sabato 30 maggio 2009

Fuori dalla crisi?

Le cifre scivolano via. E quasi non si fa più caso al loro significato più profondo. Prodotto Interno Lordo 2008 -1%, Prodotto Interno Lordo 2009 -5%, disoccupazione nel 2010 al 10%, tassi di interesse prossimi allo zero, inflazione ai minimi da più di 40 anni. E’ il bollettino di guerra della relazione del Governatore della Banca d’Italia di ieri. Ovviamente i media si sono lanciati sui segnali di ripresa, sull’inversione di rotta, sulla ritrovata stabilità dei mercati finanziari, ed è giusto così. Siamo nel fondo della peggiore crisi del capitalismo dagli anni trenta del novecento (perché questo è quello che ci dicono i numeri a livello mondiale) ed è del tutto chiaro che si tenti di sopravvalutare i segnali della ripresa. La realtà, però, suggerisce grande cautela. La disoccupazione è in crescita, ed è una naturale risposta del mercato del lavoro al crollo dell’economia. Ma gli effetti della disoccupazione in termini di caduta del potere di acquisto e, dunque, di ulteriore calo della domanda, si protrarranno nel tempo e in questo contesto i governi, essendosi già dissanguati per rifinanziare le banche, avranno grossi problemi nello sviluppare politiche di sostegno dei redditi e di contrasto della disoccupazione.
Quello che, però, appare più preoccupante è che il flebile ottimismo tornato sui mercati sembra offuscare ogni ragionamento, che pure era cominciato, sulla natura sistemica di questa crisi. Come se, dopo i naturali rimbalzi delle borse rispetto a quotazioni che erano in certi casi quelle di più di dieci anni fa, si possano agevolmente dimenticare o, peggio ancora, travisare, le cause di questa crisi.
Gran parte dell’establishment economico ci racconta che la crisi è stata colpa di alcune banche “impazzite”, di un mercato americano che ha perso il controllo, di speculazioni finanziarie mal controllate. In definitiva, detta così, parrebbe un accidente di percorso all’interno di un sistema altrimenti sano e valido. Eppure un calo della ricchezza nazionale del 5% in economia è un fatto moltorilevante, se non devastante, specie in un paese come l’Italia dove la dinamica salariale è ferma da anni. In realtà la spiegazione “finanza malata” è vera ma fino ad un certo punto.
Come diversi economisti progressisti hanno fatto notare (Rubini, Stiglitz, Krugman, Napoleoni, ecc.) in realtà la “finanza malata” è stata un effetto di alcune precise politiche economiche. La cosiddetta “economia dell’offerta” degli anni ottanta: una ideologia politico-economica (chiamata poi neo-liberismo) che ha letteralmente messo le chiavi della crescita economica nelle mani dei banchieri centrali e delle istituzioni finanziarie. Bassi tassi di interesse, bassa inflazione, basso livello di tassazione, privatizzazioni, scarsa regolamentazione dei mercati finanziari sono divenuti i principi di un paradigma economico che ha retto per quasi trent’anni e che, ovunque nel mondo, ha avuto l’effetto di elevare le rendite, abbassare i salari reali, aumentare il debito di imprese e famiglie, creare una crescita economica artefatta perché trainata da settori che si prestano naturalmente a bolle speculative (edilizia e finanza in primis). Quello stesso paradigma veniva poi adottato dagli organismi internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale innanzitutto) che ne applicava i principi anche nei paesi in via di sviluppo distorcendo in modo significativo le economie dell’intero pianeta.
La crisi era già in atto prima di settembre 2008 quando esplose in modo devastante con il fallimento di Lehman Brothers. Una crisi certamente legata ai problemi del credito e, dunque, al sistema finanziario. Problemi che, però, a loro volta nascevano da una assoluta sproporzione nel peso assunto da tale settore nelle economie nazionali, dove da troppi anni i consumi e gli investimenti anziché derivare da potere di acquisto reale (salari e risparmi) si sono basati sull’indebitamento (privato e pubblico). A tutto ciò si aggiunga che interi settori dell’economia produttiva, come quello fondamentale dell’energia, sono rimasti privi per anni di sostanziali e reali innovazioni e che in qualche modo gli enormi disavanzi pubblici derivanti dai salvataggi bancari dovranno essere ripianati. Si può facilmente intuire come la crisi del capitalismo, dell’ultimo capitalismo, sia lungi dall’essere superata.
Oggi molti di coloro che più evidentemente si erano esposti verso politiche neo-liberiste tessono le lodi dell’intervento pubblico in economia e parlano di protezionismo e di regole per i mercati. Fra destra sociale e sinistra liberale, tutto oggigiorno si confonde. Ma è una facciata. Tutto cambi perché nulla cambi. Ci attendono le elezioni europee. Per un parlamento che vede Popolari e Socialisti essere più o meno egualmente responsabili delle politiche di questi ultimi anni, nel bene (lo Stato sociale non si è dissolto) e nel male (l’Unione Europea è stata basata su solide basi monetariste e neo-liberiste).
In una campagna elettorale assolutamente priva di contenuti è scomparso il tema delle grandi riforme economiche, come se la crisi fosse già un lontano ricordo. Una nuova indicizzazione dei salari? Una tassazione internazionale delle rendite finanziarie? Un nuovo sistema di cambi fra vaste aree monetarie (dollaro, euro, yen, yuan)? Un grande piano per le energie rinnovabili, l’innovazione e la ricerca? La nazionalizzazione di una parte del sistema creditizio? L’unione europea delle politiche fiscali e non solo di quelle monetarie? Intanto abbiamo salvato il salvabile, si dice, poi si vedrà.
Intanto, la decrescita si è materializzata. Non più nei libri e nelle disquisizioni di qualche radical-chic di sinistra che sogna una nuova economia. Ma in una recessione dura che non trova spazio sulle televisioni o nei giornali e che secondo il linguaggio freddo degli economisti si riassume in un numero: -5% nella misura del nostro benessere materiale.
Non resta che attendere i risultati del voto per capire quali indicazioni i cittadini europei vogliano dare alla classe politica. In Italia, purtroppo, lo sappiamo già.

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