giovedì 27 marzo 2008

Brunello e consorzi

E' di questi giorni la notizia, data per primo da Franco Ziliani (leggi qui), e poi rimbalzata su blog e siti italiani e stranieri, di una importante inchiesta della Procura di Siena riguardante alcuni produttori di Brunello di Montalcino. Pare che questi produttori abbiano utilizzato uve differenti dal Sangiovese, che per il disciplinare è l'unica uva ammessa. Ancora è da capire se questi Brunello venissero tagliati con vini del Sud, in particolare pugliesi, o se venissero impiegati vitigni differenti dal Sangiovese ma piantati a Montalcino. In ogni caso trattasi di frode in commercio. Frode grave, vista l'importanza della Denominazione in questione, forse la più blasonata all'estero.
Questa notizia mi porta a ricordare una battaglia condotta insieme all'amico Alessandro Starrabba della Cantina Malacari contro i decreti ministeriali che fin dal 2001 hanno delegato ai Consorzi di Tutela i poteri di controllo sulle denominazioni di origine. Estendendo tali poteri "erga omnes", ovvero sia nei confronti degli associati al Consorzio sia dei non associati. (Ricordo che per effettuare tali controlli viene anche richiesta la consueta italiana gabella che, ovviamente, non è sostitutiva di quanto già dovuto alle Camere di Commercio per i prelievi destinati alle commissioni di degustazione, bensì aggiuntiva).
Con Alessandro ed altri produttori marchigiani denunciammo al TAR del Lazio quello che a noi sembrava e tuttora sembra un sistema assurdo, ovviamente perdendo la causa perché questo è un paese civile e liberale... Quanto accade a Montalcino in questi giorni, e che potrebbe accadere ovunque e per qualunque denominazione (si pensi alla analoga questione che riguarda la Frascobaldi ), dimostra invece che avevamo ragione.
Le denominazioni di origine sono un bene comune. Esse sono infatti l'insieme di un territorio, dei vitigni autorizzati ad essere coltivati sul quel territorio per produrre il vino a denominazione e di regole che i produttori si sono date in base alla tradizione. Affidare il controllo a un ente privato, quale un Consorzio di tutela, altro non significa se non privatizzare un bene collettivo. Questa dinamica è rafforzata dal fatto che nei Consorzi i voti non sono tutti uguali: il grande produttore pesa di più, poiché i voti vanno di pari passo con gli ettari rivendicati a DOC. Cioé si mette in mano la denominazione di origine ai grandi industriali.
Vi chiederete: tutto qui? No, perché molto spesso i Consorzi nominano Presidenti o Direttori enologi legati alle grosse aziende che fanno consulenze per molte delle aziende associate. Dunque affidare il Controllo sulla denominazione di origine a queste persone significa sostanzialmente far coincidere il controllore con il controllato, venendo meno ogni ipotesi di terzietà che è basilare in ogni certificazione (chi fa il biologico ne sa qualcosa...). Tutto qui? No. Perché in nome della "tracciabilità" spesso si propongono sistemi informatici per le cantine che, guarda caso, sono prodotti da aziende vicine ai consorzi stessi. Ma non voglio farla lunga.
Il risultato di questo sistema è che i grandi industriali del vino (coloro che hanno interesse a barare) controllano i piccoli vignaioli (coloro che lavorano con serietà e rispetto dell'origine); che spesso il potere di controllo si trasforma, non si sa bene perché, in potere coercitivo: moltissimi produttori hanno paura di contestare questo sistema perché temono che poi i loro vini abbiano problemi nell'ottenere le autorizzazioni all'imbottigliamento; che i consumatori non hanno sufficienti garanzie sul fatto che ciò che bevono corrisponda a quanto stampato in etichetta.
Stupirsi di fronte a quanto sta accadendo a Montalcino è da ingenui. Ciò che si dovrebbe fare non è tanto scandalizzarsi quanto muoversi per riuscire a costruire un movimento che veda uniti i produttori onesti, i consumatori, i giornalisti seri e indipendenti. Un movimento che si ponga l'obiettivo di ridare alla collettività le denominazioni di origine, di riformare questo sistema sbagliato che trova consensi bi-partisan (da Pecoraro ad Alemanno a De Castro, per intenderci), di costruire un nuovo impianto al contempo meno burocratico (autocertificazione dell'origine) e più certo (controlli severissimi sul prodotto imbottigliato). Magari ripartendo dalle intuizioni veronelliane sulle Denominazioni Comunali.

venerdì 21 marzo 2008

La degustazione perfetta

Per il secondo anno consecutivo sono stato invitato ad una serata davvero speciale. Si svolge durante la Pro-wein a casa di Ulf Nilsson, grande appassionato di vini, nonché neo enotecario nella zona di Colonia. La sua cantina è davvero una chiesa pagana dedicata alla cultura del vino. Quello che accade in questa serata è un gioco affascinante e difficile. Mangiando dell'ottimo cibo Ulf serve ai commensali una serie di vini provenienti dalla sua cantina, rigorosamente alla cieca. E da lì parte un confronto collettivo, una prolungata ricerca fatta di discussioni, illuminazioni, castronerie e calcoli che dovrebbe portare, e a volte porta, alla scoperta del vino servito nel bicchiere. Vitigno, zona, età presunta. Un incubo. O un sogno meraviglioso. A seconda della compagnia e dell'approccio alla cultura del vino. Già lo scorso anno si era tornati in albergo col ricordo di una serata indimenticabile. Ma quest'anno siamo anche oltre. Questi i vini degustati nella sequenza originale (purtroppo spesso non ho segnato i produttori):
Cremant de Loire 2000, Riesling Sekt Mosel Franz Kern 2000, Dom Perignon 1990, Riesling 2005 Maastcht Olanda, Albarino Rias Baixas 2006, Pouilly Fumé 1998, Borgogna Pinot Noir 1999, Pinot Noir Alsazia 2000, Castellao Portogallo 2005, Shiraz Australia 1992, Brunello di Montalcino Lisini 1982, Chateau Palmer Margaux 1985, Volnay 1964, Barolo Borgogno 1958.
Potrei per molti di questi vini azzardare una descrizione ma mi pare noioso e superfluo. Quello che posso dire è che al ritorno, ore 4 della mattina, c'era in noi davvero la sensazione di avere aperto bottiglie indimenticabili e uniche. Per la cronaca, a fronte di grossi problemi col vino olandese, con i portoghesi, col Brunello e con il Pinot nero alsaziano, devo dire che mi sono mosso abbastanza bene, nonostante un fastidioso raffredore, arrivando spesso nei dintorni del vino giusto e, soprattutto azzeccando i tre vini che costituiscono il mio podio ideale: per il Dom Perignon avevo ipotizzato uno champagne a preponderanza di Pinot Noir di dieci anni (ne aveva quasi il doppio e sembrava ancora un bambino!); per il Margaux avevo detto un grande Bordeaux della zona del Medoc con preponderanza di Cabernet Sauvignon; per il Borgogno avevo candidamente dato come risposta unica un barolo degli anni cinquanta/sessanta. Mi pare che questo denoti in modo inequivocabile una volta di più la grandezza di quei vini: tutti e tre avevano una incredibile identità territoriale, una incredibile e irripetibile unicità nel rapporto vitigno/territorio/annata. Amen.

mercoledì 19 marzo 2008

Prowein 2008

Aereo per Dusseldorf. Un grosso industriale del vino spiega la sua filosofia ad un suo simile.
"In momenti come questi è bene non avere troppi vigneti. Sono costi fissi... Invece vai in Puglia o in Abruzzo compri tutto quelle che ti serve... Sangiovese, tac! Al limite sistemi con due chips quello che non funziona, e sei a posto. Abbatti i costi". L'altro annuisce. Con buona pace dei consumatori, delle etichette e dei Consorzi di Tutela.
Sono appena rientrato dalla ProWein. Il bilancio è positivo. I vini sono piaciuti. Gli ordini arrivano. C'è grande attenzione, mi pare, per vini con una spiccata identità. E poi il Reno è meraviglioso, la birreria Urege è un pezzo di storia e la compagnia di Alessandro (Cantina Malacari) e degli altri Piccoli Produttori (Grandi Vini) è sempre molto divertente. Ovviamente ci sarebbero parecchie cose da raccontare, in particolare una memorabile serata enologica, alcuni Riesling tedeschi, un ristorante da evitare con cura. Ne parlerò con calma... La domanda stasera è un'altra. Retorica, ovviamente. Perché alla ProWein non si fanno code, si parcheggia in 30 secondi, tutto è perfettamente organizzato, i bagni sono puliti, il biglietto della fiera vale per tutti i mezzi pubblici dell'intera renania, ferrovia compresa? Forse per la stessa ragione per cui le autostrade in Germania non si pagano e sono in condizioni ottime, i giardini pubblici sono belli e curatissimi e dall'alto di un aereo non si fa altro che vedere pannelli solari sui tetti e grandi mulini a vento sparsi per la campagna? Forse per la stessa ragione per cui la gente è civile, gentile e rispettosa del "bene comune"? Considerando che fra poco invece ci toccherà ritornare a Vinitaly, che è esattamente l'opposto di tutto ciò, c'è ben poco da stare allegri. Ovviamente è solo una opinione personale perché tanto noi continuiamo a ripeterci che siamo italiani, brava gente, pizza e mandolino, creativi, e anche campioni del mondo. Dunque va bene così.

giovedì 13 marzo 2008

Dalla terra per la Terra: Contadini Critici

L’agricoltura contadina è stata, da sempre, custode dei saperi e sapori della terra. Con l’avvento della società dei consumi, imperniata sull’industria e sullo sviluppo urbano, essa è rimasta un presidio fondamentale del territorio e del gusto, l’ultimo baluardo per la salvaguardia di antichi saperi, di tradizioni eno-gastronomiche, di varietà e specie locali, di beni collettivi, di territori e paesaggi agricoli.
Questo mondo, nonostante la dilagante retorica dei "prodotti tipici", è oggi fortemente attaccato da ogni parte e paga una profonda subalternità nei confronti della società urbanizzata.
In primo luogo, infatti, vi è un esproprio di valore che la distribuzione commerciale compie quotidianamente nei confronti del lavoro agricolo, grazie a consumatori oramai sempre più addomesticati dai messaggi del marketing.
In secondo luogo vi è il tentativo dell’agro-industria di modificare i prodotti stessi della terra, attraverso l’omologazione del gusto, la selezione e modificazione delle sementi e delle specie (fino agli OGM), la rottura del legame col territorio attraverso la negazione dell’origine e la preferenza per il concetto di "ultima trasformazione sostanziale".
Infine, come ultimo atto di questo accerchiamento, l’industria e lo Stato approfittano della dissoluzione delle comunità agricole per sferrare l’attacco al territorio in termini di sfruttamento dei suoli e devastazione ambientale a fini urbanistici, industriali e speculativi.
In Europa ogni tre minuti scompare un’azienda agricola, circa 600 ogni giorno, 250.000 ogni anno. Nel nostro Paese, i dati dell’ultimo censimento ISTAT, mostrano come siano in diminuzione il numero totale delle aziende a vantaggio delle dimensioni delle aziende superstiti. Si va sempre di più verso un’agricoltura industrializzata, con pochi addetti occupati e un enorme uso di mezzi tecnici e chimici, macchinari, energia; quindi enormemente più inquinante e dissipatrice di energia della tradizionale azienda contadina.
Oggi l’agricoltura industriale non produce per nutrire le popolazioni, ma per alimentare l’industria ed il commercio connesso. Il maggior profitto dell’industria agro-alimentare avviene nel processo di trasformazione, confezionamento e commercializzazione del prodotto.
Le quotazioni all’origine della frutta sono calate, nel 2005 rispetto al 2004, del 7,9%, mentre quelle di verdure ed ortaggi del 6,8%; complessivamente i listini dei prodotti agricoli sono scesi negli ultimi dodici mesi del 4%. In una regione ad agricoltura "ricca" come l’Emilia Romagna, si è calcolato che il reddito delle aziende agricole si è dimezzato negli ultimi 5 anni, ossia diminuisce del 10% l’anno. Per ogni euro di spesa in consumi alimentari, più della metà è assorbito dalla distribuzione finale.
In questo contesto si collocano le politiche di stampo corporativo e neo-liberista sviluppate dall’Unione Europea in questi ultimi anni. La legislazione europea in fatto di PAC, leggi igienico-sanitarie, certificazioni BIO, marchi e disciplinari di qualità, ha rafforzato le dinamiche di dissoluzione dell’organizzazione sociale contadina a vantaggio delle grandi industrie agro-alimentari (si ricorda che l’80% dei sussidi comunitari è andato al solo 20% delle aziende più grandi). Questo è avvenuto con il benestare di tutte le associazioni di categoria cui è interessato semplicemente che arrivassero finanziamenti da gestire, indipendentemente da ogni ragionamento sull’agricoltura di tipo sociale, culturale, ambientale.
Il risultato di queste dinamiche è oggi sotto gli occhi di tutti: i casi della mucca pazza e di Parmalat dimostrano che non sappiamo cosa mangiamo e che cosa ci sia dietro i bilanci delle grandi aziende; DOP, IGP, Presidi, marchi di qualità servono fondamentalmente alla vorace agro-industria ad occupare ogni pur piccola nicchia di mercato; l’omologazione dei gusti imposta dal grande commercio porta all’omologazione dei modi di produrre e delle varietà utilizzate; l’industrializzazione delle campagne ha creato un legame perverso con l’industria chimica producendo una incredibile perdita di fertilità dei suoli, oltre all’inquinamento dei terreni e delle acque; la proposta di riforma dell’Organizzazione Comune di Mercato, per quanto riguarda il settore vinicolo, sostanzialmente ha l’obiettivo di ridurre il vino a mera bevanda industriale, in nome della competizione (di prezzo) sui mercati globali.
Ogni realtà contadina vive oggi sulla sua pelle le contraddizioni di legislazioni fatte su misura per l'agro-industria: HACCP, tracciabilità, controlli per le DOC, certificazioni Bio, PAC, tutto quanto si tiene insieme per coalizzare le grandi industrie, raccogliere sussidi, creare problemi di natura burocratica, fiscale e sanitaria di ogni genere. Per quanto riguarda specificatamente il mondo del vino, ad esempio, la creazione dei Consorzi di tutela con compiti di controllo erga omnes (decreti attuativi della legge 164 del 1992) è l’ultimo esempio di questa politica perversa e corporativa. Consorzi di Tutela divenuti strumenti di coercizione in mano alle lobby dell’industria vinicola.
Vi sono una serie di rivendicazioni che vengono oggi dal mondo agricolo che coinvolgono il sistema dei prezzi e della distribuzione commerciale ma che si caricano di valenze sociali e culturali molto più vaste e che devono in qualche modo farsi resistenza. Tale resistenza implica un nuovo protagonismo contadino, oggi molto più attivo nei paesi del terzo mondo che in Europa.
In questi ultimi anni alcuni semi sono stati lanciati, ad esempio dal progetto Terra e Libertà/Critical Wine, dalla Associazione Contadinicritici o dal Foro Contadino. Ma anche dalle associazioni di produttori naturali o biologici, da gruppi di contadini impegnati per un’altra agricoltura, da progetti per la costruzione di filiere corte, dai numerosi gruppi di acquisto solidale nati in questi anni. Si tratta ora di tirare le fila, di riunire le istanze e le rivendicazioni intorno a una piattaforma condivisa.
Vi sono alcuni punti irrinunciabili: l’origine; l’autocertificazione; il prezzo sorgente; i mercati contadini, intesi come immediata realizzazione della “filiera corta”.
In primo luogo bisogna affermare con forza che i prodotti agro-alimentari non sono merci come le altre. Per questo non è possibile accettare la logica delle certificazioni di qualità applicate ai prodotti industriali ma, viceversa, va invocato il principio dell’origine, cioè del legame assoluto col territorio. Questo è il solo principio valido nell’identificare un prodotto agricolo poiché ne valorizza il territorio e le genti che vi abitano e che hanno contribuito alla evoluzione di una determinata qualità/specie.
In secondo luogo va ricostruito un rapporto diretto fra produttori e consumatori, un rapporto completamente sconvolto dalla logica dei “centri commerciali”: vanno proposti e creati Mercati Contadini autonomi ed auto-gestiti, ove non vi siano spazi fissi assegnati, ma dove ad ognuno sia consentito anche saltuariamente o stagionalmente proporre le proprie produzioni. Vanno incentivate tutte le forme possibili di distribuzione diretta, come i Gruppi di Acquisto Solidali o la produzione per famiglie su prenotazione.
In terzo luogo il rapporto fra produttori e consumatori oltre che diretto deve essere trasparente. Ma nessuna certificazione è più utile e responsabile di una auto-certificazione in cui venga dichiarato come si lavora la terra, quali sono i rapporti con il lavoro ed il capitale, come vengono trasformati i prodotti. Pensiamo a una bottiglia di vino: è sottoposta a una miriade di controlli ma nessun consumatore può davvero sapere, ad oggi, che cosa sia contenuto nel vino. L’auto-certificazione implica una assunzione di responsabilità. Ed obbliga i controllori a verificare il prodotto piuttosto che a controllare le carte e a moltiplicare la burocrazia.
Infine, il prezzo sorgente. O prezzo alla fonte. Il consumatore deve poter conoscere i prezzi medi cui l’agricoltore vende i propri prodotti. Immediatamente sarebbero visibili i ricarichi e l’estrazione del plusvalore da parte della filiera distributiva nei suoi passaggi. Il prezzo sorgente non è contro il mercato. E’ per un mercato più trasparente ed equo.
Su questi punti essenziali si gioca la partita per la costruzione dell’agricoltura del futuro: una agricoltura sana, naturale, sostenibile. Praticata da contadini che presidiano il territorio, ne difendono le specificità, ne custodiscono la storia e le tradizioni. Una agricoltura opposta da quella immaginata a Bruxelles o nelle stanze dell’attuale Ministero dell’Agricoltura.

giovedì 6 marzo 2008

Varie ed eventuali

Stasera, come già detto, sarò a Pratovecchio nella tana degli orsi, sabato sera invece a Perugia presso il circolo ARCI "Island" in via Magno Magnini , angolo via Gallenga. Inizio della degustazione alle ore 20.00. Il 15 marzo partirò per Dusseldorf dove si tiene la fiera Pro-Wein. Mi sembra di essere in tourneé, come una rockstar. Peccato che non ci siano groupies assatanate in circolazione... Nel frattempo siamo passati dai 25 gradi di lunedì ai 2 gradi di ieri. La Primavera è già qui. E poi dicono che non esistono più le mezze stagioni. Sto orecchiando via internet al nuovo dei Black Crowes che è uscito il 4 marzo. Credo che prenoterò il vinile, se esiste, e poi ve lo racconterò. Nel frattempo (numero 2) le date americane sono sold-out e in Europa per ora vengono solo ad Amsterdam (guardacaso!) e a Londra. Nel frattempo (numero 3) proseguo a correre, che la maratona si avvicina, 30 marzo, indeciso fra Treviso e Montecarlo, la prima fa molto Prosecco di Valdobbiadene, la seconda - ça va sans dire - Champagne millesimato. Chissà. Nel frattempo (numero 4) vi segnalo un produttore fra quelli incontrati nel giro in borgogna: Hubert Chavy Chouet. Il Mersault 2006 è acidissimo con sentori nitidi di crema pasticcera, scorza di limone, zucchero a velo. Un vino che terrà la schiena dritta per anni e anni. Il Pommard 2006 ha un naso pulitissimo, fresco, fragrante. Sentori di fragolina di bosco e lampone conducono a un ingresso in bocca che racconta di una acidità fissa micidiale e di tannini potenti e ancora astringenti che necessiteranno di molto tempo per esprimersi al meglio. Ma c'è un grande potenziale.

venerdì 29 febbraio 2008

Giovedì 6 marzo

Giovedì prossimo sarò ospite del Ristorante "La tana degli orsi" di Pratovecchio (Arezzo) per una degustazione di vini marchigiani. Sarà per me la prima visita nel locale di Caterina e Simone che in molti mi dicono sia un luogo di riferimento del mangiare e bere bene nel casentino.
Questo è ciò che hanno scritto per pubblicizzare l'evento, meglio non saprei fare:
Giovedì 6 Marzo 2008 “La Distesa , Malacari , Collestefano …. Le Marche nel bicchiere !!!” Una serata speciale in compagnia di Alessandro Starrabba dell’azienda Malacari, Corrado Dottori de La Distesa e Fabio Marchionni di Collestefano. Un’occasione unica per fotografare in maniera precisa il quadro dell’enologia marchigiana. Il Verdicchio di Matelica di Collestefano rispecchia fedelmente la tipicità del proprio territorio con una vitalità che a noi lo ha fatto amare da subito. Il Verdicchio dei Castelli di Jesi de La Distesa è un vino che ben si identifica con Corrado, con la sua forte personalità e trasmette in maniera netta il territorio e la naturalità con cui è prodotto. Il Rosso Conero di Malacari è vino di riferimento, è da sempre nella nostra carta e Alessandro è certamente tra i vignaioli del nostro cuore, appassionato e fedele interprete della sua terra. Un appuntamento dalle mille sfumature!

Ristorante Cantineria “La Tana degli Orsi”
Via Roma 1 , Pratovecchio AR
Tel. e Fax 0575 583377 Cell. 329.8981473
E.mail tana.orsi@aruba.it

lunedì 25 febbraio 2008

Global warming e Verdicchio

Lo scorso anno ci fu un pò di polemica fra il sottoscritto e alcuni bloggers enoici, primo fra tutti Franco Ziliani di Vinoalvino. La materia del contendere era l'eccessiva gradazione alcolica dei vini, da imputare - secondo alcuni - alla ricerca di concentrazione da parte dei viticoltori, dalla volontà, cioé, di seguire una certa moda impostasi negli anni passati. Io cercai di argomentare che vi è anche questo aspetto da tenere presente ma che ben più rilevante è, a mio avviso, il vero e proprio susseguirsi di annate sempre più anormali dal punto di vista metereologico. Ovviamente mi diedero del "catastrofista" e dell'ingenuo perché, si sa, per controllare le gradazioni alcoliche basta vendemmiare in anticipo... E chissenefrega dei tannini verdi, degli squilibri nelle acidità, della mancanza di armonia. Insomma se Gli Eremi riporta sempre 14° in etichetta, anche in annate fresche come il 2002 e il 2004, sarebbe perché voglio avere un vino alla moda, concentrato e marmellatoso...
Ho fatto questa introduzione perché vorrei condividere con voi i dati, scientifici in questo caso, del Centro Operativo di Agrometereologia della Regione Marche. Questi dati dicono chiaramente che, perlomeno nelle Marche, vi è stato nell'ultimo mezzo secolo un impressionante cambio di clima. Con temperature medie estive nettamente crescenti lungo tutto il periodo 1961-2007. Non solo. Se l'ultima estate può essere considerata come la terza più calda della storia, dopo l'inarrivabile 2003 e il 1994, nelle dieci più calde ci sono 1998, 2000, 2001, 2003 e 2007. Inoltre le dieci più calde vengono tutte dopo il 1985 e le annate 2002, 2004 e 2005 considerate "fresche" risultano comunque più calde della media del periodo 1961-2007. A questo va aggiunto il quasi costante deficit idrico, per cui ad esempio nella scorsa estate, a fronte di una media storica di 60,4 mm di pioggia nei mesi di giugno, luglio e agosto, sono caduti nella nostra regione 32,2 mm cioé quasi la metà. Così si spiega anche il forte calo delle rese. Perlomeno per i viticoltori onesti. Poiché a guardare le dichiarazioni di produzione si scopre che alcuni produttori hanno prodotto la stessa quantità di uva e sempre vicino ai massimi del disciplinare. Il che può avere solo due spiegazioni: o di solito queste aziende producono molto più del disciplinare (ovviamente senza dichiararlo) oppure esistono fenomeni microclimatici tipo vigna di Fantozzi che si sposta solo su certi produttori fortunati...
Inutile dire che questi dati confermano i trends presentati da Al Gore nel suo film documentario Una scomoda verità. Un film che, pur con alcuni limiti, denuncia una situazione-limite verso la quale si sta facendo ancora troppo poco, sia da parte del mondo politico, sia da parte dei normali cittadini.
Quanto alla gradazione alcolica dei vini, è evidente che con questi dati se si vogliono produrre vini equilibrati e strutturati da uve giunte a maturazione armonica, lo scotto da pagare sarà sempre una gradazione alcolica medio-alta. Con buona pace delle mode e degli stili aziendali.

lunedì 18 febbraio 2008

Sui lieviti indigeni

Ho già scritto che il 2007 è stata la prima annata in cui l'intero processo di vinificazione di tutti i vini da me prodotti è stato condotto con metodi naturali, ovvero con basse dosi di anidride solforosa, assenza di coadiuvanti di fermentazione, di tannini, enzimi, lieviti selezionati.
E' però già la quarta vendemmia che per i vini da "invecchiamento", cioé Gli Eremi e Nocenzio, utilizzo solo lieviti indigeni. Posso, quindi, iniziare a fare un bilancio provvisorio di questa esperienza, basato su prove dirette e non sulle esperienze e raccomandazioni altrui.
Inizio col dire che quest'anno ho avuto, e ho tuttora, seri problemi di fermentazione, con vini ancora dolci e acidità volatili mediamente più elevate rispetto al solito. Se l'ultimo aspetto, preoccupante, appare come tipico di questa annata, ed è legato probabilmente ad un uso troppo limitato di solforosa nella fase iniziale di selezione dei lieviti indigeni, la difficoltà nel portare a termine le fermentazioni non sono una novità per il vino bianco (situazione differente rispetto alle vinificazioni in rosso, sia di uve bianche che di uve rosse). Mai, però, era accaduto di avere a febbraio un residuo zuccherino come quello di quest'anno.
Una spiegazione plausibile è, a mio avviso, lo stress sopportato dalle piante durante le due ondate di caldo africano con temperature fino a 40° e mancanza di acqua. E' probabile che sia la flora batterica sia la carica di azoto in grado di nutrire i lieviti siano state in qualche modo stressate da una situazione simile. Ma è ovviamente solo una sensazione.
La domanda è: qual è la ragione per l'utilizzo di lieviti indigeni, posto che a livello di salute per il consumatore l'inoculo di lieviti selezionati è assolutamente senza problemi? Genericamente si sostiene che i lieviti indigeni esprimano meglio il terroir. Questa interpretazione è controversa. I sostenitori della moderna tecnica enologica sostengono che non è dimostrabile che le fermentazioni avvengano naturalmente grazie a lieviti propri della vigna, ma che avvengano invece in seguito ad una serie di contaminazioni microbiche pre-esistenti (nell'aria, in cantina, negli attrezzi, nelle botti, ecc.).
Gli studi di Jules Chauvet, grande enologo francese padre della viticoltura naturale, chiariscono come i lieviti indigeni, purché ben selezionati e gestiti, esprimano davvero qualcosa in più. In particolare, sostiene Chauvet, mentre la scelta dei lieviti non incide sul "carattere fondamentale del vino", cha nasce dall'interazione fra vitigno, suolo e condizioni meteo, essa risulta importante nella modulazione di "tonalità differenti", cioé di armonie e timbri che ampliano la qualità di un vino. Si potrebbe dire, cioé, che i diversi lieviti incidano nella creazione di una maggiore complessità.
Se, quindi, seguendo Chauvet, si può affermare che l'espressione del terroir non dipende direttamente dai lieviti indigeni, i quali semmai danno qualcosa in più alla complessità di un vino, dovrebbe apparire evidente come il loro uso ha senso nel momento in cui tale qualità aggiuntiva non viene compromessa da problematiche come l'acidità volatile alta o forme di inquinamenti batterici. I quali, giocoforza, deviano il vino dalle caratteristiche fondamentali tipiche dell'origine.
Applicando questo ragionamento alle mie esperienze, ciò significherebbe utilizzare i lieviti indigeni sempre e comunque sui vini macerati (bianchi e rossi); mentre solo nelle annate migliori per quanto concerne i bianchi a pressatura soffice, e solo dopo una accurata gestione del pied de cuveè con dosi adeguate di solforosa.
Questo approccio è certamente molto poco integralista, rispetto al mondo del vino naturale, ma certamente più coerente rispetto all'obiettivo di fare vini che esprimano al meglio il suolo e l'annata, senza distorsioni. Che siano esse correzioni di cantina o difetti più o meno evidenti.
Sono riflessioni da tenere ben presenti, soprattutto considerando come molti studi dimostrino che vi siano differenze notevoli, dipendenti da clima e geografie, nello sviluppo, nella diffusione e nella selezione della flora batterica (si pensi solo alla varianza dei pH) e che, quindi, ogni vignaiolo dovrebbe muoversi in base alle proprie esperienze e problematiche e non secondo rigidi dettami ideologici.

lunedì 11 febbraio 2008

American movies

Due grandi film americani: al cinema ho visto Into the wild di Sean Penn; in DVD, invece, Reign over me di Mike Binder.
Il primo, forse fin troppo osannato da certa critica, è un film di immagini e visioni, con una fotografia meravigliosa. E' un film forse difficile da capire per chi non conosce o non ama l'america, i miti della frontiera, della libertà assoluta, del grande Nord, di un "West" interiore prima ancora che geografico. E' un film estremo, come la storia del protagonista, lungo, difficile per certi versi. Con una colonna sonora esaltante a firma Eddie Vedder. Un film in cui libertà si declina come solitudine e rifiuto della società, con una serie notevole di riferimenti letterari (Thoureau e London, su tutti), musicali (tutto il rock americano), cinematografici (in qualche modo Easy rider, Il mucchio selvaggio, Balla coi lupi).
Il secondo è un film basato, invece, sulla sceneggiatura e gli attori. Un grande Adam Sandler nel ruolo di un vedovo dell'11 settembre incapace di metabolizzare il dolore. Un ottimo Don Cheadle nel ruolo dell'amico, a sua volta in crisi. Un cameo pazzesco di Donald Sutherland. Il tutto a servizio di una storia coerente e bella che si svolge attraverso dialoghi riusciti e toccanti sullo sfondo di una New York affascinante e reale. Cigliegina sulla torta la musica: unico rifugio del protagonista per sfuggire al dolore della perdita, il film è segnato dal rock più classico, come il titolo stesso, un pezzo degli Who, lasciava presagire. Stupenda la scena dei due amici che jammano su Out in the street di Springsteen, così come la scena madre del racconto catartico della perdita che si dissolve in modo straziante su Drive all night, sempre da The River, che appare quasi riferimento epico e generazionale dell'America di oggi.

mercoledì 6 febbraio 2008

Austria, Italia e altre cosette.

Appena tornato da una breve vacanza in Austria, sul lago di Ossiach. Nonostante il cattivo tempo abbiamo apprezzato la Carinzia, i suoi paesaggi boschivi, i suoi laghi, le sue montagne. Nulla in confronto alle nostre bellezze italiche. Ma i sentieri nei boschi sono segnalati in modo incredibile, vi sono piste ciclabili ovunque, alberghi e attrattive turistiche sono a misura di bambino, pulizia e ordine regnano sovrane, il servizio è ovunque gentile, il rispetto per l'ambiente pare sacro. Insomma il turista, a differenza che da noi, ritrova un territorio integro e ben organizzato. Che non è poco. Un unico appunto: si fuma ovunque nei locali pubblici, ed è l'unico esempio di superiore civiltà italiana. Addirittura, nonostante fosse consentito, alcuni italiani sono usciti dall'albergo per fumare. Mi sono sentito orgoglioso.
Degustato un ottimo Gruner Veltliner Holzgasse 2006 dell'azienda Buchegger: al naso, su fondo nettamente minerale, spiccate note di lievito e crosta di pane e finissime sensazioni agrumate (cedro, lime) e di fiori bianchi; in bocca molto sapido, freschissimo, con esaltante acidità di mela verde e chiusura tostata di nocciola, di lunga persistenza.
Nel frattempo, fra saune, corse nei boschi e cambi di pannolini, ho letto un libro stupendo. Senior Service di Carlo Feltrinelli è la biografia del padre Giangiacomo, l'editore. E' una biografia approfondita, basata su ricerche d'archivio e ricostruzioni storiche, poiché Carlo aveva solo dieci anni quando il padre morì, nel 1972, ucciso dalla sua folle lotta per un mondo più giusto. Il fatto è che Giangiacomo Feltrinelli ha vissuto una vita tale e in un periodo tale della storia d'Italia che il libro risulta avvicente, profondo, carico di suggestioni. Specie nella parte che va dal primo dopoguerra ai primi anni sessanta emerge il ritratto di un paese dalla incredibile vivacità intellettuale e culturale. Di una politica fatta di grandi scontri ideologici ma anche di splendide storie quotidiane. Che stride fortemente con la realtà attuale, lasciando quello stesso amaro in bocca, per ciò che siamo stati e che non siamo più, che mi aveva lasciato un altro bellissimo libro, in qualche modo parallelo a questo, ovvero La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda.
Consoliamoci con l'Italia del pallone. Adoravo Donadoni da giocatore. Ma devo ammettere che non pensavo sarebbe riuscito a creare una Nazionale così bella da vedere, che gioca a memoria e non ha paura di attaccare. Piena finalmente di giovani che hanno una voglia pazza di spaccare le zolle del campo e non di vecchie glorie stanche pronte alla pensione. Mi aspetto un ottimo europeo in Svizzera e... Austria.

lunedì 28 gennaio 2008

Ci sono giorni...

...In cui tutto è semplicemente perfetto. La luce nitida del sole che sfiora le colline, l'aria fredda dell'inverno che ti spazza il viso, i vigneti addormentati in attesa della potatura. Allora ti senti leggero, ogni movimento pare lieve, e ti abbandoni alla potenza cristallina della natura. Conscio che fai il mestiere più bello del mondo, mentre poti quelle viti dormienti che fra un pò piangeranno e poi cacceranno tralci nuovi destinati a creare un nuovo frutto, un nuovo mosto, un nuovo vino. Un nuovo, diverso, complesso racconto di questa terra. Ogni potatura è un inizio, una nascita, una creazione.

sabato 26 gennaio 2008

Bye bye Prodi.

Sentimenti molto contrastanti si alternano dopo la caduta del governo Prodi. Chi mi conosce sa che non sono mai stato un sostenitore dell’ex Presidente del Consiglio, così come non sono mai stato un sostenitore de L’Ulivo o delle varie formule di Centrosinistra succedutesi in questi ultimi anni. Al tempo stesso, però, ero e sono convinto che questo fosse il miglior governo possibile in questo momento della nostra storia nazionale e che, in particolare, il ministro dell’economia fosse un ottimo tecnico. Non a caso era il ministro con la popolarità più bassa, secondo i sondaggi, a dimostrazione della scarsa consuetudine degli italiani con la buona economia politica.
E pure, nonostante alcune cose positive questo esecutivo le abbia fatte, la delusione per quello che non è riuscito a fare tende a dominare sopra ogni altra emozione. Non basta, quindi, la prospettiva di un ritorno della destra peggiore d’Europa al potere a smorzare le pessime sensazioni accumulatesi dopo mesi di riti, contrasti, compromessi, rinvii e omissioni, a cominciare dalla legge sul conflitto d’interessi e da quella sulle coppie di fatto.
Molte sono le ragioni della crisi che ha portato alla fine del secondo governo Prodi. Di fatto, è stato giustamente detto e ripetuto, il governo era già in crisi nella notte della vittoria. Di fatto, era apparso già in crisi durante la campagna elettorale, gettando al vento più di dieci punti di vantaggio sul centro-destra e tutto il dividendo incassato grazie a una fin troppo facile opposizione al tremendo governo Berlusconi.
La lezione da trarre da questa crisi, dunque, deve partire dalla analisi e dalla critica di un fatto che pareva, ai più, acquisito: che il centrosinistra, inteso nell’originaria formulazione di Ulivo, cioè l’unione di differenti culture politiche riformiste, cattoliche, laiche, socialiste, ambientaliste, fosse l’unico orizzonte possibile per la sinistra italiana. Quasi quindici anni dopo questa certezza viene meno in modo definitivo. Se nel 1998, infatti, fu parte della cosiddetta sinistra radicale a negare il sostegno esterno all’esecutivo Prodi, oggi sono quella parte dei “moderati” ingabbiati a forza in una coalizione di cui non condividevano fin dall’inizio valori e prospettive.
Ma non è solo questo. La formula del centrosinistra si conferma sempre più in crisi anche in quelle amministrazioni locali dove da molti anni governano, spesso in modo ininterrotto, giunte che vanno da Rifondazione sino all’Udeur. A parte il disastro clamoroso di Napoli e della Campania, arretramenti in fatto di voti e consenso, di cultura politica e di capacità di gestione del territorio avvengono dappertutto, dal nord, abbandonato da tempo completamente ai deliri della Lega e di Berlusconi, fino alle regioni rosse sempre più gestite secondo logiche di tipo corporativo, pseudo-clientelare, partitocratico.
La crisi, la degenerazione, la parabola discendente di questa idea di centrosinistra è legata da una parte alla incapacità di affrontare in modo innovativo le grandi sfide poste dalla globalizzazione e dall’era post-industriale; dall’altra da una lettura in qualche modo alterata della società italiana, per cui Berlusconi è stato elevato a unico “mostro”, da cui la forzata e per nulla scontata logica che di fronte al berlusconismo si dovesse necessariamente mettere insieme culture e pratiche molto differenti tra loro pur di impedirgli il governo; infine dal pensiero distorto, ma tipico di una certa sinistra leninista, che per cambiare le cose l’unica via sia “la presa del potere”, la possibilità di amministrare, di governare, nonostante tutto e nonostante tutti. Anche con Mastella e Dini, che furono ministri di Berlusconi, e che non hanno dubitato un secondo a far cadere un governo pur di salvare il salvabile, cioè qualche misera percentuale di voti che sarebbe stata spazzata via dal referendum o da una legge elettorale un po’ più seria di quella attuale. Con il mandato ben visibile delle gerarchie ecclesiastiche.
La costruzione de L’Ulivo, a suo tempo affascinante ed innovativa, così come quella del Partito Democratico hanno costretto la politica italiana in un bipolarismo distorto, inefficiente e spesso trasformista, con una operazione che, nel nome di generici e poco reali riferimenti a modernità e riformismo (rispetto a chi e a che cosa?), ha di fatto sottovalutato in modo clamoroso storia e stratificazione sociale di un paese che non è mai stato normale: a causa dell’importanza abnorme della Chiesa nel discorso politico, dell’esistenza di fortissime pressioni corporative, di una cultura economica largamente deficitaria, della contemporanea esistenza di spinte anti-stataliste e fortemente assistenzialiste, della presenza di una destra ben poco liberista e di una sinistra ben poco libertaria.
Soluzioni a questo punto del percorso ve ne sono poche a sinistra.
Non poteva essere, e non potrà essere, la legge elettorale a cambiare in un colpo l’antropologia dell’italiano medio, a spezzare i circoli viziosi creatisi durante tutti questi anni in cui le diverse anime della casta si sono confrontate col solo fine della propria sopravvivenza, garantendo libero sfogo di volta in volta alle proprie rispettive bande di furbetti, redditieri, imprenditori statalisti, finanzieri occulti, mafiosi camuffati, finti giornalisti, baroni, primari, nani, ballerine e subrettine.
Non lo può essere la società civile, malata almeno quanto lo Stato, caduta nelle bassezze di un qualunquismo e di un populismo che troppo spesso offuscano la ragione, e troppo frequentemente portata ad auto-assolversi a priori, quasi fosse per definizione un esempio di moralità pubblica. Quando è proprio una parte maggioritaria della società civile a vivere di raccomandazioni, evadere le tasse, implorare il potente di turno, assentarsi dal lavoro pubblico, consumare risorse e merci in modo inutile e dannoso, svalutare i beni comuni e l’ambiente.
Non lo potrà essere il Partito Democratico, così come è nato. Che anzi potrebbe costituire uno dei freni maggiori alla inevitabile dissoluzione del centrosinistra. Mentre ciò che servirebbe è proprio la certificazione della sua morte, in nome di una comprovata incomunicabilità di vedute, valori, politiche.
Fino a quando non si riconoscerà che in questo paese vivono almeno tre differenti culture politiche inconciliabili, quella socialista e comunista, quella di un onnivoro centro democristiano, e quella di una destra poco liberale e molto populista; fino a quando non si porrà al centro della questione politica, in modo trasversale, quella che Berlinguer aveva definito “la questione morale”; fino a quando ciascun cittadino di buona volontà non si impegnerà in prima persona, nell’ambito della propria cultura di riferimento, per innovare fortemente le classi dirigenti di questo paese; fino a quel giorno questo paese non avrà alcuna possibilità di eludere un declino lento ma inevitabile.
A sinistra tutto ciò significa porre, accanto alla questione morale, la questione della rottura con il centro, con i compromessi ad ogni costo, in nome del potere, con la paura dell’opposizione e del conflitto sociale, con l’attrattiva verso modelli di sinistra anglosassone che non appartengono alla storia di questo paese e, più in generale, alla storia delle sinistre europee. Ma significa anche rivisitare criticamente quella stessa storia, rompendo quel recinto ideologico nella quale una parte di essa pare ancora essere reclusa. Ricominciare a pensare, a sperimentare, a inseguire utopie, a negare dogmi e certezze, con l’assoluta convinzione che nulla sarà mai più come prima e che si deve navigare verso lidi nuovi, verso una nuova idea di sinistra e di socialismo che non sia, però, la rincorsa ai modelli liberisti del centro-destra. Tutto ciò può significare restare all’opposizione forse per molto tempo. Ma significa anche iniziare un viaggio per ritrovare se stessi, per ricostruire rapporti e relazioni sociali, per investire sul futuro, per lavorare dentro alle sempre più numerose contraddizioni del modello di sviluppo dominante. Concentrandosi non sulla crescita della ricchezza, né sulla sua redistribuzione, ma sul problema delle modalità della sua produzione e del suo consumo. Le ricerche, le teorie, i movimenti, gli intellettuali non mancano. Quello che serve è una nuova agenda che, assieme a protagonisti nuovi, riesca a costruire un percorso lucido, innovativo e coerente da proporre ai cittadini.

lunedì 14 gennaio 2008

Chablis, mon amour...

Aveva ragione Mario Soldati, quando paragonava i migliori Verdicchio ai vini di Chablis. Che eresia, sembrerebbe. E invece... Invece arriviamo in questo splendido paesino dove ogni cosa è al posto giusto, come in equilibrio con la propria storia, e dopo pochi assaggi capiamo che è proprio così. Che c'è una sorta di corrispondenza strana, nascosta, elettiva, un'affinità con certe sensazioni a me, a noi, famigliari. Una affinità fatta di acidità corrosive, troppo spesso dimenticate nei Verdicchio di nuova concezione; fatta di sale e minerale, di evoluzioni terrose, complesse, esaltanti.
Si parte con una cantina sociale che sarebbe un sogno dalle nostre parti, La chablisienne. Con vini puliti, dritti, fini, segnati da una tostatura che non è mai legno ma lievito, crosta di pane, mandorla e nocciola. Come il Prelude 2002 o La Sereine 2005. E poi il buonissimo Vielles Vignes 2002, finissimo, balsamico, quasi mentolato, dove la tostatura ha le note della nocciola (100% acciaio) e l'acidità conduce la bocca verso lidi di freschezza nordica. E ancora il premier cru Beauroy 2005, dove prevale la noce, dove la finezza prende le forme del fieno, e in bocca si allarga una cremosità non stancante. Poi, a salire, il premier cru L'homme mort 2005, decisamente una grande annata, da botte grande, fine, minerale, con accenni di agrume, nuovamente eleganti note balsamiche, sentori di mela cotogna. Etereo in bocca, leggero, equilibrato nella sua verticalità. Buonissimo. Note più dolenti per quanto concerne i vini più importanti, forse semplicemente ancora chiusi, scontrosi, adolescenti. Non ci è piaciuto il Grand crus Blanchot 2004 e nemmeno ci ha entusiasmato il Grand crus Grenouilles 2005, mentre il Grand crus Preuses 2001 si è aperto per noi su note di miele, mandorla, cedro, con una notevole tostatura, stavolta di legno, ma mai banale, e una acidità corrosiva e viva.
Assaggiamo e più assaggiamo più rafforziamo la nostra idea che Chablis sia un luogo dove lo Chardonnay è solo uno strumento al servizio del terroir, perché quasi mai sentiamo banane o ananassi o cocchi o vaniglie. Pochissimo si usa la barrique, a differenza della Cote d'or. Persino in aziende dall'impostazione "internazionale" come Albert Bichot, maison di media grandezza, con diverse cantine a coprire più denominazioni. Qui i vini base hanno un buonissimo rapporto qualità prezzo e una pulizia di esecuzione splendida e finissimi sentori floreali, di frutta fresca, di pera (il Petit chablis). Poi si fa sul serio, anche in fatto di prezzi. Col premier cru Vaucopin 2005 (10% di legno) ricco di sensazioni di erbe, fiori bianchi e pietra, con un ingresso in bocca morbido che si distende su una ottima e malica acidità per chiudersi su note di mandorla. Di nuovo lo spettro del Verdicchio. E si continua col Grand cru Le clos 2002: finezza allo stato liquido, fatta di cedro, fiori bianchi, pietra focaia. Gelsomino. Finissimo al naso, secco, asciutto, in bocca col classico finale tostato e una generale sensazione di ricchezza e cremosità e morbidezza dopo la deglutizione. Un grande. Infine il Grand cru Preuses 2002, dove predominano sentori più terziari, una evoluzione stupenda di terra umida, champignon, zolfo, muschio e cespugli aromatici. In bocca equilibratissimo, lungo, interminabile, con una tostatura da pane abbrustolito a prevalere sulla freschezza. Poco dopo ci attende il Domaine Oudin, vera sorpresa delle nostre degustazioni. Vignaiolo di razza, Oudin ha una cantina piccola ma pulitissima e che non manca di nulla. Vinifica solo in acciaio e ha i tratti del terroirista. Il suo Chablis 2006 sorprende immediatamente per note di idrocarburo, pesca bianca, mela acerba. Una acidità portentosa è bilanciata da una cremosità mirabile che ne fanno un esempio di stile e finezza. Al prezzo di 8 euro. Lo Chablis Le serres 2005, che è una cuveé rimasta sui lieviti un anno in più, appare all'inizio ridotto ma si apre immediatamente su note eleganti di cedro, limone, mela cotogna. E' minerale, lascia una bocca pulitissima. E' fragrante, lunghissimo nella ormai consueta chiusura tostata di mandorla e noce. Un bianco semplicemente superbo. Infine il premier cru Vaugirot 2004: un vino difficile, davvero chiuso, complesso. Sapidissimo, dritto, senza cedimenti morbidi, presenta note di funghi, tartufo, formaggio salato. Poi l'agrume, ma più scorze che frutto, e soprattutto limone.
Ed alla fine, che dire? Poche pippe, qui non si macera, non si copre di legni, non si fanno tagli strani. E ce ne andiamo di sera, in mezzo a un tramonto freddissimo, con la netta sensazione che Chablis sia davvero una delle Università del vino bianco.

lunedì 7 gennaio 2008

Il nuovo nato

Nur, che significa Luce in arabo ed è il secondo nome di mio figlio Giacomo, è ufficialmente in vendita. Alcuni amici e clienti già lo hanno assaggiato in anteprima a Vini di Vignaioli e a La Terra Trema e devo dire che i responsi sono stati lusinghieri.
Le uve provengono dalla sola vigna di contrada San Michele, la stessa de Gli Eremi. La vigna è condotta secondo il sistema guyot, con potatura corta e diradamento dei grappoli sino ad ottenere una resa per ettaro di circa 30 quintali (circa 25 Hl). La coltivazione secondo un rigido metodo biologico garantisce la massima espressione del terroir. Il vino verrà prodotto solo nelle annate in cui l'uva risulterà perfetta, soprattutto con riferimento alla buccia e alla maturazione fenolica. In questo senso il 2006 è stata la migliore annata che io ricordi nell'area dei Castelli di Jesi da quando ho iniziato a fare questo mestiere. Il vino proviene da una selezione di uve Trebbiano dorato, Malvasia toscana e Verdicchio vendemmiate in cassette in leggera surmaturazione. Il mosto fermenta insieme alle bucce in tini aperti, senza controllo di temperatura e con i propri lieviti, per circa una settimana. Dopo la svinatura la fermentazione termina in botti usate di rovere francese di piccola caratura per circa un anno. La vinificazione “in rosso” e la lunga permanenza sui lieviti apporta sentori evoluti di erbe, liquirizia, rabarbaro, sottobosco, funghi, miele. In bocca risulta morbido, caldo, con una sottile vena di tannino. La potenza alcolica viene equilibrata da una discreta acidità. Il prezzo sorgente sarà di 9 euro.

domenica 6 gennaio 2008

Obama e altro

L'Iowa, si sa, non conta granché. Ma un primo passo è stato compiuto. Credo che nessuno nel gruppo di Barack si faccia illusioni. Obama è un politico pragmatico e accorto, nonostante la giovane età, e sa che la strada è molto lunga, piena di insidie, e che la Storia non gioca certo a suo favore. Ma l'audacia della speranza può molto, per dirla col suo libro. E l'eventuale vittoria di Barack Obama alle primarie democratiche (non oso immaginare di più), sebbene ardua, è la cosa migliore che ciascuno di noi dovrebbe augurarsi per il 2008.
Poi vengo a sapere che Fabio Volo è lo scrittore più letto d'Italia. E che vuole un figlio, pur restando single. Ora, chi mi conosce sa che non sono propriamente un difensore della famiglia-borghese-cattolica. Ma che si possa volere un figlio restando single la trovo una delle affermazioni più schifosamente egoiste e irresponsabili che mi sia capitato di recente di ascoltare. Perlomeno la convivenza, cazzo. E chi ha un figlio sa di cosa sto parlando. Oltretutto mi sono volutamente fatto del male leggendo Un posto nel mondo, edito da Mondadori e acquistato senza farmi vedere in un Autogrill (con che faccia sarei andato dal mio libraio, infatti, a chiedere Fabio Volo?). Ora, il libro in sé io ci ho provato a trovarci dei pregi. Qualche bella frasetta, qua e là, c'é. Di quelle che strizzano l'occhio alle ragazzine. Ma è il libro di uno che è dieci anni che gli hanno detto di rappresentare la nostra generazione (quella nata negli anni settanta) e che non smette un attimo di provarci a farlo. Il fatto è che a me non mi rappresenta per un cazzo. E nemmeno a tutti i trentenni-sulla-via-dei-quaranta che conosco. E' un libro inutile e insipido. E pure è lo scrittore più letto d'Italia. Grazie Mondadori. Grazie Autogrill.