lunedì 28 gennaio 2008

Ci sono giorni...

...In cui tutto è semplicemente perfetto. La luce nitida del sole che sfiora le colline, l'aria fredda dell'inverno che ti spazza il viso, i vigneti addormentati in attesa della potatura. Allora ti senti leggero, ogni movimento pare lieve, e ti abbandoni alla potenza cristallina della natura. Conscio che fai il mestiere più bello del mondo, mentre poti quelle viti dormienti che fra un pò piangeranno e poi cacceranno tralci nuovi destinati a creare un nuovo frutto, un nuovo mosto, un nuovo vino. Un nuovo, diverso, complesso racconto di questa terra. Ogni potatura è un inizio, una nascita, una creazione.

sabato 26 gennaio 2008

Bye bye Prodi.

Sentimenti molto contrastanti si alternano dopo la caduta del governo Prodi. Chi mi conosce sa che non sono mai stato un sostenitore dell’ex Presidente del Consiglio, così come non sono mai stato un sostenitore de L’Ulivo o delle varie formule di Centrosinistra succedutesi in questi ultimi anni. Al tempo stesso, però, ero e sono convinto che questo fosse il miglior governo possibile in questo momento della nostra storia nazionale e che, in particolare, il ministro dell’economia fosse un ottimo tecnico. Non a caso era il ministro con la popolarità più bassa, secondo i sondaggi, a dimostrazione della scarsa consuetudine degli italiani con la buona economia politica.
E pure, nonostante alcune cose positive questo esecutivo le abbia fatte, la delusione per quello che non è riuscito a fare tende a dominare sopra ogni altra emozione. Non basta, quindi, la prospettiva di un ritorno della destra peggiore d’Europa al potere a smorzare le pessime sensazioni accumulatesi dopo mesi di riti, contrasti, compromessi, rinvii e omissioni, a cominciare dalla legge sul conflitto d’interessi e da quella sulle coppie di fatto.
Molte sono le ragioni della crisi che ha portato alla fine del secondo governo Prodi. Di fatto, è stato giustamente detto e ripetuto, il governo era già in crisi nella notte della vittoria. Di fatto, era apparso già in crisi durante la campagna elettorale, gettando al vento più di dieci punti di vantaggio sul centro-destra e tutto il dividendo incassato grazie a una fin troppo facile opposizione al tremendo governo Berlusconi.
La lezione da trarre da questa crisi, dunque, deve partire dalla analisi e dalla critica di un fatto che pareva, ai più, acquisito: che il centrosinistra, inteso nell’originaria formulazione di Ulivo, cioè l’unione di differenti culture politiche riformiste, cattoliche, laiche, socialiste, ambientaliste, fosse l’unico orizzonte possibile per la sinistra italiana. Quasi quindici anni dopo questa certezza viene meno in modo definitivo. Se nel 1998, infatti, fu parte della cosiddetta sinistra radicale a negare il sostegno esterno all’esecutivo Prodi, oggi sono quella parte dei “moderati” ingabbiati a forza in una coalizione di cui non condividevano fin dall’inizio valori e prospettive.
Ma non è solo questo. La formula del centrosinistra si conferma sempre più in crisi anche in quelle amministrazioni locali dove da molti anni governano, spesso in modo ininterrotto, giunte che vanno da Rifondazione sino all’Udeur. A parte il disastro clamoroso di Napoli e della Campania, arretramenti in fatto di voti e consenso, di cultura politica e di capacità di gestione del territorio avvengono dappertutto, dal nord, abbandonato da tempo completamente ai deliri della Lega e di Berlusconi, fino alle regioni rosse sempre più gestite secondo logiche di tipo corporativo, pseudo-clientelare, partitocratico.
La crisi, la degenerazione, la parabola discendente di questa idea di centrosinistra è legata da una parte alla incapacità di affrontare in modo innovativo le grandi sfide poste dalla globalizzazione e dall’era post-industriale; dall’altra da una lettura in qualche modo alterata della società italiana, per cui Berlusconi è stato elevato a unico “mostro”, da cui la forzata e per nulla scontata logica che di fronte al berlusconismo si dovesse necessariamente mettere insieme culture e pratiche molto differenti tra loro pur di impedirgli il governo; infine dal pensiero distorto, ma tipico di una certa sinistra leninista, che per cambiare le cose l’unica via sia “la presa del potere”, la possibilità di amministrare, di governare, nonostante tutto e nonostante tutti. Anche con Mastella e Dini, che furono ministri di Berlusconi, e che non hanno dubitato un secondo a far cadere un governo pur di salvare il salvabile, cioè qualche misera percentuale di voti che sarebbe stata spazzata via dal referendum o da una legge elettorale un po’ più seria di quella attuale. Con il mandato ben visibile delle gerarchie ecclesiastiche.
La costruzione de L’Ulivo, a suo tempo affascinante ed innovativa, così come quella del Partito Democratico hanno costretto la politica italiana in un bipolarismo distorto, inefficiente e spesso trasformista, con una operazione che, nel nome di generici e poco reali riferimenti a modernità e riformismo (rispetto a chi e a che cosa?), ha di fatto sottovalutato in modo clamoroso storia e stratificazione sociale di un paese che non è mai stato normale: a causa dell’importanza abnorme della Chiesa nel discorso politico, dell’esistenza di fortissime pressioni corporative, di una cultura economica largamente deficitaria, della contemporanea esistenza di spinte anti-stataliste e fortemente assistenzialiste, della presenza di una destra ben poco liberista e di una sinistra ben poco libertaria.
Soluzioni a questo punto del percorso ve ne sono poche a sinistra.
Non poteva essere, e non potrà essere, la legge elettorale a cambiare in un colpo l’antropologia dell’italiano medio, a spezzare i circoli viziosi creatisi durante tutti questi anni in cui le diverse anime della casta si sono confrontate col solo fine della propria sopravvivenza, garantendo libero sfogo di volta in volta alle proprie rispettive bande di furbetti, redditieri, imprenditori statalisti, finanzieri occulti, mafiosi camuffati, finti giornalisti, baroni, primari, nani, ballerine e subrettine.
Non lo può essere la società civile, malata almeno quanto lo Stato, caduta nelle bassezze di un qualunquismo e di un populismo che troppo spesso offuscano la ragione, e troppo frequentemente portata ad auto-assolversi a priori, quasi fosse per definizione un esempio di moralità pubblica. Quando è proprio una parte maggioritaria della società civile a vivere di raccomandazioni, evadere le tasse, implorare il potente di turno, assentarsi dal lavoro pubblico, consumare risorse e merci in modo inutile e dannoso, svalutare i beni comuni e l’ambiente.
Non lo potrà essere il Partito Democratico, così come è nato. Che anzi potrebbe costituire uno dei freni maggiori alla inevitabile dissoluzione del centrosinistra. Mentre ciò che servirebbe è proprio la certificazione della sua morte, in nome di una comprovata incomunicabilità di vedute, valori, politiche.
Fino a quando non si riconoscerà che in questo paese vivono almeno tre differenti culture politiche inconciliabili, quella socialista e comunista, quella di un onnivoro centro democristiano, e quella di una destra poco liberale e molto populista; fino a quando non si porrà al centro della questione politica, in modo trasversale, quella che Berlinguer aveva definito “la questione morale”; fino a quando ciascun cittadino di buona volontà non si impegnerà in prima persona, nell’ambito della propria cultura di riferimento, per innovare fortemente le classi dirigenti di questo paese; fino a quel giorno questo paese non avrà alcuna possibilità di eludere un declino lento ma inevitabile.
A sinistra tutto ciò significa porre, accanto alla questione morale, la questione della rottura con il centro, con i compromessi ad ogni costo, in nome del potere, con la paura dell’opposizione e del conflitto sociale, con l’attrattiva verso modelli di sinistra anglosassone che non appartengono alla storia di questo paese e, più in generale, alla storia delle sinistre europee. Ma significa anche rivisitare criticamente quella stessa storia, rompendo quel recinto ideologico nella quale una parte di essa pare ancora essere reclusa. Ricominciare a pensare, a sperimentare, a inseguire utopie, a negare dogmi e certezze, con l’assoluta convinzione che nulla sarà mai più come prima e che si deve navigare verso lidi nuovi, verso una nuova idea di sinistra e di socialismo che non sia, però, la rincorsa ai modelli liberisti del centro-destra. Tutto ciò può significare restare all’opposizione forse per molto tempo. Ma significa anche iniziare un viaggio per ritrovare se stessi, per ricostruire rapporti e relazioni sociali, per investire sul futuro, per lavorare dentro alle sempre più numerose contraddizioni del modello di sviluppo dominante. Concentrandosi non sulla crescita della ricchezza, né sulla sua redistribuzione, ma sul problema delle modalità della sua produzione e del suo consumo. Le ricerche, le teorie, i movimenti, gli intellettuali non mancano. Quello che serve è una nuova agenda che, assieme a protagonisti nuovi, riesca a costruire un percorso lucido, innovativo e coerente da proporre ai cittadini.

lunedì 14 gennaio 2008

Chablis, mon amour...

Aveva ragione Mario Soldati, quando paragonava i migliori Verdicchio ai vini di Chablis. Che eresia, sembrerebbe. E invece... Invece arriviamo in questo splendido paesino dove ogni cosa è al posto giusto, come in equilibrio con la propria storia, e dopo pochi assaggi capiamo che è proprio così. Che c'è una sorta di corrispondenza strana, nascosta, elettiva, un'affinità con certe sensazioni a me, a noi, famigliari. Una affinità fatta di acidità corrosive, troppo spesso dimenticate nei Verdicchio di nuova concezione; fatta di sale e minerale, di evoluzioni terrose, complesse, esaltanti.
Si parte con una cantina sociale che sarebbe un sogno dalle nostre parti, La chablisienne. Con vini puliti, dritti, fini, segnati da una tostatura che non è mai legno ma lievito, crosta di pane, mandorla e nocciola. Come il Prelude 2002 o La Sereine 2005. E poi il buonissimo Vielles Vignes 2002, finissimo, balsamico, quasi mentolato, dove la tostatura ha le note della nocciola (100% acciaio) e l'acidità conduce la bocca verso lidi di freschezza nordica. E ancora il premier cru Beauroy 2005, dove prevale la noce, dove la finezza prende le forme del fieno, e in bocca si allarga una cremosità non stancante. Poi, a salire, il premier cru L'homme mort 2005, decisamente una grande annata, da botte grande, fine, minerale, con accenni di agrume, nuovamente eleganti note balsamiche, sentori di mela cotogna. Etereo in bocca, leggero, equilibrato nella sua verticalità. Buonissimo. Note più dolenti per quanto concerne i vini più importanti, forse semplicemente ancora chiusi, scontrosi, adolescenti. Non ci è piaciuto il Grand crus Blanchot 2004 e nemmeno ci ha entusiasmato il Grand crus Grenouilles 2005, mentre il Grand crus Preuses 2001 si è aperto per noi su note di miele, mandorla, cedro, con una notevole tostatura, stavolta di legno, ma mai banale, e una acidità corrosiva e viva.
Assaggiamo e più assaggiamo più rafforziamo la nostra idea che Chablis sia un luogo dove lo Chardonnay è solo uno strumento al servizio del terroir, perché quasi mai sentiamo banane o ananassi o cocchi o vaniglie. Pochissimo si usa la barrique, a differenza della Cote d'or. Persino in aziende dall'impostazione "internazionale" come Albert Bichot, maison di media grandezza, con diverse cantine a coprire più denominazioni. Qui i vini base hanno un buonissimo rapporto qualità prezzo e una pulizia di esecuzione splendida e finissimi sentori floreali, di frutta fresca, di pera (il Petit chablis). Poi si fa sul serio, anche in fatto di prezzi. Col premier cru Vaucopin 2005 (10% di legno) ricco di sensazioni di erbe, fiori bianchi e pietra, con un ingresso in bocca morbido che si distende su una ottima e malica acidità per chiudersi su note di mandorla. Di nuovo lo spettro del Verdicchio. E si continua col Grand cru Le clos 2002: finezza allo stato liquido, fatta di cedro, fiori bianchi, pietra focaia. Gelsomino. Finissimo al naso, secco, asciutto, in bocca col classico finale tostato e una generale sensazione di ricchezza e cremosità e morbidezza dopo la deglutizione. Un grande. Infine il Grand cru Preuses 2002, dove predominano sentori più terziari, una evoluzione stupenda di terra umida, champignon, zolfo, muschio e cespugli aromatici. In bocca equilibratissimo, lungo, interminabile, con una tostatura da pane abbrustolito a prevalere sulla freschezza. Poco dopo ci attende il Domaine Oudin, vera sorpresa delle nostre degustazioni. Vignaiolo di razza, Oudin ha una cantina piccola ma pulitissima e che non manca di nulla. Vinifica solo in acciaio e ha i tratti del terroirista. Il suo Chablis 2006 sorprende immediatamente per note di idrocarburo, pesca bianca, mela acerba. Una acidità portentosa è bilanciata da una cremosità mirabile che ne fanno un esempio di stile e finezza. Al prezzo di 8 euro. Lo Chablis Le serres 2005, che è una cuveé rimasta sui lieviti un anno in più, appare all'inizio ridotto ma si apre immediatamente su note eleganti di cedro, limone, mela cotogna. E' minerale, lascia una bocca pulitissima. E' fragrante, lunghissimo nella ormai consueta chiusura tostata di mandorla e noce. Un bianco semplicemente superbo. Infine il premier cru Vaugirot 2004: un vino difficile, davvero chiuso, complesso. Sapidissimo, dritto, senza cedimenti morbidi, presenta note di funghi, tartufo, formaggio salato. Poi l'agrume, ma più scorze che frutto, e soprattutto limone.
Ed alla fine, che dire? Poche pippe, qui non si macera, non si copre di legni, non si fanno tagli strani. E ce ne andiamo di sera, in mezzo a un tramonto freddissimo, con la netta sensazione che Chablis sia davvero una delle Università del vino bianco.

lunedì 7 gennaio 2008

Il nuovo nato

Nur, che significa Luce in arabo ed è il secondo nome di mio figlio Giacomo, è ufficialmente in vendita. Alcuni amici e clienti già lo hanno assaggiato in anteprima a Vini di Vignaioli e a La Terra Trema e devo dire che i responsi sono stati lusinghieri.
Le uve provengono dalla sola vigna di contrada San Michele, la stessa de Gli Eremi. La vigna è condotta secondo il sistema guyot, con potatura corta e diradamento dei grappoli sino ad ottenere una resa per ettaro di circa 30 quintali (circa 25 Hl). La coltivazione secondo un rigido metodo biologico garantisce la massima espressione del terroir. Il vino verrà prodotto solo nelle annate in cui l'uva risulterà perfetta, soprattutto con riferimento alla buccia e alla maturazione fenolica. In questo senso il 2006 è stata la migliore annata che io ricordi nell'area dei Castelli di Jesi da quando ho iniziato a fare questo mestiere. Il vino proviene da una selezione di uve Trebbiano dorato, Malvasia toscana e Verdicchio vendemmiate in cassette in leggera surmaturazione. Il mosto fermenta insieme alle bucce in tini aperti, senza controllo di temperatura e con i propri lieviti, per circa una settimana. Dopo la svinatura la fermentazione termina in botti usate di rovere francese di piccola caratura per circa un anno. La vinificazione “in rosso” e la lunga permanenza sui lieviti apporta sentori evoluti di erbe, liquirizia, rabarbaro, sottobosco, funghi, miele. In bocca risulta morbido, caldo, con una sottile vena di tannino. La potenza alcolica viene equilibrata da una discreta acidità. Il prezzo sorgente sarà di 9 euro.

domenica 6 gennaio 2008

Obama e altro

L'Iowa, si sa, non conta granché. Ma un primo passo è stato compiuto. Credo che nessuno nel gruppo di Barack si faccia illusioni. Obama è un politico pragmatico e accorto, nonostante la giovane età, e sa che la strada è molto lunga, piena di insidie, e che la Storia non gioca certo a suo favore. Ma l'audacia della speranza può molto, per dirla col suo libro. E l'eventuale vittoria di Barack Obama alle primarie democratiche (non oso immaginare di più), sebbene ardua, è la cosa migliore che ciascuno di noi dovrebbe augurarsi per il 2008.
Poi vengo a sapere che Fabio Volo è lo scrittore più letto d'Italia. E che vuole un figlio, pur restando single. Ora, chi mi conosce sa che non sono propriamente un difensore della famiglia-borghese-cattolica. Ma che si possa volere un figlio restando single la trovo una delle affermazioni più schifosamente egoiste e irresponsabili che mi sia capitato di recente di ascoltare. Perlomeno la convivenza, cazzo. E chi ha un figlio sa di cosa sto parlando. Oltretutto mi sono volutamente fatto del male leggendo Un posto nel mondo, edito da Mondadori e acquistato senza farmi vedere in un Autogrill (con che faccia sarei andato dal mio libraio, infatti, a chiedere Fabio Volo?). Ora, il libro in sé io ci ho provato a trovarci dei pregi. Qualche bella frasetta, qua e là, c'é. Di quelle che strizzano l'occhio alle ragazzine. Ma è il libro di uno che è dieci anni che gli hanno detto di rappresentare la nostra generazione (quella nata negli anni settanta) e che non smette un attimo di provarci a farlo. Il fatto è che a me non mi rappresenta per un cazzo. E nemmeno a tutti i trentenni-sulla-via-dei-quaranta che conosco. E' un libro inutile e insipido. E pure è lo scrittore più letto d'Italia. Grazie Mondadori. Grazie Autogrill.

mercoledì 2 gennaio 2008

L'anno nuovo

Eccomi reduce dal consueto baccanale di fine anno, festeggiato con abbondanti libagioni in compagnia di amici amici e nonostante i molti virus in circolazione. Reduce, soprattutto, da un tour de force iniziato il 23 sera a Milano (Fedro ed io abbiamo finito col ritrovarci in Piazza Bologna alle tre e mezzo fra birre e salamelle, circondati da una città sempre più triste e vuota), continuato con pranzi e cene con famiglie più o meno allargate, proseguito con lunghe nottate musical/goliardiche e terminato l'uno mattina 2008 intorno all quattro e mezza. Ora, cosa ci spinga a tutto questo non l'ho mai capito fino in fondo. Ma ogni civiltà ha i propri riti e questo è uno dei nostri, dunque va bene così. Posso qui ricordare alcune delle cose che più mi son piaciute: il Montebianco della zia di Valeria (e relativo Sauternes 2003 non-ricordo-più-il produttore), i cappelletti in brodo di mia mamma, un ottimo Brunello di Montalcino Tenuta Caparzo 1986 dritto, asciutto, con sentori spiccati di cenere di tabacco e legno d'ebano, i classici peperoni della mia amica Marina, un coscio di agnello "asado", il mio brasato al Nocenzio, l'incredibile, vulcanico Pinot Nero Burlenberg 1999 di Marcel Deiss, e lo stupendo, salatissimo Champagne Brut Reserve non dosato di Raymond Boulard. Questo, ovviamente, oltre agli abbracci ed agli auguri delle persone che pù mi sono care. Detto questo, e in attesa di una stra-meritata vacanza, fra poco inizierò a programmare le potature. Ma un pensiero all'anno appena trascorso lo voglio fare. Prescindendo dalle felicità famigliari che sono mie e solo mie, voglio ricordare ciò che di buono è accaduto ai miei vini: la classifica stilata da Spirito di Vino che ha riconosciuto a Gli Eremi 2004 lo status di secondo miglior Verdicchio, la finale dei trebicchieri raggiunta dal Terre Silvate 2006, l'Etichetta assegnata dalla Guida al vino quotidiano sempre al Terre Silvate 2006. Ma soprattutto il giudizio e la soddisfazione dei miei clienti, quando mi chiamano o mi scrivono, per dirmi che hanno goduto. Perché per questo si fa il vino, per far godere la gente.
Concludo con i due dischi più belli del 2007 per il sottoscritto: Because of the times dei Kings of leon e Sky blue Sky dei Wilco. Diversissimi, ma entrambi dischi di grande rock. Il fatto che non sia l'unico a pensarlo dimostra che sono sempre più banale. Ma l'età è quella che è.

domenica 16 dicembre 2007

Ecco l'inverno

Questa è l'immagine con cui mi sono svegliato questa mattina. La Distesa sotto la neve è sempre molto affascinante, specie se non si ripetono nevicate storiche come quella del gennaio 2005. Ma l'immagine con cui chiuderò gli occhi stanotte sarà un'altra. Quella di capitan Maldini. Quando smetterà, fra poco, saremo tutti un pò più tristi e vecchi.


giovedì 13 dicembre 2007

Verso l'inverno


Giorni di pioggia, giorni sempre più freddi. Giorni di decomposizione, di ritorno alla terra, di forze discendenti. Ho sempre amato la fredda decadenza del tardo autunno, le giornate dalla luce scarsa ed evanescente, i primi freddi che poi non sono mai primi per davvero. Mi è sempre piaciuto l'odore di foglie bagnate, di terra umida, di sottobosco marcescente, di fuoco appena acceso, di cenere spenta, di legna affumicata.
In mezzo a tutto questo i vini nuovi fermentano ancora, lentissimamente, pericolosamente sul confine fra grandezza e perdizione. In mezzo a tutto questo In rainbows dei Radiohead è un disco contraddittorio, ma bellissimo nella parte finale, adattissimo alla stagione e a questi anni instabili. In mezzo a tutto questo c'è il Natale che arriva, inesorabile, noioso e sempre necessario a rinsaldare per un attimo appena comunità disperse, distratte, distrutte.

giovedì 6 dicembre 2007

Francia

Mancano ancora più di sei mesi agli Europei di calcio quando ci troveremo ancora di fronte i cugini francesi. Fino ad allora è possibile gridare "Vive la France!" bevendo i loro vini stupendi. D'altronde che siamo campioni del mondo non si discute. A pallone. Ma per quanto concerne i vini continuo a pensare che abbiamo ancora un pò di strada da fare, noi vignaioli italiani. Questione di terre ma anche di teste. Perché sui vitigni, non c'è storia; anche lì siamo campioni del mondo.
Sono tornato ancora una volta in quel di Beaune e Mersault, insieme alla solita compagnia di amici, ma orfani di Izio, sempre magico vice-segretario (in pochi sappiamo il significato recondito di questa carica onoraria).
In realtà stavolta la Cote d'or è stata solo un buon trampolino per conoscere realtà come lo Jura e Chablis, trovandosi più o meno a metà strada fra queste due regioni. Rimando ai prossimi giorni i commenti più precisi a vini e produttori. Oggi mi interessa soprattutto sottolineare come abbiamo assaggiato, con pochissime eccezioni, vini davvero superbi, anche in relazione al prezzo (certo scordiamoci i vini da 3 euro!). Vini con una identità spiccata e un eccezionale rapporto col territorio, sia che si fosse nella grande "tasting room" di una azienda da milioni di bottiglie, sia nello Chateau fico da centinaia di migliaia di bottiglie, sia nella grotta piena di muffe e ragnatele del piccolo vigneron. La sensazione, cioé, è che indipendentemente dalle dimensioni aziendali, queste regioni stiano resistendo in modo vigoroso e tangibile alla standardizzazione del gusto imposta negli ultimi anni, proseguendo sulla strada della tradizione.
In particolare Chablis, di cui conoscevo i vini ma non il territorio, è stata una rivelazione. Un luogo magico cui tornare in futuro. Un terroir fondamentale soprattutto per chi non si rassegna al dominio del "vino rosso" nell'immaginario collettivo. Abbiamo assaggiato vini davvero stupendi, dalla freschezza incredibile, dalla mineralità decisa, dalla vita lunghissima. Una qualità media impressionante, a fronte di prezzi molto elevati sui grand crus, ma decisamente alla portata per le denominazioni inferiori, specie nel confronto con certi bianchi di grido italiani.

giovedì 29 novembre 2007

Il fuoco sacro del rock'n'roll

Aspettavo Adam raised a Cain dopo quasi vent'anni ed è arrivata. Aspettavo Incident on 57th street ed è arrivata, con tanto di infinito e bollente assolo di chitarra finale. I pezzi del nuovo disco dal vivo spaccano. Ma soprattutto ieri c'era di nuovo il fuoco sacro, la luce accecante del rock'n'roll. Non aggiungo altro, perché è inutile. Chi c'era sa di cosa sto parlando. E chi non c'era forse non potrebbe capire.

mercoledì 21 novembre 2007

La Terra Trema a Milano

Venerdì partirò per Milano. Che per me significa ancora casa. Pranzi e cene da mamma, la mia vecchia cameretta, lo sferragliare notturno dei tram, qualche birra con gli amici di sempre.
L'occasione è la fiera La Terra Trema al Leonkavallo, ultima tappa del percorso di movimento un tempo chiamato Critical Wine. Insieme ad altri agricoltori proveremo a portare, ancora una volta, i tempi e le storie della campagna nel centro della metropoli. Qui trovate tutte le informazioni. Come sempre mi piace molto il lavoro teorico che sta dietro a questi eventi e l'elaborazione politica che vi si cela. Qualcosa di molto lontano dall'aria fritta del Partito Democratico. Micropolitiche della resistenza le chiamano gli organizzatori. Che colgono nel segno quando vedono nel distorto rapporto fra città e campagne, fra centro e periferia, uno dei principali nodi irrisolti della post-modernità, generatore di corto circuiti fra cultura e colture, fra Terra e alimentazione, fra globale e locale, fra uomo e macchina. A tutto ciò si cercherà di rispondere attraverso "vini e vignaioli autentici, agricoltori periurbani e gastronomie autonome", come recita il sottotitolo de La Terra Trema.
Vi aspetto, dunque, venerdì, sabato e domenica all'interno dello Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo dalle 15.00 alle 22.00 per degustare, chiacchierare, riflettere e anche divertirsi.

lunedì 19 novembre 2007

Lungo il Grande Fiume - Parte terza

Dopo la Maison Chapoutier restiamo nella parte Nord della Valle del Rodano per incontrare una serie di produttori più piccoli ma egualmente molto interessanti.
GEORGE VERNAY – Condrieu.
Forse perché arrivati in ritardo all’appuntamento, ma qui l’accoglienza è decisamente più fredda. L’azienda Vernay, diretta da Paul Amsellem, è nota per i suoi Condrieu. Purtroppo i vini più interessanti sono esauriti, dunque la panoramica non può considerarsi esaustiva. In generale, però, si può affermare che lo stile aziendale è certamente orientato verso una impostazione internazionale, specialmente per quanto concerne la Sirah.LES TERRASSES DE L’EMPIRE – CONDRIEU 2005
Un classico giallo paglierino introduce a sentori di banana un po’ banali. Al naso è comunque molto pulito e fine. In bocca è morbido, corretto, senza una grande persistenza. Il viogner si offre qui nella sua mielata rotondità un po’ noiosa.
LES CHALEES DE L’ENFER – CONDRIEU 2005
Si presenta in un giallo paglierino carico. L’olfatto è subito elegantissimo e fine con una pulitissima nota di pera, di buccia di arancia caramellata, di marmellata di agrumi. In bocca ha un ottimo equilibrio fra morbidezza e acidità. La chiusura è lunga e minerale, e lascia presagire un grande futuro. Davvero un grande bianco.
LES DAMES BRUNES – SAINT JOSEPH 2004.
Un vino internazionale, una sirah che potrebbe essere australiana, sebbene a sua difesa vale la considerazione di un imbottigliamento ancora troppo ravvicinato. La tostatura del rovere è in grande evidenza. Comunque molto pulito al naso e di buona concentrazione.
MAISON ROUGE – COTE ROTIE 2004.
Un colore rosso cupo dai riflessi violacei introduce un naso pulito dove spiccano le note di spezie dolci, di pepe nero, di piccoli frutti rossi. Emerge più la sirah che la Cote Rotie, ma forse è anche la gioventù. I tannini sono comunque finissimi e precisi. Presente ancora la nota vanigliata sebbene più integrata nel frutto rispetto al vino precedente. Un esercizio di stile che risulta in fondo un po’ fine a se stesso.
VINCENT GASSE – Ampuis.
Vincent Gasse è un vignaiolo come tanti ce ne sono in Francia e in Italia. Ex insegnante in un Istituto per periti agrari, si è dato alla viticoltura biologica perché ha conosciuto e insegnato direttamente l’agricoltura chimica della “rivoluzione verde”. Un modello che considera ormai superato e dannoso. A parlarci, non sembra un integralista. Non lavora in biodinamica perché “si fa troppa fatica”, e in cantina è naturale solo perché così ha sempre fatto ed il vino che ne risulta lo soddisfa. Poi, però, ci porta nelle sue vigne, che sono piccolissime parcelle di diversi vigneti, e d’improvviso si illumina e veniamo travolti dalla sua passione per la terra.
Le parcelle, specie le prime due che ci mostra, sono proprio sopra al paese di Ampuis. Hanno pendenze incredibili. Il Rodano, enorme e fascinoso, compie una curva in modo tale che la costa vignata sia rivolta a sud, protetta dai venti più freddi (Mistral). Sembra di essere sulla Mosella più ancora che in Valtellina, con salti nel vuoto davvero affascinanti. La vendemmia qui è arte alpinistica ed i trattamenti principali vengono fatti, collettivamente e con prodotti biologici su tutte le parcelle, in elicottero. Poi, chi fa agricoltura convenzionale, se lo vuole, tratta ulteriormente le proprie vigne. Quando ha iniziato, Gasse era il primo a fare agricoltura biologica ad Ampuis e, ancora oggi, è fra i pochissimi. I suoi vini sono vini veri ma anche vini tecnicamente ineccepibili.
In cantina, un classica cantina da vigneron francese, dapprima ci fa assaggiare alcune prove di botte che subito si distinguono per autenticità e dirittura. Poi ci apre alcune delle poche bottiglie rimaste di annate precedenti.
COTE ROTIE 2001
Il colore è un rosso rubino classico. L’olfatto è invaso da note di pepe verde, rosmarino affumicato e di polvere di cacao. Poi sotto alla speziatura sembra emergere una interessante vena minerale, di grafite e asfalto. In bocca è stupendo per la freschezza quasi balsamica che lascia in bocca, risultante di tannini forse ancora un pò spigolosi e di una acidità ben presente e sapida. Un vino che può davvero invecchiare a lungo.
CONDRIEU 2003
E’ un viogner classico dal naso esplosivo di miele di acacia, confettura di pesca ed albicocca che in bocca delude per l’eccessiva morbidezza. Il vino, sebbene secco, risulta quasi dolce, stanco, senza alcuna presenza di sali minerali. Qui forse c’è di mezzo anche l’annata.
DOMAINE LIONNET – Cornas.
Lionnet è un altro vigneron classico, proveniente da una famiglia di viticoltori a Cornas dal 1575. La sua azienda produce un unico vino in 10.000 esemplari all’anno, circa. Siamo di fronte a quella realtà contadina francese viva, pulsante, fiera della propria storia. Una storia mai rinnegata per un salto verso l’industria o il mito cittadino. Sono le migliaia di piccole aziende come questa a costituire l’ossatura di un sistema-vino che, al contrario del modello degli chateaux bordolesi, regge la competizione globale attraverso una qualità distintiva, la fede nel terroir e la capacità di rivolgersi ad una clientela privata che raramente li tradisce, anche nelle annate meno fortunate.
Gli assaggi da barrique del Cornas 2005 ci fanno scoprire l’essenza del crus di Cornas, il vino più “sudista” del nord del Rodano. E’ un rosso cupo, concentrato, con spiccate doti di invecchiamento (anche 20 anni) in cui la sirah emerge come vitigno in perfetto equilibrio tra finezza e potenza, meno minerale che in Cote Rotie, bensì più grasso e morbido.
CORNAS 2004
Un vino che appare un po’ chiuso. Ci spiega Lionnet che i Cornas vanno bevuti molto giovani oppure almeno dopo 5 anni, poiché attraversano una fase “intimista” nel passaggio fra il fruttato giovanile e i sentori terziari della evoluzione. Si apre comunque su fini note di pepe nero, curry dolce, resina. Poi, delicatamente, si fanno strada frutti di bosco appena accennati. In bocca è molto buono, già in equilibrio perfetto fra alcool, tannini e acidità. Comunque la chiusura è verticale ed elegante. E’ il vino di un vignaiolo di razza.

giovedì 15 novembre 2007

Vini di vignaioli - impressioni

La fiera è creciuta ancora. A sensazione, però, il maggior numero di produttori non si è tradotto in un aumento di presenze. Come sempre ottimo il cibo durante i pranzi comunitari, occasione eccezionale per scambiarsi opinioni fra vignaioli, specie in questo periodo post-vendemmiale. Davvero molto interessante è stato il convegno del lunedì, partecipato ed intenso. E' emerso chiaramente dal lungo intervento di Antonio Onorati come le politiche dell'Unione Europea stiano portando l'agricoltura sulla strada della concentrazione industriale dell'offerta. Al tempo stesso, però, sono emerse le grandi potenzialità dei piccoli vignaioli "artigiani", capaci di imporre la forza del "terroir", dei vitigni autoctoni, della propria irripetibile personalità. Questo dualismo insanabile tra grande industria e piccola viticoltura di qualità sarà la cifra dei prossimi anni, ponendo una grande parte delle aziende di medie dimensioni di fronte a scelte difficili ma cruciali. Per quanto concerne i vini, mi sono piaciuti molto, mi limito a vini che conoscevo meno, i vini dei ragazzi di Cà de noci (uva Spergola e Lambrusco), assolutamente piacevoli e ricchi di freschezza, i vini dell'azienda friulana I Clivi, specie il Tocai 1997 e 1999 e il Merlot 2000, il sauvignon della Cascina Zerbetta, acidissimo, il bordeaux 2003 di Chateau Planquette, concentrato ma non stucchevole, e il Macon Cruzille 2006 di Julien Guillot (da vigneto impiantato nel 1929).
In generale, ho assaggiato vini molto più puliti e "corretti" rispetto ai primi anni, segno evidente che anche nel mondo dei vini naturali la ricerca di una certa bevibilità, giusta e necessaria, si stia imponendo. Speriamo che non si traduca in un eccesso di conformismo.



sabato 10 novembre 2007

Ancora pensieri sparsi

Fermentazioni ancora in moto, infinite. Spero di uscirne indenne. Nuova offerta di pubblicazione per il mio romanzo "La musica vuota", ma sempre con clausola di acquisto di copie. Ci penserò su. Letture: "Gli Autonomi" edito da DeriveApprodi, molto bello e ostico, su quella incredibile follia collettiva che è stata l'Autonomia Operaia intorno al 1977; sono a metà de "L'audacia della speranza" di Barack Obama. Finora davvero un grande libro. Una prosa asciutta e decisa. Un politico vero. Magari ne parlerò più diffusamente dopo averlo finito. Musica: l'ultimo di Ryan Adams è un bel disco. Ancora: sto tenendo un corso sulla "Conoscenza del vino" il giovedì sera, a Cupra. Bella classe. C'è interesse, c'è una risposta, c'è una attenzione che non è da fighetti che vogliono darsi un tono al ristorante. Capire il vino per diventare consumatori più attenti ed informati. Questo è il senso, credo. Olive: raccolto mai così scarso. C'è appena appena un pò di olio per casa. Infine la classica cena/degustazione di fine vendemmia. Stappate molte bottiglie, cito solo il Barolo "Brumate" 1999 di Roberto Voerzio e il Gewurztraminer Vendemmia tardiva 1999 di Trimbach. Buono il primo, modernista, concentrato, ben pieno di frutto. Ci ha ricordato un bel vestito di marca; considerando anche il prezzo è mancata l'emozione che regala il Nebbiolo "di sartoria". Quello vero. Quello di una volta. Grandissimo il secondo. Con la sua dolcezza non banale, con la sua vivace struttura acida e minerale, con la sua incredibile freschezza e pulizia olfattiva. Per la serie: vino aromatico dalla straordinaria finezza.

sabato 3 novembre 2007

Lungo il Grande Fiume - Parte seconda

Ecco la seconda parte del reportage sulla Cote du Rhone 2006, in attesa di partire a fine novembre con destinazione Jura e Chablis. Le degustazioni sono state effettuate dal sottoscritto in compagnia di Alessandro Fenino, Andrea Bianchin, Fabrizio D’Auria. Questa seconda parte è incentrata sulla Maison Chapoutier a Tain l’Hermitage.

Alle ore 10.00 entriamo nei locali della Maison M. Chapoutier, uno dei mostri sacri della viticoltura della Cotes du Rhone. Alcuni di noi ancora ricordano una memorabile degustazione di qualche anno fa, dunque le aspettative sono molto elevate. Abbiamo fissato un appuntamento dall’Italia per cercare di capire a pieno i segreti di questo colosso della agricoltura biodinamica.
Il sommelier Sebastien Dreville, uno dei responsabili dell’accoglienza, ci guida dapprima nei leggendari vigneti della collina dell’Hermitage. Inizia a parlare delle ere geologiche che l’hanno creata e della fondamentale divisione in due grandi parti, divise da una frattura geologica. A ovest predomina il granito, ultimo bastione del Massiccio Centrale, in molte delle sue differenti articolazioni. A Est è il calcare proveniente dalle Alpi a farla da padrone. I vigneti sono impressionanti, per la pendenza, le densità di impianto, la scarsità di sostanza organica. In certe parti le radici affondano dentro una vera e propria “sabbia di granito”.
“Il terroir è la combinazione del suolo, del clima - che segna il millesimo - e della conoscenza che deriva dalle tradizioni. Senza l’uomo non c’è il terroir. L’uomo fa il terroir. O lo distrugge”. In questa frase di Michel Chapoutier, riportata su ogni pubblicazione della maison, sta lo stile della azienda. In una sorta di umanesimo che vede l’agricoltura come un fatto culturale, dove è fondamentale l’interpretazione umana del dato naturale, risiede la sua caratteristica più profonda. Per cui la biodinamica diviene un mezzo per produrre grandi vini di territorio, e non il fine ultimo su cui basare tutta la propria azione. Così accade che non in tutte le vigne dell’azienda si faccia biodinamica. E che in cantina non si disdegni l’uso di lieviti selezionati, se l’uso dei lieviti indigeni per qualche ragione (annata, stato delle uve, tipo di vigneto) risultasse distorcere l’espressione del terroir. Stessa cosa per l’uso della solforosa, evidente anche in degustazione, specie sui bianchi, e legato al mantenimento di una incredibile longevità dei vini della azienda.
Sono considerazioni che fanno storcere il naso ai puristi dei vini naturali/biodinamici ma che nel contesto di una azienda che produce nel complesso milioni di bottiglie meritano, a nostro avviso, una certa considerazione. E’ un approccio interessante soprattutto in confronto a una realtà italiana sempre più dominata da una netta contrapposizione fra grandi aziende dove regna la chimica più sfrenata e piccoli viticoltori in cui l’idea forte di vino naturale può condurre a volte ad una eguale standardizzazione provocata dalle estreme ossidazioni, da macerazioni eccessive, da forti riduzioni. Con relativa perdita delle caratteristiche del terroir.
I vigneti della maison vengono tutti separati in parcelle a seconda del tipo di suolo/esposizione e le uve ottenute vengono vinificate separatamente. I grandi vini sono ottenuti da parcelle di vigneto (alcune dei quali con viti pre-fillossera) sulle quali non si opera alcun taglio. In generale i bianchi vengono da suoli più calcarei, e tale regola è stata riscontrata anche per altri produttori e in altre zone della denominazione Cotes du Rhone.
La visita alla cantina (una delle quattro della maison, la più a nord e la più piccola) conferma l’idea di una impostazione tradizionalista (uso di grandi tini di legno aperti per la macerazione dei rossi) senza alcuna predominio della tecnologia, ma di una grandissima attenzione ai particolari e alla tecnica enologica. In generale, i vini rossi compiono una breve macerazione pellicolare prima dell’avvio della fermentazione alcolica tumultuosa, con una diraspatura solo parziale delle uve a seconda del grado di maturazione dei raspi (entrambe queste caratteristiche vengono confermate anche in altre realtà). Nei bianchi viene privilegiata la pressatura soffice di uve intere senza alcuna macerazione.
La degustazione dei vini aziendali viene suddivisa in due giornate. Il primo giorno ci vengono sottoposti alcuni dei più importanti vini della azienda. Il secondo giorno assaggiamo i vini più semplici. E’ possibile affermare che si tratta di prodotti dallo stile inconfondibile. Dove, accanto alla incredibile pulizia e perfezione tecnica, è possibile ritrovare l’espressione distinta dei vitigni, dei suoli e delle stagioni in un continuo susseguirsi di complessità e diversità di caratteri. Questo ci ha stupito in particolar modo nei prodotti più accessibili (sia in fatto di gusto che di portafoglio) dove è stato davvero possibile elevare in modo emblematico a pietra di paragone, la sirah del Saint Joseph Deschants 2005, la grenache del Rasteau 2004, il viogner del Saint Peray Les Tanneurs 2005. Oppure il Crozes Hermitage Petite Buche blanc 2005 nella sua inconfondibile sapidità calcarea e il Tavel Beaurevoir rosé 2005 con un naso finissimo di mora e fragola.
Ancora, tale azienda pare confermarsi emblema della zona per il generale minore impatto destato in noi dai vini bianchi. Cosa strana in Francia, ma che contraddistingue una regione in cui Viogner, Marsanne e Roussanne, accanto a sensazioni olfattive sempre fini ed eleganti, tendono però a mancare sempre di quella vena acida che conduce al minerale.
INVITARE – CONDRIEU 2005
100% Viogner.
Al naso subito pulitissimo e fresco, si distingue per una nota spiccata di pera. Poi di frutta secca e albicocca con un ritorno balsamico molto intrigante. L’attacco in bocca è molto pulito, sapido con una discreta acidità e la totale assenza di note vegetali o amare. Il vino è secco, dritto, si apre solo alla fine su note agrumate. Manca, forse, di una mineralità spinta al palato, compensata però da una materia perfettamente integra.
CHANTE ALOUETTE - ERMITAGE 2004
100% Marsanne.
E’ un vino più morbido del precedente. Emerge una nota di solforosa appena accennata a coprire sentori di miele e pasticceria secca. In bocca il vino è morbido ma lunghissimo. Il frutto (fico e albicocca accanto a note mielate) è ancora un po’ coperto dal legno e da sentori sulfurei. E’ un vino che ha una vita lunghissima davanti e che mostra solo parte della sua potenzialità.
DE L’OREE – ERMITAGE 2001
100% Marsanne.
Vino proveniente da vigne che hanno fra gli 80 ed i 100 anni con una resa per ettaro di 15 hl. Al naso si presenta immediatamente con una piacevole nota sulfurea di terra, quasi tartufata. Poi si apre su note di pasticceria secca, su sentori affumicati, di miele di acacia che evolve verso il caramello. In bocca è concentrato, con una persistenza infinita. Vi è una morbidezza forse eccessiva, condotta anche da note di tostatura di legno. Ma poi i continui ritorni di agrume dolce, di albicocca secca e di miele tendono a dominare sul rovere, sebbene l’incredibile lunghezza non sembri essere supportata da una struttura acida/sapida adeguata.
LES BECASSES – COTE ROTIE 2004
100% Sirah.
Il vino si presenta di un rosso rubino acceso, fiammante. Al naso è dapprima un po’ chiuso. Quando si apre lo fa su sentori animali, poi di pepe e di ciliegia. Quando si apre completamente prendono il sopravvento sentori elegantissimi di ribes e uva spina. E’ un vino dalla straordinaria finezza che in bocca appare concentrato ma setoso, i cui tannini - pur ancora giovanissimi - sono già dolci e dove l’amaro è completamente assente. La chiusura in bocca è secca e senza alcun cedimento. Al naso prorompono note di pepe verde, di origano e di chiodo di garofano, quasi balsamiche, che lasciano poi il palato fresco e pulito. E ‘un vino con almeno dieci anni di vita davanti.
LA SIZERANNE – ERMITAGE 2004
100% Sirah.
E’ uno dei vini simbolo dell’azienda. Un Hermitage che proviene da parcelle poste nella parte bassa della collina e che vede una dominanza di sedimenti limosi e argillosi alluvionali del Rodano. In alcune parcelle vi è predominanza di granito, in altre di calcare; un terroir meno estremo rispetto alle altre parcelle in Hermitage e che, quindi, necessita di un invecchiamento inferiore per esprimersi.
Al naso emerge subito in modo più netto rispetto al vino precedente. Viola, petali di rosa appassita, prugna lasciano presagire un vino che si presenta già maturo. In bocca è pieno, concentrato. I tannini sono impetuosi ma assolutamente morbidi. Una nota sapida conduce a un finale un po’ amaro, forse sulfureo. Nel ritorno al naso l’amarena lascia il posto ai tipici sentori speziati della sirah dove spiccano il curry ed il pepe nero.
LA MORDOREE – COTE ROTIE 2000
100% Sirah.
Il colore è di un rosso rubino scuro. All’olfatto è subito pulitissimo. I ripidi terrazzamenti della Cote Rotie offrono sentori intriganti: inchiostro, sangue, viola. Poi è la sirah a regalare note finissime di pepe e zenzero assieme a sentori di ginepro, di cannella, di liquirizia. Poi dopo qualche momento evolve ancora verso sentori di pasta di olive, di cuoio e di polvere di cacao. In bocca ha tannini memorabili, nel pieno della loro potenza ma già vellutati. E’ un vino terroso, caldo, ma di una finezza assoluta. Verticale nonostante la struttura tannica e l’alcool, non concede alcuno spazio ad una facile morbidezza ma è anzi un inno alla complessità. Un vino che ha davanti a sé quindici anni di gloria.
LE MEAL – ERMITAGE 2000
100% Sirah.
Hermitage proveniente da parcelle poste circa a metà della collina, dunque con terreni meno sciolti, ricchi di scheletro, roccia madre, cristalli di quarzo. Uno scontro di ere geologiche dominato dalla lotta fra il granito ed il calcare scavati dal Rodano.
Il colore del vino è un rosso cupo, quasi impenetrabile. E’ subito liquoroso, con sentori terziari di frutta sotto spirito. La speziatura è qui chiusa, quasi affumicata. Il naso è complesso ma ancora intimo, introverso. Elegante. Lasciato nel bicchiere esprime note finissime di cioccolato fondente e tabacco, di pepe e di mirtillo. In bocca è pieno, potente e caldo. La maestosa concentrazione è comunque fine, non stanca, invita anzi alla beva in virtù di una mineralità sotterranea che rende il vino armonico. Un grande vino che è solo all’inizio di una lunga vita.