trovato un habitat fantastico, dove il duro lavoro dei vignaioli per la coltivazione su pendenze spesso durissime e su suoli aridi, per il mantenimento dei terrazzamenti, per la costruzione e manutenzione dei muretti a secco, è stato ripagato dal raggiungimento di una combinazione fra vitigno, suolo e tradizione riscontrabile davvero in poche altre realtà viticole.
Da subito assaggiamo vini magnifici dove, in generale, risulta preponderante la ricerca della finezza sulla concentrazione. In cui, spesso, il terroir vince sul vitigno, regalando sempre eleganze, armonie e complessità.
Il poco tempo a disposizione ci fa compiere scelte spesso difficili nella selezione dei produttori; altre volte, come nella caso della rinomata Maison Guigal non ci è possibile essere accolti. Ma il quadro risulta comunque chiaro. Ed è il quadro raffigurante una situazione produttiva e commerciale per nulla in crisi, dove le scelte compiute da viticoltori e grandi maison è quella di produrre vini senza grandi compromessi con il mercato e con una fortissima identità. Quando accade che si voglia strizzare l’occhio ad un consumatore globale in cerca di vini “più facili”, ciò avviene su fasce di prezzo elevate, ma per vini in cui la sostanza è sempre davvero importante.
Ciò che ci colpisce subito, in particolare, sono la semplicità delle vinificazioni e la non eccessiva tecnologia presente nelle cantine. Qui appare davvero evidente come buoni contadini con grandi terroirs possano produrre vini importanti senza una chimica invadente o una tecnologia soffocante.
I rossi sono giocati tutti sulla finezza di una sirah che non risulta mai banale, grezza o stancante. La mineralità dei Cote Rotie si alterna al caldo frutto degli Hermitage, la grazia dei Saint Joseph alla potenza delicata dei Cornas. Sono i bianchi a fare più fatica. L’incredibile pulizia olfattiva lascia spesso il posto ad una generale mancanza di acidità che impedisce al palato di uscire rinfrescato. Sono bianchi caldi, morbidi, dominati da toni mielati. Diventano intriganti con l’evoluzione ma sempre senza entusiasmi clamorosi.
Fra la parte settentrionale e quella meridionale della Cotes du Rhone ci sono più di cento chilometri. In mezzo non vi è viticoltura. Questa cesura geografica si rivela tale anche per quanto concerne la tipologia di vino prodotta, e non poteva essere diversamente.
La Cotes du Rhone meridionale è dominata dalla Grenache, sebbene quasi mai usata in purezza. Dominano vini concentrati, potenti, dalla trama tannica fittissima. E’ una zona più eterogenea, fondamentalmente perché la valle del Rodano è in questa parte larga, si apre su una pianura che arriverà in breve fino al mare. Siamo sostanzialmente in Provenza, dunque anche le temperature si fanno molto più elevate.
Scegliamo di iniziare i nostri assaggi dalla zona dei Cotes du Rhone Villages, una zona in grande crescita e con notevoli potenzialità. In particolare i Cairanne e i Rasteau destano in noi un certo interesse, accanto ai più blasonati Gigondas e Vaqueyras.
Sono vini moderni, con concentrazioni importanti, a partire dal colore, frutto di vitigni come la mourvedre, dalla grande potenza tannica, e di una sirah più mascolina che al nord. I suoli vedono argille, sabbie e limo fondersi con residui alluvionali ricchi di pietre e scheletro di roccia madre, principalmente il calcare dominante tutta la Provenza.
Viaggiando sulla strada del vino ci accorgiamo che il territorio è stupendo, con colpi d’occhio maestosi su vigneti, ulivi e cipressi che arriva sino alla piana del Rodano da una parte e fino alle pendici del Mont Ventoux dall’altra. E’ una terra dove la calura estiva è davvero incredibile e costantemente battuta da venti importanti. Proprio il vento e una certa elettricità dell’aria sembrano confermare la tesi di un magnetismo strano proveniente dal Mont Ventoux, il Monte calvo, famoso per alcune mitiche tappe del Tour de France.
Lasciateci alle spalle le falde del Mont Ventoux arriviamo a Chateauneuf du pape. La più famosa delle denominazioni del sud ci accoglie con vigneti che paiono cave per la quantità di sassi e ciotoli presenti. Spesso non esiste proprio terra, se non negli strati inferiori. E allora più che di terra bisogna parlare di strati limosi completamente sciolti. Le basse colline altro non sono, infatti, se non i depositi alluvionali del Rodano che qui inizia la sua ultima corsa cominciando ad allargarsi in quel delta che pochi chilometri più a sud diventerà la Camargue. E’ una viticoltura che deve combattere contro il grande caldo della pianura provenzale circostante e che la pietra non fa altro che rimbalzare sulle viti. Unico aiuto è il Mistral, vento da nord secco e fresco, che asciuga l’umidità del grande fiume e tende a mitigare la canicola estiva. Il mix di queste condizioni regala vini sempre molto potenti ma che non mancano di una certa finezza.
La grande concentrazione tannica dei vitigni del sud viene affrontata cercando di vendemmiare seguendo la maturità fenolica, il che produce inevitabilmente gradazioni alcoliche impetuose. L’arte del taglio si eleva quindi a vera dominate enologica dovendo i produttori confrontarsi con 13 vitigni differenti ammessi, fra bianco e rosso, e differenti scelte vendemmiali.
Prima di un’ottima cena visitiamo le rovine della antica residenza papale, battute da un instancabile vento. Proprio alla presenza della corte papale deve la fama il vino di questi luoghi. E’ l’ennesimo esempio di come la grande Storia umana si svolga nel tempo seguendo strade affascinanti.
Quando ripartiamo per l’Italia c’è ancora lo strano caldo che ci ha accompagnato per tutta la nostra permanenza. Ci segue fino al tunnel del Frejus, insieme al magnetismo del Mont Ventoux e al ricordo della vista sul Rodano dalla cappella dell’Hermitage. Dopo, è tutta un’altra storia.
Per dormire:
CHANOS CURSON
Gite de France: LA FARELLA.
Les Champs Ratiers
Tel. +33 (0)4 75073544
http://www.lafarella.com/
COURTHEZON
Maison d’hotes ANNONCIADE
M.me PASSCHIER
1185 chemin St Dominique
Tel. +33 (0)4 90708722
http://annonciade.chez.tiscali.fr
Per mangiare:
TOURNON SUR RHONE
Restaurant et Hotel LA CHAUMIERE
Quai Farconnet
CHATEAUNEUF DU PAPE
Restaurant et Hotel LA MERE GERMAINE
3 Rue du cdt Lemaitre
Il Rodano ci accoglie con il suo immenso alveo, solcato da raffiche di vento che ne increspano la corrente rendendolo ancora più impressionante. La collina dell’Hermitage vista dal ponte che collega Tournon a Tain è uno spettacolo imperdibile anche per chi non è un appassionato di vino. Gli enormi cartelloni “pubblicitari” delle cantine poste sui crus aziendali, più che infastidire lo sguardo, paiono quasi far parte del paesaggio con la loro veste vecchia e decadente.
La denominazione madre, AOC Cotes du Rhone, si estende su una zona molto ampia dal sud di Lione fino ad Avignone. Si tratta di una geografia molto complessa dal punto di vista geologico, climatico, agronomico, enologico. Tanto che i vini che ne risultano sono spesso completamente differenti. La qualità media di questa denominazione appare molto buona e i prezzi sono corretti, per non dire accessibili. Non si può dire che sia una AOC di “ricaduta”; semplicemente vengono orientati a questa denominazione i vini provenienti dai territori più fertili, meno complessi, e con rese un po’ più alte.
La Cote du Rhone settentrionale coi suoi famosi Crus è la patria della sirah. Un vitigno che proprio a questi luoghi deve la sua fama mondiale. Qui la vite, importata dai romani dopo la sottomissione delle fiere tribù galliche, ha trovato un habitat fantastico, dove il duro lavoro dei vignaioli per la coltivazione su pendenze spesso durissime e su suoli aridi, per il mantenimento dei terrazzamenti, per la costruzione e manutenzione dei muretti a secco, è stato ripagato dal raggiungimento di una combinazione fra vitigno, suolo e tradizione riscontrabile davvero in poche altre realtà viticole.
Da subito assaggiamo vini magnifici dove, in generale, risulta preponderante la ricerca della finezza sulla concentrazione. In cui, spesso, il terroir vince sul vitigno, regalando sempre eleganze, armonie e complessità.
Il poco tempo a disposizione ci fa compiere scelte spesso difficili nella selezione dei produttori; altre volte, come nella caso della rinomata Maison Guigal non ci è possibile essere accolti. Ma il quadro risulta comunque chiaro. Ed è il quadro raffigurante una situazione produttiva e commerciale per nulla in crisi, dove le scelte compiute da viticoltori e grandi maison è quella di produrre vini senza grandi compromessi con il mercato e con una fortissima identità. Quando accade che si voglia strizzare l’occhio ad un consumatore globale in cerca di vini “più facili”, ciò avviene su fasce di prezzo elevate, ma per vini in cui la sostanza è sempre davvero importante.
Ciò che ci colpisce subito, in particolare, sono la semplicità delle vinificazioni e la non eccessiva tecnologia presente nelle cantine. Qui appare davvero evidente come buoni contadini con grandi terroirs possano produrre vini importanti senza una chimica invadente o una tecnologia soffocante.
I rossi sono giocati tutti sulla finezza di una sirah che non risulta mai banale, grezza o stancante. La mineralità dei Cote Rotie si alterna al caldo frutto degli Hermitage, la grazia dei Saint Joseph alla potenza delicata dei Cornas. Sono i bianchi a fare più fatica. L’incredibile pulizia olfattiva lascia spesso il posto ad una generale mancanza di acidità che impedisce al palato di uscire rinfrescato. Sono bianchi caldi, morbidi, dominati da toni mielati. Diventano intriganti con l’evoluzione ma sempre senza entusiasmi clamorosi.
Fra la parte settentrionale e quella meridionale della Cotes du Rhone ci sono più di cento chilometri. In mezzo non vi è viticoltura. Questa cesura geografica si rivela tale anche per quanto concerne la tipologia di vino prodotta, e non poteva essere diversamente.
La Cotes du Rhone meridionale è dominata dalla Grenache, sebbene quasi mai usata in purezza. Dominano vini concentrati, potenti, dalla trama tannica fittissima. E’ una zona più eterogenea, fondamentalmente perché la valle del Rodano è in questa parte larga, si apre su una pianura che arriverà in breve fino al mare. Siamo sostanzialmente in Provenza, dunque anche le temperature si fanno molto più elevate.
Scegliamo di iniziare i nostri assaggi dalla zona dei Cotes du Rhone Villages, una zona in grande crescita e con notevoli potenzialità. In particolare i Cairanne e i Rasteau destano in noi un certo interesse, accanto ai più blasonati Gigondas e Vaqueyras.
Sono vini moderni, con concentrazioni importanti, a partire dal colore, frutto di vitigni come la mourvedre, dalla grande potenza tannica, e di una sirah più mascolina che al nord. I suoli vedono argille, sabbie e limo fondersi con residui alluvionali ricchi di pietre e scheletro di roccia madre, principalmente il calcare dominante tutta la Provenza.
Viaggiando sulla strada del vino ci accorgiamo che il territorio è stupendo, con colpi d’occhio maestosi su vigneti, ulivi e cipressi che arriva sino alla piana del Rodano da una parte e fino alle pendici del Mont Ventoux dall’altra. E’ una terra dove la calura estiva è davvero incredibile e costantemente battuta da venti importanti. Proprio il vento e una certa elettricità dell’aria sembrano confermare la tesi di un magnetismo strano proveniente dal Mont Ventoux, il Monte calvo, famoso per alcune mitiche tappe del Tour de France.
Lasciateci alle spalle le falde del Mont Ventoux arriviamo a Chateauneuf du pape. La più famosa delle denominazioni del sud ci accoglie con vigneti che paiono cave per la quantità di sassi e ciotoli presenti. Spesso non esiste proprio terra, se non negli strati inferiori. E allora più che di terra bisogna parlare di strati limosi completamente sciolti. Le basse colline altro non sono, infatti, se non i depositi alluvionali del Rodano che qui inizia la sua ultima corsa cominciando ad allargarsi in quel delta che pochi chilometri più a sud diventerà la Camargue. E’ una viticoltura che deve combattere contro il grande caldo della pianura provenzale circostante e che la pietra non fa altro che rimbalzare sulle viti. Unico aiuto è il Mistral, vento da nord secco e fresco, che asciuga l’umidità del grande fiume e tende a mitigare la canicola estiva. Il mix di queste condizioni regala vini sempre molto potenti ma che non mancano di una certa finezza.
La grande concentrazione tannica dei vitigni del sud viene affrontata cercando di vendemmiare seguendo la maturità fenolica, il che produce inevitabilmente gradazioni alcoliche impetuose. L’arte del taglio si eleva quindi a vera dominate enologica dovendo i produttori confrontarsi con 13 vitigni differenti ammessi, fra bianco e rosso, e differenti scelte vendemmiali.
Prima di un’ottima cena visitiamo le rovine della antica residenza papale, battute da un instancabile vento. Proprio alla presenza della corte papale deve la fama il vino di questi luoghi. E’ l’ennesimo esempio di come la grande Storia umana si svolga nel tempo seguendo strade affascinanti.
Quando ripartiamo per l’Italia c’è ancora lo strano caldo che ci ha accompagnato per tutta la nostra permanenza. Ci segue fino al tunnel del Frejus, insieme al magnetismo del Mont Ventoux e al ricordo della vista sul Rodano dalla cappella dell’Hermitage. Dopo, è tutta un’altra storia.
Per dormire:
CHANOS CURSON
Gite de France: LA FARELLA.
Les Champs Ratiers
Tel. +33 (0)4 75073544
http://www.lafarella.com/
COURTHEZON
Maison d’hotes ANNONCIADE
M.me PASSCHIER
1185 chemin St Dominique
Tel. +33 (0)4 90708722
http://annonciade.chez.tiscali.fr
Per mangiare:
TOURNON SUR RHONE
Restaurant et Hotel LA CHAUMIERE
Quai Farconnet
CHATEAUNEUF DU PAPE
Restaurant et Hotel LA MERE GERMAINE
3 Rue du cdt Lemaitre
giovedì 27 settembre 2007
La riforma OCM vino
Mi è arrivata di recente una mail dalla rivista Merum di Andreas Marz che sviluppa una critica importante al progetto della Commissione Europea sul settore vitivinicolo. E' un tema importante. Cito direttamente la fonte: "La nuova Organizzazione Comune dei Mercati nel settore vitivinicolo (OCM) vuole drasticamente cambiare il mondo del vino europeo. Il fatto più grave è sicuramente l’intenzione di distruggere 200.000 ettari di vigna tramite un programma di estirpazione nel quale i "produttori meno competitivi sarebbero fortemente incentivati a vendere i loro diritti". Tutti sappiamo che spesso i vigneti meno competitivi sono non solo qualitativamente, ma anche culturalmente, socialmente ed ecologicamente i più preziosi. Basta pensare ai vigneti in zone di collina poco fertili o quelli situati in zone montane, costiere ed insulari. Secondo Merum il legislatore NON dovrebbe occuparsi della regolamentazione del mercato del vino. La Commissione Europea dovrebbe quindi abbandonare ogni iniziativa che mira alla regolamentazione del potenziale di produzione ed ogni forma di sostegno del mercato. La Commissione si dovrebbe invece far carico della tutela e del sostegno dell’agricoltura socialmente, culturalmente ed ambientalmente utile e delle denominazioni di origine. Tra altre novità inquietanti, la nuova OCM porterà anche ad una liberalizzazione delle pratiche enologiche. Le regole che disciplinano il lavoro del cantiniere presto saranno le stesse in tutto il mondo. I trucioli sono solo il simbolo per una enologia intesa come un processo industriale qualsiasi. I legislatori intendono il "vino" sempre più come bevanda industriale e sempre meno come prodotto agri-culturale. Con queste innovazioni il legislatore vuole assicurare competitività ai prodotti europei sul mercato globale. Sarà forse così per i vini di massa, ma per i vini tradizionali, delle zone storiche e per i piccoli e medi produttori, questa apertura a metodi finora illegali è un disastro. I vini classici non si rendono competitivi abbassando i costi di produzione, ma incrementando la loro qualità intesa come tipicità ed autenticità. Ed è proprio l’immagine dell’autenticità e della genuinità che per colpa della liberalizzazione dei metodi enologici viene danneggiata". E' una posizione che era stata sviluppata anche all'interno della Associazione Agricoltori Critici e, dunque, del circuito di aziende aderenti a Critical Wine: in proposito vi era stata anche una manifestazione in Marzo di fronte a Montecitorio e da tempo circola un appello che si può trovare qui.
Merum propone una strada: "La redazione di Merum è convinta che il processo della globalizzazione-banalizzazione del vino di massa sia irreversibile. Lo sì può forse rallentare, ma non è possibile fermarlo. Per salvare la cultura tradizionale europea del vino e per difendere i produttori artigianali servono quindi delle distinzioni, un confine tra "vino" e VINO, tra bevanda industriale e vino nel senso tradizionale della parola".
Merum propone una strada: "La redazione di Merum è convinta che il processo della globalizzazione-banalizzazione del vino di massa sia irreversibile. Lo sì può forse rallentare, ma non è possibile fermarlo. Per salvare la cultura tradizionale europea del vino e per difendere i produttori artigianali servono quindi delle distinzioni, un confine tra "vino" e VINO, tra bevanda industriale e vino nel senso tradizionale della parola".
Il problema, a mio avviso, nasce quando si deve tracciare la linea di questo confine. L'idea della Charta Merum, un patto tra i produttori artigianali e i consumatori critici ed attenti, è molto interessante e va nella direzione già tracciata in qualche modo anni fa da Luigi Veronelli e da Critical Wine. "Per colpa del fatto che oggi quasi tutto è permesso, ma quasi niente deve essere dichiarato in etichetta, il consumatore non ha una vera possibilità di scelta. Perché non ha mezzi a disposizione che gli permettono di distinguere una bottiglia di vino nel più nobile senso della parola da una "bevanda a base di uva". La Charta Merum vuole essere un rimedio per la crescente mancanza di trasparenza e rinforzare la fiducia del consumatore nel vino".
Ma il fatto è che, nel proporre tale carta, altro non si fa se non creare un nuovo disciplinare, introdurre nuove regole, fissare limiti che lo stesso Andreas Marz definisce "arbitrari", soggettivi. In questo modo il consumatore da una parte trova la mancanza di trasparenza dei vini industriali, dall'altra una selva di regole o metodi diversi per vini naturali (si pensi alla tripla AAA dei biodinamici) che non possono che nuovamente confondere le acque.
E se l'unica strada, invece, fossero le autocertificazioni? La comunicazione, cioé, diretta del vignaiolo al consumatore dei metodi, delle pratiche e dei prodotti chimici utilizzati? La costruzione di un patto fiduciario senza l'obbligo di dover rientrare entro limiti predefiniti e arbitrari? Insomma, non avevano ragione Veronelli e le teste pensanti di Critical Wine nel proporre qualcosa di realmente libertario in grado di promuovere la responsabilità diretta e l'auto-gestione più che la solita sfilza di regolamenti e discipline?
Etichette:
critical wine,
OCM,
vino naturale
mercoledì 19 settembre 2007
WWoofers
Quando un mio collega vignaiolo mi aveva parlato della associazione WOOF mi ero subito incuriosito. E' una associazione internazionale che mette in contatto aziende biologiche di tutto il mondo con persone appassionate di agricoltura ed ambiente. I turisti soggiornano nelle aziende, danno una mano attivamente per un certo ammontare di ore concordato, imparano tecniche di coltivazione e di trasformazione e ricevono, in cambio, vitto, alloggio e un supporto logistico per visitare i territori circostanti e conoscere un pò la vita locale. Mi era piaciuta l'idea di coniugare le esigenze delle piccole aziende agricole, sempre in cerca di un aiuto ma impossibilitate per dimensioni ad assumere dipendenti, e quelle di turisti e viaggiatori interessati alla sostenibilità, all'ecologia, all'agricoltura. Mi sono iscritto. E subito sono arrivate molte richieste di ospitalità. Questa vendemmia, quindi, sarà anche nel segno di Krista e Lauri, dalla Finlandia, Jenny e Elliot, dagli Stati Uniti, che mi stanno aiutando cercando di districarsi fra selezioni, vitigni, lieviti indigeni, cicli di pressatura, travasi e rimontaggi. Così, è stato molto bello ieri sera cenare a base di cucina messicana preparata da ragazzi finlandesi e americani nel centro delle Marche: è una idea di globalizzazione che mi piace, quella del confronto culturale, dello scambio di esperienze, del confronto di idee. Di risorse umane in movimento, di cittadinanza universale, di relazioni sociali che fuoriescono dal semplice scambio economico. Una idea che contrasta la globalizzazione delle multinazionali e delle finanziarie. Ma questa è un'altra storia. O forse no.
domenica 9 settembre 2007
Vendemmia 2007 - Parte seconda
Mettetevi nei panni di vigneti che non hanno avuto acqua per tutto l'inverno e la primavera. Che hanno avuto temperature con punte di 42° gradi nel mese di Luglio e 38° a fine agosto. Con shock termici per cui la prima settimana di settembre si sono toccati i 10°. Sareste un pò incazzati? Io sì. Infatti non me la prendo per questa vendemmia strana. Difficile. Squilibrata. L'uva è sanissima, ovviamente, guardando a muffe e marciumi. Questo, generalmente è uno dei problemi del Verdicchio. Ma all'interno dello stesso vigneto la variabilità nella qualità dei grappoli è altissima, perché in alcuni punti l'uva è scottata e quasi appassita, in altri punti la buccia è spessa e il vinaciolo enorme e ancora verdastro, in altri punti è strepitosa. Questo costringe a fare selezioni ancora più estreme del solito, ma anche a dover riprogrammare continuamente la raccolta. Si pensi che fra un vigneto con esposizione sud e terreno molto duro e calcareo ed un vigneto con esposizione est e terreno più sciolto ci passano almeno 3° babo di differenza. In generale il colore dei mosti è molto scuro e ciò sarà un problema per chi vinifica in modo naturale, ne risulteranno forzatamente vini molto dorati. Per ora le analisi sulla prima parte di uva destinata a Gli Eremi recitano 20,25° gradi babo e 7,50 di acidità totale. Non è male. Incrociamo le dita. Si prosegue a oltranza.
Etichette:
caldo,
clima,
vendemmia,
verdicchio,
vino naturale
venerdì 31 agosto 2007
Vendemmia 2007
Il sangiovese mi era capitato di vendemmiarlo d'agosto solo nel 2003. Quest'anno è già in fermentazione da quasi una settimana. La vendemmia 2007 può dirsi ufficialmente iniziata anche per il sottoscritto. Lunedì credo che si comincerà a togliere qualche grappolo di Verdicchio. Le acidità si stanno abbassando parecchio, il che non mi piace affatto. In particolare, le varie ondate di calore estremo hanno bruciato parecchio acido malico, motivo in più per anticipare ulteriormente un primo passaggio in vigneto.
Nel frattempo non posso che sottolineare la scarsissima produzione di Sangiovese (circa la metà rispetto alla media), un pò a causa della vendemmia effettuata da simpatici stormi di uccelli predatori, un pò per una potatura diciamo "aggressiva" da parte mia, un pò per la stagione secca che ha prodotto grappoli quasi sempre sottopeso, quasi anoressici. Il colore, però sembra molto bello e stabile, così come i tannini che non mi sembrano verdi come temevo. Ma è ancora presto per qualunque valutazione.
venerdì 24 agosto 2007
Alcuni vini che mi sono piaciuti
Ricordo con piacere alcuni vini bevuti ultimamente, in allegra compagnia. Ve li presento così come me li ricordo, perché non è che mi metta spesso seduto di fronte a un vino con Moleskine e penna. Il più delle volte, di fronte, ho una tavola apparecchiata e in testa ben poche pippe mentali.
Fra i molti bianchi bevuti quest'estate ricordo il Riesling Trocken Quarzit 2005 di Peter Jakob Kuhn, regalatomi da un gentile visitatore tedesco amante dei vini naturali. E' un riesling stupendo per la sua acidità diretta e senza compromessi, per quella pietra che ti si deposita sulla lingua quando deglutisci, per quella sensazione di pulizia e freschezza che ti lascia come dissetato, dopo che hai attraversato il deserto. Io amo questi bianchi che profumano di gioia e non ti annoiano mai. Mentre ascolti Hallelujah di Jeff Buckley.
E poi il Franciacorta Rosé di Barone Pizzini è stata una piacevole sorpresa, fin dal colore, fin dal perlage. Un vino non troppo complicato ma fine, una bella canzone pop, dalla melodia intrigante. Tipo James Taylor.
Altrettanto fresco e fine il Tavel Beaurevoir rosé di Chapoutier, da questa denominazione del sud del Francia unicamente deputata al vino rosato. Qui, però, ricordo anche una notevole struttura ed una cremosità da vitigno rosso importante. Lievi sfumature di fiori appassiti e di umido sottobosco. Da abbinare a un pezzo dei Coldplay, tipo The scientist.
Stupendo il Morgon 2006 di Marcel Lapierre, scambiato alla fiera dei vini naturali di Asti e che spero di ritrovare a Fornovo. Valeria se n'è bevuto mezza bottiglia, il che non succede spesso. E depone a favore di questo capolavoro di naturalezza proveniente dal Beaujoulais, dai fragranti sentori di rosa, lavanda, prati bagnati. Che ti fanno pensare all'inizio dell'estate, già lontana, e a un disco qualunque di Stefano Bollani.
Due giorni fa, invece, ho stappato il Pinot nero del mio amico Kurt Rottensteiner nella versione 2002. Assolutamente perfetto. Pulito, minerale, quasi salato e al tempo stesso godibilissimo per i profumi netti di fragola di bosco e ribes e mora. Sebbene, ben nascosta, si sentisse anche una nota complessa, quasi affumicata, che ritrovo spesso nei Pinot nero di Kurt e me li fanno amare. Un che di psichedelico. Diciamo Lucy in the sky with diamonds dei Beatles così festeggio anch'io il quarantesimo di Sgt. Peppers.
Concludo con la migliore grigliate dell'estate. Con Alessandro Fenino, di cui ho proditoriamente sfruttato l'immagine nel post sui vini naturali, ci siamo grigliati due belle bisteccone di pura razza marchigiana in una bella, scintillante, serata di giugno. Abbiamo bevuto il Chianti Riserva 2004 di Pietro Majnoni Giucciardini. A parte che l'abbinamento non poteva azzecarlo migliore nemmeno il migliore dei sommeliers professionisti, ma quel vino lì ci ha proprio fatto godere. Sapeva semplicemente di Toscana, di Sangiovese, di classicità, di autenticità. Che cosa aggiungere? Gimme shelter nella versione fatta da Patti Smith al San Severino Blues Festival: inutile dire che Alessandro ed io c'eravamo ed abbiamo goduto.
Fra i molti bianchi bevuti quest'estate ricordo il Riesling Trocken Quarzit 2005 di Peter Jakob Kuhn, regalatomi da un gentile visitatore tedesco amante dei vini naturali. E' un riesling stupendo per la sua acidità diretta e senza compromessi, per quella pietra che ti si deposita sulla lingua quando deglutisci, per quella sensazione di pulizia e freschezza che ti lascia come dissetato, dopo che hai attraversato il deserto. Io amo questi bianchi che profumano di gioia e non ti annoiano mai. Mentre ascolti Hallelujah di Jeff Buckley.
E poi il Franciacorta Rosé di Barone Pizzini è stata una piacevole sorpresa, fin dal colore, fin dal perlage. Un vino non troppo complicato ma fine, una bella canzone pop, dalla melodia intrigante. Tipo James Taylor.
Altrettanto fresco e fine il Tavel Beaurevoir rosé di Chapoutier, da questa denominazione del sud del Francia unicamente deputata al vino rosato. Qui, però, ricordo anche una notevole struttura ed una cremosità da vitigno rosso importante. Lievi sfumature di fiori appassiti e di umido sottobosco. Da abbinare a un pezzo dei Coldplay, tipo The scientist.
Stupendo il Morgon 2006 di Marcel Lapierre, scambiato alla fiera dei vini naturali di Asti e che spero di ritrovare a Fornovo. Valeria se n'è bevuto mezza bottiglia, il che non succede spesso. E depone a favore di questo capolavoro di naturalezza proveniente dal Beaujoulais, dai fragranti sentori di rosa, lavanda, prati bagnati. Che ti fanno pensare all'inizio dell'estate, già lontana, e a un disco qualunque di Stefano Bollani.
Due giorni fa, invece, ho stappato il Pinot nero del mio amico Kurt Rottensteiner nella versione 2002. Assolutamente perfetto. Pulito, minerale, quasi salato e al tempo stesso godibilissimo per i profumi netti di fragola di bosco e ribes e mora. Sebbene, ben nascosta, si sentisse anche una nota complessa, quasi affumicata, che ritrovo spesso nei Pinot nero di Kurt e me li fanno amare. Un che di psichedelico. Diciamo Lucy in the sky with diamonds dei Beatles così festeggio anch'io il quarantesimo di Sgt. Peppers.
Concludo con la migliore grigliate dell'estate. Con Alessandro Fenino, di cui ho proditoriamente sfruttato l'immagine nel post sui vini naturali, ci siamo grigliati due belle bisteccone di pura razza marchigiana in una bella, scintillante, serata di giugno. Abbiamo bevuto il Chianti Riserva 2004 di Pietro Majnoni Giucciardini. A parte che l'abbinamento non poteva azzecarlo migliore nemmeno il migliore dei sommeliers professionisti, ma quel vino lì ci ha proprio fatto godere. Sapeva semplicemente di Toscana, di Sangiovese, di classicità, di autenticità. Che cosa aggiungere? Gimme shelter nella versione fatta da Patti Smith al San Severino Blues Festival: inutile dire che Alessandro ed io c'eravamo ed abbiamo goduto.
domenica 19 agosto 2007
Rassegna Musica Distesa
Sono passati due mesi. E già mi mancano il casino, l'adrenalina, la buona musica, il vino bevuto a larghe sorsate in ottima compagnia, i tuffi in piscina in piena notte, gli abbracci, la luna che tramontava lenta sulle note dei musicisti illuminati dalle candele, i balli e le grida e le salamelle finite anzitempo.
Mi è sempre piaciuto pensare che produrre della buona musica e fare un buon vino siano operazioni che hanno molto in comune. Allo stesso modo credo che il mondo "discografico" e il mondo dell'"enogastronomia" abbiano molte somiglianze. A partire da un mercato sempre più difficile, da una divisione insanabile fra industria mainstream e artigianato indipendente, da una critica sempre meno veritiera e sempre più piegata alle mode ed alle convenzioni. Una delle idee di Musica Distesa, quindi, è quella di mettere in relazione queste due realtà similari. La cultura materiale rappresentata dal vino e dal cibo con la spiritualità della musica. Tutto nel contesto di una forma calda di ospitalità rurale, tipica dell'agriturismo. Spero che nel tempo si sappia crescere e migliorare per arrivare a presentare una rassegna che abbia una identità unica e irripetibile. Spero che l'associazione Cupramontana Accoglie abbia ancora voglia di organizzare l'evento, che mio fratello riesca a trovare il tempo di selezionare artisti bravi e poco conosciuti, che si riescano a trovare finanziamenti in grado di sostenere questa iniziativa.
Per ora posso solo ricordare che sabato 23 giugno, sdraiato sul prato mentre i bravissimi Annie Hall da Brescia riempivano l'aria di psichedelia dilatata e leggera, sorseggiavo del buon Verdicchio ghiacciato e pensavo che c'era proprio una bella atmosfera, quell'atmosfera che avevo in mente quando ancora sognavo La Distesa, agli inizi di questa avventura. E' stato anche un bel modo - per Valeria e per me - di festeggiare il nostro sesto anniversario di matrimonio.
martedì 14 agosto 2007
Sul vino naturale
«Colgo l’occasione per mettere in guardia i consumatori dal bere vini senza solforosa, perché il vino potrebbe non avere tenuta microbiologica o, ancora peggio, contenere elementi sostitutivi, non ammessi dalla legge e nocivi». Riccardo Cotarella (da un’intervista radiofonica).
E' una breve citazione dall'ultimo numero di Porthos. L'uomo la cui firma vale il successo sui mercati USA, il Michell Rolland de' noantri, l'uomo che ha inondato l'Italia di Merlot, si schiera apertamente contro il vino naturale. E non poteva essere altrimenti. Dopotutto difende una categoria. Ma il fatto che Cotarella si sia esposto pubblicamente significa che "l'enologia italiana" si è accorta che qualcosa sta cambiando, sulla scia di una domanda sempre più diffusa: l'enologia deve essere per forza solo ed esclusivamente utilizzo smodato di prodotti chimici? O può essere, invece, come molti grandi vini dimostrano, ottimizzazione di variabili e sostanze naturalmente presenti nell'uva e incentivo a pratiche agronomiche e di cantina sempre migliori ed efficienti?
Io sono arrivato al vino naturale lentamente. Per sottrazione. Eliminando anno dopo anno, vendemmia dopo vendemmia, quasi tutti quei coadiuvanti più o meno invasivi che stanno ormai alla base della totalità dei vini in commercio. E' stata una scelta coerente con l'idea di praticare una agricoltura biologica e naturale. Solo in seguito ho scoperto il "mondo del vino naturale". Un mondo alternativo, indipendente, di nicchia. Un mondo fatto di splendidi vignaioli, di consumatori attenti, di giornalisti appassionati, di fiere interessanti e ben fatte.
Questo mondo si sta espandendo. E qualsiasi cosa ne pensino i detrattori, è un bene. Per la Terra e per i consumatori. Ma era ovvio che l'Industria se ne accorgesse. Lo Stato - dunque, la Legge - se n'era già accorto da tempo: le grande parte della legislazione alimentare dell'Unione Europea e delle nostre ASL vogliono dimostrare che è sano ciò che è industriale e microbiologicamente stabile (ovvero morto). Dai formaggi ai vini, dal latte al miele tutto ciò che mangiamo dovrà essere, nelle intenzioni delle lobbies industriali e dello Stato, "organoletticamente morto".
Il mondo del vino naturale, e del cibo naturale, altro non è, quindi, che uno dei campi della battaglia mondiale per una agricoltura naturale e sostenibile. E' importante, a mio avviso, che non si chiuda in se stesso, che non cada nell'errore di voler restare "nicchia", che non si piaccia a tal punto da diventare "radical chic". In questo senso alcune dinamiche che coinvolgono in particolare una parte di questo mondo, e principalmente chi fa agricoltura biodinamica, non possono che preoccupare. Mi riferisco alla volontà di dividere questo movimento anziché di unirlo. Di estraniarsi col fine di attirare i riflettori e l'interesse. Di moltiplicare le fiere e i disciplinari. Di privilegiare i personalismi e le diffidenze. Col risultato di seminare confusione nei consumatori e di far prevalere, in fondo, considerazioni di natura commerciale.
Si dirà che è necessario porre dei limiti per impedire che tutti salgano sul "carro dei vincitori", per seguire la moda, per fuggire dalla crisi, per sfruttare l'onda. Ma la storia dei disciplinari e delle certificazioni insegna che chi ha barato con le DOC o con il BIO potrà agevolmente barare con altre limitazioni, pubbliche o private che siano.
Come uscirne? Io credo che il vino naturale, e più in generale la lotta per un'altra agricoltura, possa avere un futuro se andrà nella direzione di una unità di intenti su alcune semplici idee forti, condivise e diffuse fra tutti gli agricoltori "naturali". E se questa unione si saldasse in un patto sociale con le esigenze e le aspettative dei consumatori "critici", sulla base di due criteri fondamentali: l'origine e la trasparenza. In questo senso l'autocertificazione, dunque l'assunzione di responsabilità diretta del produttore di fronte al consumatore, rappresenterebbe il cardine di questo patto. Non un dettagliato disciplinare che impone in modo integralista dei limiti (quantità di solforosa, tipologia di lieviti, ecc.), ma una comunicazione trasparente sui metodi di coltivazione e trasformazione utilizzati, all'insegna del "dico quel che faccio, faccio quel che dico". Il consumatore sceglierà di conseguenza. Se il giorno dopo si ritroverà col mal di testa, state certi che dal furbo di turno in pochi torneranno.
Quel che trovo importante, però, è prepararsi alla controffensiva industriale. L'uscita di Cotarella sarà il primo di una serie di attacchi: legislativi, di marketing, commerciali. Divisi non si potrà che perdere.
E' una breve citazione dall'ultimo numero di Porthos. L'uomo la cui firma vale il successo sui mercati USA, il Michell Rolland de' noantri, l'uomo che ha inondato l'Italia di Merlot, si schiera apertamente contro il vino naturale. E non poteva essere altrimenti. Dopotutto difende una categoria. Ma il fatto che Cotarella si sia esposto pubblicamente significa che "l'enologia italiana" si è accorta che qualcosa sta cambiando, sulla scia di una domanda sempre più diffusa: l'enologia deve essere per forza solo ed esclusivamente utilizzo smodato di prodotti chimici? O può essere, invece, come molti grandi vini dimostrano, ottimizzazione di variabili e sostanze naturalmente presenti nell'uva e incentivo a pratiche agronomiche e di cantina sempre migliori ed efficienti?
Io sono arrivato al vino naturale lentamente. Per sottrazione. Eliminando anno dopo anno, vendemmia dopo vendemmia, quasi tutti quei coadiuvanti più o meno invasivi che stanno ormai alla base della totalità dei vini in commercio. E' stata una scelta coerente con l'idea di praticare una agricoltura biologica e naturale. Solo in seguito ho scoperto il "mondo del vino naturale". Un mondo alternativo, indipendente, di nicchia. Un mondo fatto di splendidi vignaioli, di consumatori attenti, di giornalisti appassionati, di fiere interessanti e ben fatte.
Questo mondo si sta espandendo. E qualsiasi cosa ne pensino i detrattori, è un bene. Per la Terra e per i consumatori. Ma era ovvio che l'Industria se ne accorgesse. Lo Stato - dunque, la Legge - se n'era già accorto da tempo: le grande parte della legislazione alimentare dell'Unione Europea e delle nostre ASL vogliono dimostrare che è sano ciò che è industriale e microbiologicamente stabile (ovvero morto). Dai formaggi ai vini, dal latte al miele tutto ciò che mangiamo dovrà essere, nelle intenzioni delle lobbies industriali e dello Stato, "organoletticamente morto".
Il mondo del vino naturale, e del cibo naturale, altro non è, quindi, che uno dei campi della battaglia mondiale per una agricoltura naturale e sostenibile. E' importante, a mio avviso, che non si chiuda in se stesso, che non cada nell'errore di voler restare "nicchia", che non si piaccia a tal punto da diventare "radical chic". In questo senso alcune dinamiche che coinvolgono in particolare una parte di questo mondo, e principalmente chi fa agricoltura biodinamica, non possono che preoccupare. Mi riferisco alla volontà di dividere questo movimento anziché di unirlo. Di estraniarsi col fine di attirare i riflettori e l'interesse. Di moltiplicare le fiere e i disciplinari. Di privilegiare i personalismi e le diffidenze. Col risultato di seminare confusione nei consumatori e di far prevalere, in fondo, considerazioni di natura commerciale.
Si dirà che è necessario porre dei limiti per impedire che tutti salgano sul "carro dei vincitori", per seguire la moda, per fuggire dalla crisi, per sfruttare l'onda. Ma la storia dei disciplinari e delle certificazioni insegna che chi ha barato con le DOC o con il BIO potrà agevolmente barare con altre limitazioni, pubbliche o private che siano.
Come uscirne? Io credo che il vino naturale, e più in generale la lotta per un'altra agricoltura, possa avere un futuro se andrà nella direzione di una unità di intenti su alcune semplici idee forti, condivise e diffuse fra tutti gli agricoltori "naturali". E se questa unione si saldasse in un patto sociale con le esigenze e le aspettative dei consumatori "critici", sulla base di due criteri fondamentali: l'origine e la trasparenza. In questo senso l'autocertificazione, dunque l'assunzione di responsabilità diretta del produttore di fronte al consumatore, rappresenterebbe il cardine di questo patto. Non un dettagliato disciplinare che impone in modo integralista dei limiti (quantità di solforosa, tipologia di lieviti, ecc.), ma una comunicazione trasparente sui metodi di coltivazione e trasformazione utilizzati, all'insegna del "dico quel che faccio, faccio quel che dico". Il consumatore sceglierà di conseguenza. Se il giorno dopo si ritroverà col mal di testa, state certi che dal furbo di turno in pochi torneranno.
Quel che trovo importante, però, è prepararsi alla controffensiva industriale. L'uscita di Cotarella sarà il primo di una serie di attacchi: legislativi, di marketing, commerciali. Divisi non si potrà che perdere.
Etichette:
agricoltura biologica,
biodinamica,
vino naturale
domenica 12 agosto 2007
Letture
Fra le molte letture che sono riuscito a concedermi quest'estate voglio segnalare due libri molto diversi.
Il primo è di uno scrittore che ha il dono della magia letteraria, Jay McInerney, newyorchese, autore di "Le mille luci di New York", libro-capolavoro degli anni ottanta. Ho divorato il suo "Good Life", un romanzo scintillante, amaro, decadente sulla New York post 11 settembre. La storia di due coppie dell'altissima borghesia della grande mela, il racconto di personaggi reali immersi in un mondo irreale, svegliatosi d'improvviso a causa di qualcosa di inconcepibile, la lucida descrizione di una civiltà sotto assedio che ha perso la bussola.
Il secondo è un libro strano e avvicente: il titolo è una citazione dal Cantico dei Cantici, "Confortatemi con le mele". L'autrice, Ruth Reichl, è una famosa critica gastronomica americana (New York Times e Los Angeles Times). Il libro è una sorta di autobiografia ma con il passo del romanzo. Non solo. E' costantemente inframmezzato da ricette di cucina particolarmente importanti per l'autrice, con riferimento alle storie narrate. La lettura procede, così, fra descrizioni di ristoranti e vini, di amori e comuni hippies, di cene luculliane e dialoghi con chefs stellati, in un continuo girotondo di viaggi, separazioni, deliziose descrizioni culinarie, interviste. A parte qualche "americanata" di troppo, è un libro molto acuto e divertente.
Il primo è di uno scrittore che ha il dono della magia letteraria, Jay McInerney, newyorchese, autore di "Le mille luci di New York", libro-capolavoro degli anni ottanta. Ho divorato il suo "Good Life", un romanzo scintillante, amaro, decadente sulla New York post 11 settembre. La storia di due coppie dell'altissima borghesia della grande mela, il racconto di personaggi reali immersi in un mondo irreale, svegliatosi d'improvviso a causa di qualcosa di inconcepibile, la lucida descrizione di una civiltà sotto assedio che ha perso la bussola.
Il secondo è un libro strano e avvicente: il titolo è una citazione dal Cantico dei Cantici, "Confortatemi con le mele". L'autrice, Ruth Reichl, è una famosa critica gastronomica americana (New York Times e Los Angeles Times). Il libro è una sorta di autobiografia ma con il passo del romanzo. Non solo. E' costantemente inframmezzato da ricette di cucina particolarmente importanti per l'autrice, con riferimento alle storie narrate. La lettura procede, così, fra descrizioni di ristoranti e vini, di amori e comuni hippies, di cene luculliane e dialoghi con chefs stellati, in un continuo girotondo di viaggi, separazioni, deliziose descrizioni culinarie, interviste. A parte qualche "americanata" di troppo, è un libro molto acuto e divertente.
giovedì 9 agosto 2007
Ci siamo quasi.
Sono reduce da un lungo giro per vigneti. Ho fatto una campionatura alla mia maniera, cioé senza alcuna misurazione. Assaggiando gli acini qua e là. L'impressione è che anche qui nei Castelli di Jesi la vendemmia si inizierà a breve. Soprattutto le varietà rosse sono a un livello di maturazione avanzatissimo. Eppure non mi sembra una stagione paragonabile al 2003. Gli acini paiono avere ancora un ottima aromaticità, una buona fragranza, una giusta turgidità. Tutte qualità che nel 2003 si potevano solo sognare. Allora il problema fu quello della incredibile lunghezza del periodo di "caldo africano" (da maggio a settembre senza soluzione di continuità) con una costanza mai vista delle temperature fra il giorno e la notte. Quest'anno, a parte la terza settimana di luglio dove si sono raggiunti i 42 gradi a Matelica e i 40 a Jesi, il caldo è stato più sopportabile e le notti sono state piuttosto fresche.
Come mai, dunque, una vendemmia così anticipata? Credo che la causa sia stata il caldo davvero anomalo del periodo fra gennaio e maggio, con il conseguente anticipo vegetativo che l'ondata di caldo di luglio ha semplicemente rafforzato. Vedremo le prossime due settimane cosa ci riserveranno. Il problema, ora, è la completa sfasatura fra la maturità "tecnica" (zuccheri/acidità) e la maturità dei tannini, che sono tuttora verdissimi.
Nel frattempo si cominciano a preparare le vasche e la cantina.
Come mai, dunque, una vendemmia così anticipata? Credo che la causa sia stata il caldo davvero anomalo del periodo fra gennaio e maggio, con il conseguente anticipo vegetativo che l'ondata di caldo di luglio ha semplicemente rafforzato. Vedremo le prossime due settimane cosa ci riserveranno. Il problema, ora, è la completa sfasatura fra la maturità "tecnica" (zuccheri/acidità) e la maturità dei tannini, che sono tuttora verdissimi.
Nel frattempo si cominciano a preparare le vasche e la cantina.
sabato 4 agosto 2007
Pensieri, sogni e visioni...
Semplicemente questo. Un cammino attraverso i miei pensieri, i miei sogni, le mie visioni. Racconti da un territorio fisico e metafisico; storie di vigne e di vini; incontri e scontri di un vignaiolo viandante fra le tante assurdità del mondo attuale; degustazioni, concerti e letture.
Nella enorme confusione dello spazio virtuale, sempre più affollato di naviganti, illusionisti, musici, stregoni e geni definitivi, queste pagine vogliono solo essere un luogo dove La Distesa s'incontra con altri: amici, appasionati di vino, agrituristi, i molti e diversi destini incontrati in questi anni. Un modo per superare la fredda incomunicabilità del sito internet tradizionale (http://www.ladistesa.it/), per dare la possibilità di un confronto continuativo e informazioni più chiare ed aggiornate sul mio lavoro, sul mio mondo.
Nella enorme confusione dello spazio virtuale, sempre più affollato di naviganti, illusionisti, musici, stregoni e geni definitivi, queste pagine vogliono solo essere un luogo dove La Distesa s'incontra con altri: amici, appasionati di vino, agrituristi, i molti e diversi destini incontrati in questi anni. Un modo per superare la fredda incomunicabilità del sito internet tradizionale (http://www.ladistesa.it/), per dare la possibilità di un confronto continuativo e informazioni più chiare ed aggiornate sul mio lavoro, sul mio mondo.
Iscriviti a:
Post (Atom)