Era la sera dell'8 maggio 1982 quando il telegiornale diede la notizia della morte di Gilles. Per me, come per moltissimi altri, era una divinità, un eroe, una figura mitologica. Non era possibile, non era giusto. Avevo dieci anni, mi chiusi in camera, mi sdraiai sul letto e piansi disperatamente. Forse l'ultimo pianto da bambino. Fu la prima e definitiva presa di coscienza dell'esistenza e della irrevocabilità della morte; in qualche modo uno spartiacque.
Ho appena finito di leggere "Il piccolo aviatore" di Andrea Scanzi. Un bel libro che ripercorre la vita di Gilles, la sua follia, il suo romanticismo. Quel folle sogno, che fu di James Dean e di Jim Morrison, di superare il limite, di vivere sempre all'estremo, di varcare le porte della percezione. Controllare l'incontrollabile, sfidare la ragione: forse per questo dopo Gilles mi sono piaciuti piloti diversi. Non Senna, non Mansell, non Hamilton. Perché di Gilles non ce ne saranno mai più e allora tanto vale gustarsi la razionalità dei Prost, degli Alonso, dei Button.
"In quella gara la Ferrari aveva montato un motore sperimentale sulla sua macchina. C'era solo quell'unico esemplare, era importante rimanere in gara molti giri, per provarlo.
Forghieri chiese a Gilles di non curarsi del Gran Premio: dimenticati il piazzamento, pensa solo a collaudare il motore per 300 chilometri. Villeneuve disse sì. Ma superò quattro macchine alla partenza. Poi cercò di superare la quinta. La quinta era l'Alfa di Giacomelli. La centrò in pieno. Volò prima in aria, poi sulle gomme di protezione della curva Tarzan.
Non aveva percorso neanche un chilometro".
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