I nodi vengono al pettine.
Il calo del PIL nel primo trimestre del 2014, certificato
dall’ISTAT, si è abbattuto come una mannaia sugli ultimi scampoli di campagna
elettorale per le Europee. Il dato stupisce solo chi ha creduto nella
“ripresa”, nella definitiva “uscita dalla crisi”, nella famigerata “inversione
del ciclo”. Tutte parole più o meno vuote che parlano il linguaggio di un mondo
economico che non c’è più.
Ciò che appare agghiacciante è l’insistenza con la quale i
potentati economici, i partiti politici delle “larghe intese” e certi
economisti che un tempo erano “mainstream” e oggi sono semplicemente
fuoritempo, continuano a perseverare nell’errore: considerare la crisi europea
come passeggera, invocare le riforme come panacea a tutti mali, eludere totalmente il problema del tasso di
cambio e degli squilibri commerciali dell’area Euro.
Tutto nasce, ovviamente, dal modello economico di
riferimento.
L’idea dell’Euro come moneta unica nasceva con la fondata
pretesa di creare un’area economica comune che avrebbe avuto una domanda interna
di più di 400 milioni di persone. Il problema è che questa buona idea nelle
mani dei guardiani dell’economia dell’offerta, dei soloni del monetarismo, dei
giganti del pensiero neo-liberista si è trasformata nel peggior esperimento
teorico di economia monetaria-finanziaria della storia dell’uomo. Ce lo dicono
le parole stesse: un tempo avevamo la Comunità Economica Europea, oggi parliamo
di Unione Bancaria, di Fondo Salvastati (dotato di rating!), di Fiscal Compact.
Ma cosa ci dice in realtà questo lieve calo del PIL
italiano? Comunica esattamente quello che oramai tutti sanno ma nessuno può
dire (a parte Tsipras, Grillo e Le Pen/Salvini tutti e tre con grandi
differenze di approccio e linguaggio): molto semplicemente ci dice che non è possibile per l’Italia con questo
livello di tasso di cambio (troppo alto) e questa rigidità dal lato della spesa
(austherity) uscire dalla crisi e ricominciare a crescere.
Quello che si dovrebbe fare sta nei manuali di buona economia
politica. Due semplici cose: svalutare un po’ l’Euro e abolire il 3% di limite
deficit/PIL. Ma sono esattamente le due cose che la Germania non vuole che si
facciano.
La realtà è sotto gli occhi di tutti: abbiamo distrutto, sull’altare
dell’idea liberista per cui vale solo la competizione nei mercati globali, la
domanda interna. La deflazione europea ne è la prova provata: l’enorme
disoccupazione nei paesi della “periferia”, unita alle cosiddette “riforme”,
cioè alla deflazione interna, ovvero la compressione dei salari e la
generalizzazione del precariato su scala europea, hanno fatto sì che
quell’enorme Mercato Unico di 400 milioni di persone venisse depotenziato.
Depotenziato a tal punto che l’unica fonte di crescita può venire solo da un
export che alla fine premia oramai solamente la Germania, non tanto o non solo
in virtù della qualità intrinseca delle merci prodotte, ma soprattutto perché
unica area a non dover soffrire un tasso di cambio troppo elevato.
Il fatto che paesi come Olanda e Finlandia, che da sempre gravitano
nell’area tedesca, non se la passino poi così bene, quasi venissero risucchiati
nelle periferie dei PIIGS, è un ulteriore dimostrazione di questo buonsenso
“keynesiano” che non pare trovare più adepti nell’area del Partito Socialista Europeo e delle sue
ramificazioni nazionali; parte politica per la quale dovrebbe essere il
naturale riferimento ideologico.
Perché? … Verrebbe da chiedersi? E la risposta è semplice semplice:
perché si dovrebbe ammettere davanti a
centinaia di milioni di elettori di centrosinistra europei che i vari Prodi,
Shroeder, Zapatero, Blair sono caduti – coscientemente o meno poco importa –
nel trappolone del Capitale e che, nei tempi lunghi della storia, non in quelli
brevi di un ciclo di crescita decennale, questi signori hanno molto
semplicemente affossato il sogno europeo di una Comunità sovranazionale.
Ma ora che fare?
A parte immettere miliardi di euro di liquidità in un
sistema economico già in deflazione nel quale coi tassi prossimi allo 0%
comunque gli imprenditori non investono e i consumatori non consumano (esempio
quasi da manuale di “trappola della liquidità” e di “sindrome giapponese”)?
A parte attendere un altro starnuto che faccia risalire gli
spread facendo ripartire la spirale che lega la spesa per interessi al deficit
e dunque a nuovi tagli che poi non possono che frenare ulteriormente la
crescita?
L’uscita dall’euro
non è una soluzione politicamente sostenibile. Credo che dal punto di vista
economico sarebbe una soluzione accettabile nel breve periodo e in grado di
risolvere alcuni equilibri nei disavanzi commerciali. Il problema è che avendo
trasformato, volutamente, l’Europa e l’Euro nel nuovo feticcio ideologico, il
risultato politico di un’uscita italiana dall’euro sarebbe il ritorno del
nazionalismo identitario e la fine della costruzione dello spazio comune
europeo (su questo punto persino intellettuali di estrema sinistra come Toni
Negri sono stati chiari).
In tempi non sospetti, esattamente a Firenze nel 2002, un
vasto movimento di cittadini chiedeva “Un’altra
Europa possibile”: non erano grillini incazzati, non erano piddini delusi,
non erano neo-fascisti nazionalisti. Era un vasto movimento di persone che
vedeva già allora il rischio insito nell’Europa dei governi e delle banche e
chiedeva l’Europa dei cittadini. Avevamo ragione ma ha fatto comodo a tutti
eludere il problema allora.
In definitiva, alla luce della situazione attuale, una
soluzione facile non c’è. Certamente non può esserlo questo appuntamento delle
elezioni europee dove l’Europa sembra divisa da un nuovo muro di Berlino.
L’unico orizzonte, allora, resta quello della critica
serrata, di una resistenza attiva a questo modello economico che è il vero
artefice di questa Europa. Piano piano. Giorno dopo giorno. Dal piccolo dei
nostri Comuni ai grandi appuntamenti com l’Expo 2015.
Sempre in movimento.